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Che cosa non possono fare i computers

Hubert Dreyfus
Armando Editore, Roma 1988
ISBN:
887144003X

What Computers can't do: The limits of Artificial Intelligence, Harpers and Row Publishers, New York 1972


L'edizione riveduta ed ampliata del libro di Hubert Dreyfus, professore di Filosofia all'Università di Berkeley in California, uscì lo stesso anno, il 1979, dell'opera "limite" dell'Intelligenza Artificiale di Douglas Hofstadter, dove troviamo questo rilievo: «L'ambiente dell'IA e Dreyfus hanno un rapporto di forte antagonismo. È importante che ci siano persone come Dreyfus, anche se risultano estremamente irritanti» [1]. In effetti l'opera di Dreyfus è una critica serrata dei presupposti dell'IA. Essa rappresenta ancora, nel panorama delle opere critiche, la più efficace e articolata analisi sui fondamenti teorici delle ricerche sulla IA e dell'ottimismo scientistico che la motiva e sostiene.

Nelle sue argomentazioni Dreyfus non è stato spinto dal pregiudizio anti­tecnologico, come qualcuno ha sostenuto. Egli riconosce l'utilità di certe realizzazioni ingegneristiche per il potenziamento dell'intelligenza umana, e auspica una collaborazione tra uomo e computer che crei condizioni per il miglioramento della vita. La tendenza antiscientifica, in realtà, si esprime come motivo antintellettualistico di origine esistenzialistico-ermeneutica, come recupero delle istanze filosofiche più critiche nei confronti del pensiero calcolante e della razionalità strumentale. Prima di passare all'analisi del testo, va fatta una breve premessa.

        

Una renovatio della "filosofia del soggetto"

Dreyfus appartiene a quel gruppo di filosofi americani tra i quali Rorty – fautore di un nuovo pragmatismo per cui la realtà è "discorso" e l'uomo poiesis , Margolis, Nagel e Greene, impegnati in un'opera di rinnovamento culturale in direzione di una "filosofia del soggetto". In reazione al riduzionismo fisicalista, al biologismo, al realismo materialistico, alla information processing theory (insomma, alle varie sfaccettature dello scientismo neopositivista che aveva egemonizzato la cultura filosofica americana), viene recuperato il discorso sulla coscienza, dimensione "repressa e censurata" del pensiero contemporaneo. Tra i motivi di questa tendenza ricordiamo: il riconoscimento della autonomia del mentale, della sua irriducibilità al fisico; la valorizzazione dell'esperienza privata, qualitativa, soggettiva, e del linguaggio psico-esistenziale; la concezione della intenzionalità, come dimensione peculiare dell'uomo non più inteso come macchina o organismo, ma come ente "libero e agente" con i suoi particolari valori, scopi ed esperienze; la teorizzazione del soggetto come persona culturalmente e socialmente caratterizzata.
Venendo al testo, l'idea centrale del lavoro di Dreyfus si può cosi riassumere: scopo dell'IA è la realizzazione del principio cardine di duemila anni di storia del pensiero occidentale; la completa intellegibilità del mondo attraverso il dispiegamento della ragione e la formalizzazione della conoscenza.

II "progetto cibernetico", secondo Dreyfus, ebbe inizio con Platone che separò il mondo delle idee intellegibili dal mondo delle cose sensibili, l’anima-verità dal corpo-opinione. Ne scaturì la "deviazione" teoretico-gnoseologica del sapere, per cui da allora si ricerco «la struttura razionale dell'azione» (p.128). Con la scienza moderna e il suo paradigma fisico-matematico, la formalizzazione e l'autonomizzazione della conoscenza trovarono la loro massima espressione, come volontà meccanicistica di imporre regole al mondo. Con l'algebra di Boole il ragionamento trovò la forma descrittiva matematica necessaria a introdurre certezza e rigore quantitativo e a porre le basi della risoluzione (nel sogno del "calculemus" di Leibniz) di ogni problema o controversia. Infine, il computer digitale offrì la tecnologia che mancava alle "ambizioni dei filosofi". Le macchine fisiche manipolatrici di simboli, rappresentati mediante stati discreti, dimostravano praticamente che il pensiero non è altro che mera attività di trattamento dei dati. La storia della metafisica occidentale appare in sostanza come la storia della progressiva oggettivazione dell'uomo, attraverso l'eliminazione dell'incertezza e la manipolabilità universale degli oggetti.

Dice Dreyfus (che si richiama spesso al filosofo dell'esistenza): «Heidegger è primo a richiamare l'attenzione sul modo in cui all'inizio la filosofia si è impegnata a cercare di trasformare le condizioni tramite le quali viviamo in oggetti da contemplare e da controllare» (p. 373). L'autore di Essere e tempo è punto di riferimento imprescindibile per coloro che, come Dreyfus, fautori di una critica radicale dei fondamenti epistemologici della civiltà della tecnica, non ammettono principi e valori trascendentali e spirituali. La metafisica, ponendo l'essere sullo stesso piano dell'ente, oggettivandolo, visibile all'occhio dell'intelletto, avrebbe trovato il suo compimento nella tecnica moderna come totale assoggettamento e strumentalizzazione del mondo nella scomparsa di ogni differenza tra realtà vera e realtà empirica.

Dal pensiero come escogitazione tecnica riconosciamo soltanto la natura umana come meccanismo: «Se realmente noi siamo alia vigilia della creazione di un'intelligenza artificiale, allora siamo vicini ad assistere al trionfo di una concezione speciale della ragione» (pp. 135-136). E, dice ancora Dreyfus, «se il paradigma del computer diventa cosi forte che la gente comincia a ritenersi una specie di dispositivo digitale, allora [...] gli esseri umani diventeranno lentamente simili alla macchina» (p. 379).
Insomma, nella società dell'informazione e della conoscenza, Dreyfus intravede per l'umanità il rischio di dover affrontare non « l'avvento di computer superintelligenti, ma l'avvento di esseri umani non-intelligenti» (p. 379).
Dal profilo storico tracciato da Dreyfus vogliamo qui ricordare i due momenti fondamentali della svolgimento delle ricerche di IA: la simulazione cognitiva e la rappresentazione della conoscenza.

La simulazione cognitiva, fase d'avvio (anni '60) dell'IA, fu caratterizzata dalla fiducia piena e diffusa, sull'onda delle prime realizzazioni pratiche su computer (dimostrazione automatica di ragionamenti logico-matematici), che fosse maturo il tempo della riproducibilità dell'intelligenza e della comprensione definitiva, mediante simulazione su macchine, dei meccanismi profondi del pensare. Si tentò allora (Simon, Newell) la costruzione di un risolutore generale dei problemi che imitasse le procedure di ragionamento di un soggetto umano, il quale quando prova a risolvere un problema non segue un cammino predeterminato, una sequenza rigida di istruzioni (razionalità limitata). Nei processi complessi di ragionamento vengono messe in atto delle procedure euristiche, di valutazione e scelta di strumenti e percorsi (alternative) utili a ridurre la differenza tra la situazione iniziale e la situazione finale (obiettivo). Si tratta di strategie sequenziali per prove ed errori e approssimazioni successive, con ricerca, elaborazione e memorizzazione delle informazioni.
Simone, Newell partivano dal presupposto che l'attività intelligente fosse interamente formalizzabile, traducibile in applicazioni di opportune operazioni su elementi discreti. Quindi, attraverso indagini sperimentali si potevano estrarre regole euristiche e costruire algoritmi soddisfacenti, cosi da rendere programmabili persino i processi complessi del pensiero, sottraendoli all'alone della misteriosità.
Questo ambizioso programma, ed anche altri delle origini dell'IA (traduzione automatica; riconoscimento di forme), come argomenta Dreyfus, si scontrò inesorabilmente non soltanto con l'immane difficoltà tecnica di sottoporre ad analisi e rendere computabili le attività intelligenti "formali-complesse", ma con il fatto che automatizzazione e contestualità si respingono. L'intelligenza ha un aspetto idiografico, è legata al contesto, è anche capacità sociale e intelligenza pratica. Ad es. la distinzione tra essenziale ed accidentale nella risoluzione dei problemi è il risultato di motivazioni ed intuizioni soggettive, di capacità connaturate al nostro "essere in situazione". Wittgenstein, l'altro filosofo caro a Dreyfus, ha parlato di "rappresentazione perspicua". Come afferma Dreyfus: «La distinzione tra essenziale ed accessorio è una forma di "trattamento dell'informazione" tipicamente umana, indispensabile all'apprendimento come alla risoluzione dei problemi, che non si riduce semplicemente a delle tecniche meccaniche di ricerca, capaci di operare unicamente dopo che questa distinzione sia stata fatta» (p. 186).

Per quanto riguarda il riconoscimento di forme, Dreyfus fa le sue obiezioni della "Theory ladenness of perception" (tra gli ispiratori: la psicologia della Gestalt e Karl Popper) all'induttivismo neopositivista, riportando un esempio classico, quello dell'“anatra-coniglio", che esemplifica la tesi della natura ''teorica" di ogni osservazione. Contro la presunta indipendenza e neutralità dei fatti e dei dati sensoriali, si concepisce la realtà come pregna di aspettative e pregiudizi. Gli oggetti del mondo sono immediatamente costituiti dai significati e dalle nostre oggettivizzazioni; non stanno in un "mondo di mezzo", o terzo mondo tra quello della fisica e quello degli uomini, isolati, istantanei, privi di significato, meri input da trattare, come sostiene, tra gli altri, il fondatore del cognitivismo psicologico, U. Neisser (Conoscenza e realtà. Un esame critico del cognitivismo, Il Mulino, Bologna, 1981).
Dreyfus riprende la teoria linguistica del "secondo" Wittgenstein (quello delle Ricerche filosofiche e di Della certezza) che riconosce l'estrema parzialità della riduzione del parlare sensato alla mera descrizione scientifica. Rigettando la concezione strumentale-oggettivante-denotativa del linguaggio (è il linguaggio-informazione che fa progettabili le macchine pensanti), della natura indicativo-cosale della proposizione (come raffigurazione del fatto, immagine logica della realtà), della stabilita e univocità del concetto, l'approccio "ermeneutico" di Dreyfus radica la parola nella vita pratica. L'attività di definizione delle cose è ricondotta ai processi concreti culturali ed emotivi della soggettività umana, dove il linguaggio è forza attiva e creativa.

A questo proposito va riferita la critica ai tentativi di creare una logica non deterministica e bivalente, ma liberata da vincoli dell'inferenza deduttiva, tipo la "Fuzzy Logik" o del ragionamento approssimato di Zadeh.
In questa teoria, ove la precisione è inversamente proporzionale alla certezza, l'appartenenza di un membro ad una classe è "sfumata" in un continuum di valori possibili. «Ma - nota Dreyfus - i lavori di Zadeh definiscono ancora la classe in funzione dei tratti specifici» (p. 201). lnvece, «per essere capaci di identificare l'appartenenza ad una famiglia, non è affatto necessario elencare qualche tratto in comune tra i due membri della stessa famiglia, né c'è qualche ragione per supporre che tali tratti esistano» (pp. 196-197). Riformare semplicemente la logica tradizionale, si evince dal discorso di Dreyfus, non pregiudica il dogma del ragionamento formale: la negazione del senso soggettivo e degli stati affettivi per la determinazione della conoscenza e della intelligenza.
Per concludere, parlare di "intelligenza" delle macchine e il risultato di un ragionamento fallace, del "mito del primo passo", ovvero dell'arbitraria generalizzazione e valorizzazione dei primi risultati ottenuti nella automazione delle attività acontestuali di tipo "associativo" e "formale-semplice" (come se, per usare la metafora dell'autore, salire su un albero fosse un primo passo verso la luna).

        

Il confronto tra "frame" e "noema"

Le successive ricerche (anni '70) in IA si orientarono sempre meno verso la costruzione di "macchine cibernetiche", secondo criteri di imitazione biologica. L'obiettivo si spostò progressivamente sulla rappresentazione della conoscenza, al fine di dotare le macchine di intelligenza in ambiti specifici, di programmi capaci di simulare le competenze di un esperto o le modalità cognitive con cui riconosciamo un oggetto o anticipiamo un evento. II problema fu di «aggirare la logica» (Minsky), in quanto si identificava l'intelligenza non con il ragionamento logico-matematico, ma con la capacita di apprendere e adattarsi all'ambiente, con il fare inferenze basandosi su evidenze parziali, con il tener conto del senso comune, e così via. Si addiveniva a un "cartesianesimo informatico", a un conoscere per modelli, in base al principio che l'attività cognitiva fosse un operare di costrutti mentali sui mondo. II nuovo approccio fece «compiere all'IA un passo avanti, dalle tecniche di trattamento dell'informazione, ad un metodo che cerca di tenere conto delle interazioni che si stabiliscono tra il soggetto ed il suo mondo» (p. 77).
Dreyfus fa un interessante confronto tra il concetto di frame (1975) di Minsky, il massimo teorico dell'IA (La società delle menti, Adelphi, Milano 1989) e Husserl, il fondatore della Fenomenologia. II frame, il più noto degli schemi cognitivi per organizzare e strutturare la conoscenza, è una struttura concettuale a priori che informa su proprietà e relazioni di oggetti o situazioni stereotipate, operando come regola di interpretazione dell'esperienza, mediante le aspettative generate dal ripresentarsi costante di connessioni oggettive. Quello di Minsky è, per l'autore, uno dei molteplici tentativi fatti per rappresentare la conoscenza optando per una forma ("analogica") più adatta alla peculiarità del ragionamento umano.

Il "noema" di Husserl è l'oggetto intenzionale della coscienza, nella sua irriducibilità al dato della sensazione. Come decisamente sostiene Dreyfus «il suo "noema", o anticipazione percettiva, rassomiglia ad una regola o un programma per un aspetto fondamentale: esso esiste nella mente, o nella coscienza trascendentale in modo indipendente rispetto all'esperienza che struttura » (p. 340). Questa "anticipazione" ci rivela la natura duale della "cosa", che si costituisce nel rapporto tra orizzonte interno ed orizzonte esterno, tra nucleo evidente e sfondo. Dice ancora Dreyfus, «Husserl avanza l'idea che quando identifichiamo un oggetto noi conferiamo un significato globale già assai preciso - un "noema"- a ciò che non era fin qui altro che un oggetto di sensazione indeterminata, anche se determinabile. Dopo di che noi ci sentiamo in dovere di apportare delle precisazioni a questo significato globale [...]» (p. 349).
Va da sé che lo Husserl inserito tra i precursori dell'IA e accusato di mentalismo e apriorismo non è il notevole critico del pregiudizio del "fatto"' né quello della Crisi delle scienze europee. In questa opera egli contrappone il "mondo della vita", esperienza precategoriale dei soggetti concreti, al mondo della scienza, nelle cui astrazioni e tecnicismi si è smarrito il senso universale: l'essere la scienza una costruzione dell'uomo e per l'uomo. Lo Husserl che più si attaglia al "cartesianesimo informatico" è quello delle ontologie regionali (Idee), più intenzionato a considerare i principi fondamentali (specifici, "materiali") di determinati campi del sapere, a dividere l'essere in regioni, o lo Husserl della distinzione tra l'intuizione categoriale che ci fa cogliere l'oggetto generale e l'intuizione sensibile, e che ci dà la descrizione fenomenologica delle essenze.
C’è da osservare, tuttavia, che Husserl avrebbe considerato l'idea di Minsky frutto dell'atteggiamento naturale e del presupporre l'esistenza del mondo materiale. Infatti, il frame è preconoscenza empirica, e il prodotto di un'astrazione sensibile.

Secondo Dreyfus vi sono quattro assunti (p. 235) ovviamente arbitrari, che fondano tutti i tentativi di riprodurre o simulare l'intelligenza umana e di costruire robot human like, che dimostrino, al culmine del successo tecnologico, la natura formale della mente, e realizzino l'intento della tradizione filosofica. Questa ha da sempre mirato a risolvere completamente il dato nella ragione, affinché si rimuovessero gli impedimenti all'universale computabilità.
Nel postulato biologico si congettura l'equivalenza dei processi del cervello e del computer, in base all'analogia di funzionamento fra il neurone e la porta logica (ipotesi oggi in ripresa con i progressi dell'hardware e la costruzione di architetture parallele e connessionistiche).
Nel postulato psicologico (principio della simulazione cognitiva) la mente elabora l'informazione seguendo regole formali, e qualunque comportamento intelligente può essere descritto «in termini di un insieme di istruzioni, cioè come una sequenza di risposte determinate a determinate situazioni» (p. 254). L'uomo come dispositivo che calcola si offre come materiale analizzabile e trasparente. Ne consegue la traducibilità delle spiegazioni psicologiche in programmi per computer (Herbert Simon).
Il postulato epistemologico (fase evolutiva dell'IA) non pone limiti alle possibilità della macchina, il cui funzionamento meccanico-formale (obbedienza a regale e operazioni su parti discrete e non ambigue) è il paradigma dell'intelligenza, per cui la non computabilità equivale a non conoscenza e a non senso.
Il postulato ontologico che «il mondo può essere esaurientemente analizzato in termini liberi da contesto, o fatti atomici, è la più profonda ipotesi che sottende lo studio nell'IA e l'intera tradizione filosofica» (p. 289). La discretizzazione universale, la frantumazione della realtà in elementi distinti ed espliciti, come oggetti identificabili e proprietà definite, o stati di cose rappresentabili e simbolizzabili, sono il prodotto della vocazione profonda del pensiero occidentale razionale-analitico ed empirista. Queste idee hanno trovato la piena espressione nel Tractatus logico-philosophicus del primo Wittgenstein. In quest'opera «il mondo è definito come un insieme di fatti atomici che si possono esprimere in proposizioni logicamente indipendenti. Questa è [...] la precondizione necessaria di tutto il lavoro in IA» (p. 301).
Questo oggettivismo logico, in una lettura esistenzialistica come quella di Dreyfus, è l'esito teoretico più estremo della civiltà moderna (della scienza e della tecnica), del mondo totalmente svuotato di significato e privato di scopo.

È opportuno aggiungere una considerazione: Wittgenstein con il Tractatus, Russell (atomismo logico), Moore (realismo concettuale), a cui si può aggiungere Carnap, con le sue concezioni della costruibilità logica del mondo (partendo da elementi di base non elaborati) e dalla proporzione diretta tra probabilità logica di una teoria e suo contenuto empirico, hanno teorizzato una forma di identificazione tra pensiero ed essere, logica e realtà (ad esempio, nel programma logicistico di Russell, Principia Mathematica, la struttura della realtà è implicitamente assunta come formale, data la sua rappresentabilità nel sistema logico-simbolico). Quando in una proposizione atomica (base del sistema) esprimiamo un fatto elementare dell'esperienza, già prestrutturiamo questa come relazione fra due oggetti reali e distinti. E nell'IA la rappresentazione della conoscenza con il calcolo dei predicati avviene tramite la corrispondenza tra formule del sistema e cose che sono rappresentate.

La concettualizzazione della realtà di ispirazione neopositivista ha riproposto in chiave di monismo logico-materialistico quell'"intellettualizzazione dei fenomeni" che Kant rimproverava a Leibniz (v. "Anfibolia dei concerti della ragione" in Critica della ragion pura).

         

I limiti della cultura dell'IA

Non sono state valutate appieno la portata teorica e le conseguenze etico­culturali di questi presupposti. In breve, il tentativo di unificazione fisicalista proposto dal positivismo-logico avvia un processo di definitiva eliminazione teorica del soggetto umano. Dalla nuova concezione pragmatico-strumentale della scienza alla nascita ed estensione esplicativa di discipline come la neuro­psicologia, dall'emergere del paradigma cibernetico, dove i confini tra organico e inorganico sono sempre più labili, alle teorie sociobiologiche, si assiste, come sbocco necessario del pensiero calcolante al continuo assalto del determinismo conoscitivo alla mente umana.
Sono questi i presupposti concettuali che hanno formato e alimentato l'ipotesi "forte" dell'IA e creato quel clima culturale da cui scaturiscono le tesi più sconcertanti intorno ad un vagheggiato futuro abitato dall'intelligenza al silicio [2].

Il difetto capitale della cultura dell'IA, ritiene Dreyfus, è di disconoscere il ruolo e il significato del corpo, della situazione, dei valori, per il comportamento intelligente e per una comprensione non riduttiva della persona. II corpo, negletto dalla tradizione razionalistico-contemplativa, viene considerato, secondo il punto di vista di Husserl e Merleau-Ponty, come latore della coscienza, « corpo coscientizzato », esperienza vivente, punto di arrivo della «riduzione fenomenologica». Il corpo portatore di significati rivela la radice vitale, non intellettuale della persona e la natura socio-emotiva e non puramente formale dell'intelligenza. Dreyfus fa riferimento anche all'empirismo genetico di Piaget, dove il livello operativo formale della coscienza è il risultato di un processo di costruzione e maturazione, in rapporto all'ambiente, partendo dalla esperienza sensomotoria.
Si può altresì sostenere che la negazione delle componenti sensoriali dell'intelligenza ha generato l'illusione che la mente sia software. L'attività formale del pensiero, incarnata in dispositivi meccanici od elettronici illuminerebbe la natura della soggettività umana, come crede la studiosa inglese Boden, per la quale la computer science ci dice come può «un processo computazionale immateriale dirigere eventi corporei» [3].

La situazione è letta esistenzialisticamente, come temporalità e contingenza; luogo di condizionamento radicale e di fondazione di possibilità per l'uomo. È l'apertura dell'uomo al mondo secondo particolari tendenze e punti di vista, non qualcosa di stabile e di dato, di esterno alla coscienza. Vissuto e senso soggettivo costituiscono e pervadono l'intera realtà. Giudizi, comportamenti intelligenti, fatti, vanno interpretati e si producono sulla base di propositi e contesti, finalità e interessi umani, stati affettivi e disposizioni emotive, valori socio­culturali determinati.

Nella formalizzazione del mondo come manipolazione sintattica di strutture simboliche viene completamente rimosso il potere condizionante delle circostanze e della vita quotidiana. E diventa inevitabile la trappola del regresso all'infinito quando si ricercano le condizioni prime di contestualizzazione o si risale alle regole per cui determinate regole sono applicate in un contesto. La ragione come calcolo, come pura mediazione formale non tollera livelli di comprensione intuitivi o immediatamente evidenti. Dalla chiusura autoreferenziale di un sistema formale, alle cui pretese di coerenza e di completezza Kurt Gödel ha inferto un colpo mortale con il suo Teorema di Incompletezza (1931), Hofstadter, per esempio, tenta di uscire teorizzando l'intelligenza (e la creatività) come processo formale e fisico e scaturente da un insieme inviolabile di regole (ogni processo fisico, e quindi cerebrale, è retto da regole formali). Noi stessi, quindi, come esseri fisico-naturali saremmo sistemi formali. Dreyfus, invece, rimanda ogni comportamento intelligente al senso comune, «a ciò che noi siamo». Dice Dreyfus: «a un qualche livello, l'interpretazione delle regole è immediatamente evidente e il regresso si ferma. Anche per la gente del computer il regresso si ferma con una interpretazione che è evidente in se stessa, ma questa interpretazione non ha nulla a che fare con la richiesta della situazione. Non può perché il computer non è in una situazione. Non genera alcun contesto locale» (p. 288). In breve, l'interpretazione o si produce in funzione dell'intenzionalità umana (da ricordare le analisi di Heidegger sull'assenza di fondamento necessitante) o è arbitraria "scissione intellettualistica" che genera un universo chiuso in funzione dell'applicabilità di regole formali. Infine, un altro fraintendimento dei teorici dell'IA, segno più decisivo di un'antropologia modellata sul principio cibernetico, sta nel non cogliere la natura dello scopo negli uomini e nelle macchine.

La macchina cibernetica ha obiettivi, nel senso che funziona secondo norme operative prefissate e meccanismi di rilevazione, regolazione e controllo. L'uomo assimilato ad una macchina inferenziale non è che l'altra faccia del processo di ominizzazione della macchina. Il suo stare nel mondo sembra possibile soltanto mediante rapporti formali-esteriori, e l'agire in base a criteri razionali-quantitativi, con gli obiettivi già fissati in funzione della riproduzione di un qualche livello sistemico.

L'uomo di Dreyfus ha "valori", nel senso che è caratterizzato socialmente e storicamente. Le sue azioni non sono conseguenze di un atteggiamento intellettualistico, ma sono tutt'uno con emozioni e aspirazioni più intime; sono ispirate e dirette dalla molla permanente dell'insoddisfazione. Gli esseri umani dissolvono i problemi, creano nuove alternative, si assumono impegni e responsabilità.

Kant aveva associato, in un passo della Critica del Giudizio, la libertà alla cultura, come capacità di un essere ragionevole di «scegliersi i propri fini in generale ». Per Dreyfus, come per Heidegger, è nella attività artistica che si realizza un'azione che non ha scopi predeterminati, ma è esperienza unica e totale, i cui prodotti sono irriducibili all'oggettività strumentale del mondo. L'uomo scopre ciò di cui ha bisogno nel concreto svolgersi della sua attività di ente finito e limitato e nello stesso tempo creativo e teso al superamento incessante della sua datità immediata. Dice Dreyfus: «Gli esseri umani non partono con una tabella genetica di bisogni o di valori che scoprono strada facendo. Non è neanche vero che assumono i loro valori, qualora siano autentici, in modo arbitrario in base ai condizionamenti del proprio ambiente » (p.375).

Va da sé che le argomentazioni di Dreyfus risentono dei limiti dell'approccio esistenzialistico-ermeneutico. II rifiuto del meccanicismo e dello scientismo non è sufficiente per costruire una teoria non riduzionistica della persona. Riducendo l'uomo a situazione e storicità determinata, alla sfera pratico-emotiva della quotidianità, e relativizzando la cultura a espressione di "vita", si disconosce l'universalità dello spirito della nostra civiltà e il suo fondamento umanistico. Questa incomprensione ha prodotto una visione fortemente limitativa della storia del pensiero occidentale e ha fatto arguire la necessità dello sbocco materialistico e tecnocratico della civiltà moderna.

Per orientare una società a grande diffusione di tecnologie elettronico-informatiche, rigettando la tesi del primato della macchina, è necessario ancorarla ai valori della nostra più alta tradizione culturale, che dal cristianesimo a Kant ha espresso l'idea della libertà moderna come riconoscimento del "valore infinito" della persona (Hegel).

 


[1] DOUGLAS HOFSTADTER, Gödel, Escher, Bach, Adelphi, Milano 1985.
[2] Sulla differenza tra IA forte e IA debole si veda il saggio, ormai classico, di John Searle, in AA. VV., Menti cervelli e programmi, Clup-Clued, Milano 1984.
[3] Cfr. SERGIO MORAVIA, L’enigma della mente, Laterza, Bari 1986.   


        

 Questo studio è stato originariamente pubblicato su “Cultura & Libri” 6 (1989), n. 50, pp. 41-48.