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Verità e metodo

Hans-Georg Gadamer
Bompiani, Milano 2000
pp. 1068
ISBN:
9788845290749

Nato a Marburgo l'11 febbraio 1900, Gadamer è potuto entrare in contatto con alcuni dei pensatori di maggior rilievo del nostro secolo: da Husserl a Natorp, da Bultmann a Heidegger. Soprattutto da quest'ultimo, che ne diresse nel 1929 il lavoro di abilitazione all'insegnamento universitario, Gadamer ricevette un'eredità speculativa ampiamente messa a frutto nelle proprie opere. Il libro che ne sancì la notorietà fu Wahrheit und Methode, dato alla stampa nel 1960: lo si può senz'altro considerare l'opera della maturità sia per la voluminosità sia per il vasto ed ambizioso disegno storico-critico che ne precede e sostiene le conclusioni. Lo stesso autore afferma di essersi attenuto ad «una dettagliata successione storica » nel ripercorrere le tappe della soggettivizzazione estetica e della formazione delle scienze dello spirito; la prospettiva da lui presentata «è il prodotto di una molteplice esperienza artistica, storica, filologica» [1], che rende ragione all'enciclopedico bagaglio di riferimenti e di citazioni da cui è corredato il volume.
Verità e metodo ha contribuito al fiorire degli studi sull'ermeneutica, che si è imposta come argomento egemonico in campo filosofico e culturale in genere. Con Heidegger e dopo di lui, l'ermeneutica assume una portata ancor più radicale della sola trasmissione linguistica di un messaggio, e le si affianca l'aggettivo "ontologica" per indicarne il ruolo fondamentale nella comprensione del mondo e dell'uomo. La natura dell'uomo per l'autore di Essere e tempo è essenzialmente storica: gli uomini, le cose, la natura sono sempre storicamente determinati e da tale determinazione storica derivano i "pre-giudizi" che rendono necessariamente condizionata la comprensione. A ciò si aggiunge che la comprensione è permessa dal linguaggio, che ci mette in comunicazione con la totalità storico-culturale entro la quale possiamo conoscere noi stessi e ciò che ci sta attorno. Perciò Heidegger scrive: «L'uomo è uomo in quanto parla»[2]: quel che costituisce l'uomo è il suo entrare nella storia tramite il linguaggio.
L'ermeneutica odierna, quindi, non riguarda la spiegazione dei testi antichi o la tecnica per illustrare brani oscuri, bensì la comprensione, in senso ampio, di ogni contenuto trasmessoci e persino l'autocomprensione: ogni forma di conoscenza deve fare i conti con il modo in cui l'uomo si inserisce nella storia e ne viene determinato, pertanto l'ermeneutica si presenta come la prospettiva universale ed originaria alla quale devono riferirsi tutti gli ambiti del conoscere.
Questi elementi appariranno con maggior precisione nell'esporre due degli aspetti più importanti dell'ermeneutica di Gadamer: la circolarità e la linguisticità, sui quali si soffermano, rispettivamente, la seconda e la terza parte di Verità e metodo.

      

Circolarità della comprensione

Secondo Gadamer la comprensione avviene tramite un movimento circolare che va dalla totalità al particolare e viceversa: ci riferiamo alla totalità anticipandone il senso e giungiamo a comprenderla perché le singole parti in essa contenute la definiscono a loro volta. È quanto avviene, ad esempio, nella traduzione di un testo in lingua straniera: prima di comprendere il significato lessicale di ogni parte del periodo, occorre cogliere l'impostazione dell'intero scritto e la costruzione della frase, nei confronti della quale dobbiamo verificare o adattare la nostra aspettativa di senso che è orientata dal contesto precedente. Basta ricordare le proprie esperienze liceali: dopo aver letto l'intera frase in latino o in greco in un esercizio, bisogna operare la costruzione dei diversi elementi (soggetto, verbo, predicato, complementi) e procedere, parte per parte, alla traduzione, guidati dalla visione d'insieme offertaci dalla lettura iniziale: eventuali dubbi sul significato di un singolo vocabolo verranno chiariti dal contesto in cui esso è usato. Nella traduzione, ma lo stesso si potrebbe dire per la lettura di un libro o la comprensione di un avvenimento storico, dobbiamo attenerci al circolo ermeneutico, che collega inscindibilmente tra loro le parti del tutto e coinvolge inevitabilmente l'interprete. Perché si parla di "circolo"? Poiché in un cerchio il punto di partenza e quello d'arrivo non sono necessari e incontrovertibili, ma dipendono dalla prospettiva che si assume: l'uomo, oltretutto, si trova all'interno del circolo, immerso nella storia, e non può pensare di guardarlo dall'esterno.
Appare quindi che «il movimento della comprensione trascorre costantemente dalla totalità alla parte e nuovamente alla totalità. Il compito consiste nell'ampliare in cerchi concentrici l'unità del senso compreso. L'accordo di tutti i particolari nella totalità è il criterio che vale, di volta in volta, per determinare l'esattezza della comprensione, e l'assenza di questo accordo equivale al fallimento della comprensione» [3]. Si ricordi che con questa spiegazione Gadamer non mira ad illustrare una tecnica da eseguire, ma vuol indicare «il significato ontologico positivo»(p. 313), ovvero la condizione essenziale della comprensione.

       

"Storia degli effetti" e "distanza temporale"

Lo scopo dell'interpretazione è quello di intendersi sulla cosa stessa lasciandone emergere il senso autentico. L'interprete deve farsi guidare dal testo e procedere, con la circolarità appena descritta, a successive revisioni delle proprie anticipazioni di senso, fino a quando il suo progetto trovi conferma nella cosa stessa. Accade così che nel dialogo con un interlocutore o nel leggere un libro veniamo a confronto con opinioni altrui che cerchiamo di rapportare all'insieme delle nostre convinzioni culturali: pur nel rispetto dell'alterità di chi ci sta dinanzi o del testo, non possiamo né dobbiamo prescindere dalle nostre presupposizioni, ma verificarne la legittimità onde pervenire ad un'intesa.
L'esigenza di questo vaglio lascia emergere che, benché alla cosa da interpretare, proveniente dal passato, ci leghi il rapporto con la tradizione da cui essa è trasmessa storicamente, resta pur sempre una distanza temporale, che non è un vuoto da colmare o un ostacolo da superare, bensì il luogo entro cui si realizza il movimento della comprensione. Gli anni che ci separano dalla pubblicazione dei Promessi sposi sono come una cassa di risonanza che ne trasmette l'eco fino a noi: la tradizione letteraria e culturale che ce li ha tramandati ci raggiunge e ci implica a sua volta in se stessa.
Il compito ermeneutico si svolge in una polarità mai superabile di affinità-estraneità con la cosa da interpretare e richiede L'esame della sua storia degli effetti (Wirkungsgeschichte), ovvero del flusso della sua ripercussione storica che arriva fino al presente ed è proiettato verso il futuro. L'interprete si trova inserito nella continuità della tradizione, ma per giungere alla comprensione di un testo deve eseguirne l'applicazione: occorre, cioè, coglierne l’effetto nel momento presente, applicarne il senso della situazione concreta. Lo storico o un semplice lettore, per comprendere un libro, devono mediarlo con la realtà della loro stessa vita presente, sapendo che le generazioni future ne daranno una lettura diversa.
Nella coscienza della propria determinazione storica (wfukungsgeschichtliches Bewusstsein), l’interprete deve diventare consapevole dei pregiudizi che guidano la sua comprensione; non bisogna solo verificare le proprie pre-cognizioni, ma occorre anche prenderne coscienza. Tale presa di coscienza della propria appartenenza alla trasmissione storica rafforza ancor di più il circolo ermeneutico: se vogliamo arrivare alla comprensione, dobbiamo riconoscerci inseriti nella circolarità inarrestabile tra passato e presente.
Tra le caratteristiche di questo processo della comprensione c'è, per l’appunto, la sua inarrestabilità: «Il circolo di parti e tutto non si risolve dissolvendosi nella comprensione raggiunta, ma piuttosto proprio in tale comprensione si realizza nel modo più pieno» (p.343). Gadamer mi scuserà se cerco di esemplificare, ma d'altronde l'argomento del gioco gli è particolarmente caro: una volta saliti sulla giostra della storia, bisogna girare con essa se non si vuol restare a guardare da fuori a bocca aperta. Con terminologia più tecnica, ciò è spiegato nel seguente brano: «Il circolo non ha dunque un carattere formale, non è né soggettivo né oggettivo, ma caratterizza la comprensione come un'interazione del movimento della trasmissione storica e del movimento dell'interprete. L'anticipazione di senso che guida la nostra comprensione di un testo non è un atto della soggettività, ma si determina in base alla comunanza che ci lega alla tradizione. Questa comunanza, però, nel nostro rapporto con la tradizione è in continuo farsi. Non è semplicemente un presupposto già sempre dato: siamo noi che la istituiamo in quanto comprendiamo, in quanto partecipiamo attivamente al sussistere e allo svolgersi della tradizione e in tal modo la portiamo noi stessi avanti. Il circolo della comprensione non è dunque affatto un circolo "metodico", ma indica una struttura ontologica della comprensione» (p. 343).

         

Linguisticità della comprensione

Il nostro rapporto con la tradizione, la reciprocità che instauriamo con essa quando ci accostiamo a qualcosa da interpretare, può essere agevolmente configurato come dialogo. Innanzitutto è la stessa tradizione che ci parla: «L'esperienza ermeneutica ha da fare con la tradizione. È questa che costituisce l'oggetto di tale esperienza. La tradizione non è semplicemente un evento che nell'esperienza si impari a conoscere e a padroneggiare, ma è linguaggio, cioè ci parla come un tu» (p. 414).
Con questo brano ci troviamo dinanzi ai concetti che articolano tra loro la seconda e la terza parte di Verità e metodo, permettendo il passaggio dalla teoria dell'esperienza ermeneutica, incentrata sul problema della verità come veniva presentato dalle scienze dello spirito, alla concezione del linguaggio come orizzonte dell'ontologia ermeneutica. La cerniera adeguata per questo assemblaggio è costituita «dalla dialettica o logica di domanda e risposta», debitrice alla dialettica platonica e a quella hegeliana.
Il flusso della tradizione ci interroga e ci spinge a chiederci come stanno le cose, ad instaurare un dialogo tra ciò che viene tramandato e il nostro presente: «Il fenomeno ermeneutico implica in sé l'originarietà del dialogo e la struttura di domanda e risposta» (p. 427). Chi interpreta deve rendersi conto di essere sollecitato da qualcosa di detto, di essere chiamato all'ascolto dalla trasmissione storica, che avviene principalmente ed essenzialmente in forma linguistica: «La trasmissione in parole è tradizione nel senso più autentico, cioè non semplice resto, ma è qualcosa che ci è "tràdito", consegnato, cioè qualcosa che ci viene detto: sia nella forma della trasmissione diretta, nella quale vivono il mito, la saga, gli usi e i costumi di un mondo, sia nella forma della trasmissione scritta, i cui segni sono come fatti immediatamente per ogni lettore che sia in grado di leggerli» (p. 448).
L'evento ermeneutico è reso possibile dal fatto che la parola proveniente dal passato ci investe, è rivolta a noi, ci interpella secondo la logica di domanda e risposta: colui che interpreta sta cercando di rispondere a una domanda di cui deve capire il contesto. Nella comunicazione linguistica tra il presente e la tradizione – in cui avviene il comprendere – è la cosa stessa ad agire su di noi. È su questa base che Gadamer sostiene la linguisticità costitutiva della comprensione in quanto tale, giacché il linguaggio è visto come il mezzo universale che permette l'interpretazione. L'obiettivo del dialogo, infatti, e pervenire ad un'intesa: che si tratti del colloquio con un interlocutore o con un testo, cerchiamo sempre di intenderci con esso e ciò è possibile grazie al verificarsi di una fusione di orizzonte (Horizontverschmelzung), nella quale il nostro orizzonte culturale si compenetra con quello dell'altro o del passato.
Orbene, «la fusione di orizzonti che accade nella comprensione è l'opera specifica del linguaggio» (p. 436). Noi possiamo interloquire con il passato grazie al linguaggio, il quale non è uno strumento del pensiero ma un medium, un luogo originario, un veicolo di senso, una totalità di significato, la luce che ci rischiara gli oggetti: «Il linguaggio in cui qualcosa viene alla parola non è un possesso che appartenga all'uno o all'altro degli interlocutori. Ogni dialogo presuppone un linguaggio comune, o meglio lo costituisce» (p. 437).
A tal punto siamo solidali con la cosa che arriva fino a noi che bisogna parlare di appartenenza (Zugehörigkeit), cioè dello stesso coinvolgimento che avviene nel gioco, da cui un giocatore non può estraniarsi se vuol partecipare. In quanto essere-nel-mondo l'uomo si trova a prender parte ad un gioco linguistico, nel quale più che giocare viene giocato, giacché il vero soggetto dell'azione ludica è il gioco stesso di cui l'uomo è in balìa. Qualcosa di analogo succede nel dialogo, che si può dire veramente riuscito solo se gli interlocutori rinunciano ad imporsi e si lasciano guidare dall'intimo sviluppo della conversazione.
Gli argomenti del gioco linguistico e del dialogo non vengono scelti a caso, poiché sono quelli che meglio servono per chiarire la nota e lapidaria affermazione secondo cui «l'essere, che può venir compreso, è linguaggio» (p. 542).
Tenendo presente che ci troviamo nell'ambito di un'ermeneutica ontologica, ovvero non di una semplice proposta metodologica, ciò significa che l'uomo può accedere al rapporto conoscitivo con l'essere solo all'interno del linguaggio: non è possibile operare una separazione tra la trasmissione linguistica e l'essere in quanto tale.
Ma una spiegazione illuminante della sua affermazione la dà lo stesso Gadamer altrove: «Quando scrissi la frase "l'essere che può venire compreso è il linguaggio", intendevo anche dire che ciò che è non può mai venir compreso del tutto, perché tutto ciò che un linguaggio reca con sé trascende sempre il contenuto dell'espressione. Ciò che assume una veste linguistica resta come ciò che deve venir compreso – esso tuttavia viene sempre accolto come un qualcosa, come qualcosa di vero (wahrgenommen). È questa la dimensione ermeneutica in cui l'essere si "manifesta"» [4].

        

Predominio del linguaggio

Per Gadamer il linguaggio non va considerato come una dote o uno strumento di cui l'uomo dispone, ma piuttosto come il fondamento e l'ambito del nostro rapportarci al mondo. Anzi, da una parte il mondo sussiste per l'uomo solo grazie al linguaggio e dall'altra parte l'uomo si trova nel mondo essenzialmente in modo lingustico. Richiamandosi al pensiero di von Humboldt, al quale si riferisce anche l'affermazione di Heidegger citata all'inizio di queste pagine, Gadamer scrive: «Per l'uomo, il mondo esiste come mondo in un modo diverso da come esiste per ogni altro essere vivente nel mondo. Questo mondo si costituisce nel linguaggio [...]. Il linguaggio non ha da parte sua alcuna esistenza autonoma rispetto al mondo che in esso si esprime. Non solo il mondo è mondo soltanto in quanto si esprime nel linguaggio; il linguaggio, a sua volta, ha esistenza solo in quanto esso si reppresenta il mondo. L'originario carattere umano del linguaggio significa dunque, insieme, l'originaria linguisticità dell'umano essere-nel-mondo» (p. 507).
Una simile concezione vuol essere esplicitamente in contrasto con quella della metafisica classica, secondo la quale le parole esprimono i concetti che l'uomo si è formato grazie alla conoscenza della realtà, la cui verità è riflesso della mente creatrice di Dio: «Il rappresentarsi dell'ente nello spirito pensante non è il rispecchiamento di un ordine ontologico già dato, i cui veri nessi stanno tutti chiari e spiegati davanti alla mente infinita del creatore» (p. 523). L'orizzonte del linguaggio nell'ermeneutica gadameriana è radicalmente storico e può solo essere commisurato alla nostra finitezza; sarebbe, inoltre, una sterile astrazione voler pensare la realtà diversamente da come viene espressa linguisticamente. Ciò significa che la parola non è semplicemente il veicolo di un contenuto, ma che istituisce essa stessa il senso. Gadamer riafferma la "speculatività" del linguaggio, rifacendosi esplicitamente al significato etimologico indicato da san Tommaso [5] ma ne connota diversamente la concezione: «Il linguaggio ha in sé qualcosa di speculativo [...] come attuarsi di un senso, come accadere del discorso e della comprensione. Questo processo è speculativo nella misura in cui le possibilità finite della parola sono messe in rapporto con il senso che si manifesta come con qualcosa che indica nella direzione di un infinito» (p. 535).
Com'è evidente, da tale impostazione deriva una stretta dipendenza dell'uomo e del mondo nei confronti del linguaggio. Non a caso, nel trarre le somme della sua opera, Gadamer dichiara: «Il linguaggio è un mezzo in cui io e mondo si congiungono, o meglio si presentano nella loro originaria congenerità: è questa l'idea che ha guidato la nostra riflessione» (p. 541).
La natura dell'uomo, configurata esclusivamente nella sua storicità, è contraddistinta dal linguaggio, che lo collega alla totalità e al flusso della storia; il mondo esiste per l'uomo solo perché è detto o e stato detto da qualcuno. 

      

Pensiero e parola

L'esame della circolarità e della linguisticità, che sono due aspetti fondamentali dell'ermeneutica gadameriana, ne ha già messo in luce le implicazioni profonde in campo antropologico e gnoseologico.
Dinanzi agli esiti problematici che ne emergono occorre ribadire la preminenza del pensiero rispetto al linguaggio, il che significa riconoscere la capacità dell'uomo di arrivare al cuore del reale superando le apparenze linguistico-culturali. Perché il linguaggio non scada nella retorica o nel simbolismo dev'essere sempre guidato dal rispetto per la persona e per la natura delle cose, che hanno un valore in sé e per sé, anche se non sono dette. Spesso alla metafisica viene attribuita un'inconsapevole volontà di dominio sul reale, la riduzione delle cose a strumenti utilizzabili e manipolabili, e Gadamer fa sua quest'accusa proclamata con veemenza da Heidegger: «Ciò che è in sé [...], in quanto è conosciuto nel suo essere in sé, [...] diventa qualcosa di cui si può disporre, nel senso che si può contare su di esso, il che significa però che si può subordinarlo ai propri scopi» p. 540). L'ermeneutica, quindi, «deve smascherare il dogmatismo del concetto di un "senso in sé"» (p. 515).
Mi sembra, però, che l'autentico rispetto per ciò che è, nella sua intima natura, scaturisce proprio dal saperlo indipendente non solo dalla nostra volontà ma anche dalle connotazioni storico-culturali. E ciò è possibile soltanto se non riduciamo il mondo a un insieme di soggetti già da sempre linguisticamente interpretati o contraffatti. D'altro canto, non basta postulare l'esistenza di una cosa in sé del tutto priva di rilevanza per l'uomo e assolutamente inaccessibile: il nostro intelletto è in grado di penetrare nell'essenza della realtà e di conoscerne la verità ontologica come partecipazione della Verità Divina. Nell'atto dell'intelletto noi non conosciamo la cosa nella sua semplice-presenza a noi, cioè non ci limitiamo ad affermarne o negarne il modo circostanziale e determinato in cui ci appare, bensì cerchiamo la conformità con la cosa così com'è in realtà.
Vi è una concatenazione indissolubile tra la parola, il concetto e la cosa reale: «Le parole sono segni dei concetti e i concetti sono immagini delle cose. Di qui appare chiaro che le parole si riferiscono alle cose indicate, mediante il concetto della mente» [6]. Rifacendoci alla terminologia agostiniana, la parola (vox) e veicolo del verbo mentale (verbum) e la comunicazione tra gli interlocutori è possibile non tanto grazie allo scambio di suoni vocali ma in virtù del concetto mentale comune a entrambi: l'usuale esortazione a pensare prima di parlare rispecchia il nostro rapporto conoscitivo con la realtà: «Se togli il verbo mentale (verbum), che cos'è la parola (vox)? Dove non c'è l'intelletto, è inutile lo strepito. La parola senza il verbo mentale colpisce l'udito, ma non edifica il cuore. [...] Il suono della parola conduce a te il verbo mentale, e quando il suono della parola ti ha recato il concetto, il suono stesso passa, ma il verbo mentale che ti condotto il suono si trova già nel tuo cuore e non è scomparso dal mio» [7].
La nostra conoscenza, pertanto, non dipende inesorabilmente dal linguaggio, ma può slegarsi da esso. Sono davvero interessanti, in tal senso, gli studi di psicologia evolutiva di Jean Piaget. Il noto studioso svizzero mostra che, malgrado le apparenze, il linguaggio non è l'unico fattore grazie al quale il bambino riesce a superare i limiti spazio-temporali del campo percettivo. Vi sono funzioni simboliche (il gioco, l'imitazione, l’immagine mentale) più ampie del linguaggio, che comprendono non solo i segni verbali ma un intero sistema di simboli. Suffragando la sua riflessione con verifiche dirette, Piaget ritiene che bisogna «concludere che il pensiero precede il linguaggio, e che quest'ultimo si limita a trasformare profondamente il primo, aiutandolo a raggiungere le sue forme di equilibrio con una schematizzazione più avanzata e un'astrazione più mobile» [8].

       

Uscire dal circolo

Il predominio del linguaggio e uno dei fattori che rende il circolo ermeneutico inarrestabile nel suo moto dalle parti al tutto e impenetrabile ad ogni tentativo di uscire dalle sue spire. Pienamente immersi nella totalità del linguaggio, possiamo solo avvilupparci in un susseguirsi di cerchi concentrici: «In qualunque lingua uno viva e si muova, non può mai pervenire ad altro che a una sempre più ampia prospettiva, a una sempre più ampia "visione" del mondo» (p. 511).
Come si è visto in precedenza con parole di Gadamer, il circolo non è destinato a dissolversi nella pienezza della comprensione, non è una tecnica da usare per ottenere un miglior risultato conoscitivo: esso indica la struttura ontologica del comprendere, ovvero la condizione ineludibile della nostra conoscenza. Non solo dovremo continuare ad ampliare la nostra visione circolare, ma «è costitutivo della finitezza storica della nostra esistenza l'esser consapevoli che, dopo di noi, altri interpreteranno in modo sempre diverso» (p. 431). E benché Gadamer avverta che resterà sempre uno ed identico l'oggetto che noi e gli altri interpretiamo, ciò non ci consola, poiché quel «che viene ad espressione in essa [nella parola] non è qualcosa che esista prima separatamente, ma solo nella parola riceve la propria sostanziale determinatezza. [...] Parimenti, ciò che si offre alla nostra conoscenza storica come proveniente dalla tradizione o come tradizione, cioè sul piano storico o su quello filologico, il significato di un avvenimento o il senso di un testo, non è un oggetto in sé fissato, che si tratti di accertare» (p. 542-543).
È proprio della nostra conoscenza, invece, uscire dal circolo: forzare le maglie dei mutamenti storici e personali per giungere alla luce che proviene dalle cose, alla loro verità ontologica. Il possesso del conosciuto, che non è dominio ma identificazione, ci porta alla quiete della contemplazione, allo sguardo soddisfatto di chi ha cercato e ha trovato: il moto circolare si arresta e lascia il posto alla fruizione compiaciuta.
Infine, un'ultima annotazione. Con piena fondatezza viene riconosciuto a Gadamer il merito di aver condotto con la sua ermeneutica un'efficace polemica contro l'illuminismo e il razionalismo, ritorcendo contro di essi le loro armi; sono davvero feconde e penetranti le pagine in cui l'autore di Verità e metodo riafferma il valore dell'autorità e della tradizione contro l'inconfessato pregiudizio degli illuministi: un invincibile pregiudizio contro ogni tipo di pre-giudizi. Ma penso che non basti, per un'adeguata comprensione, prendere coscienza delle proprie pre-cognizioni, che, come si è visto, determinerebbero il nostro inserimento nella totalità del circolo. Posso offrire due esempi. Bisogna supporre che Croce e Gentile erano pienamente coscienti della propria precomprensione idealistica della storia della filosofia, eppure ci hanno dato un'interpretazione del Vico pienamente funzionale ai loro sistemi speculativi. Analogamente, diamo per scontato che gli intellettuali italiani erano ben consapevoli del pre-concetto comunista che gravava egemonicamente sulla cultura italiana fino a qualche mese fa (e non è ancora scomparso), ma ciò nonostante solo da poco stiamo assistendo ad autentiche e coraggiose rettifiche.
Ritengo, quindi, che non sia sufficiente una mera presa di coscienza delle condizioni ermeneutiche del comprendere, ma sia necessario un punto di riferimento esterno, un insieme di valori non negoziabili e non dipendenti dal linguaggio ai quali commisurare i nostri pre-giudizi. Si tratta, ancora una volta, di una realtà che non richiede necessariamente l'espressione linguistica, ma resta valida anche se non la menzioniamo, anzi che acquista una maggiore forza nel silenzioso rispetto.

   


[1] HANS GEORG GADAMER, Verità e Metodo, Bompiani Milano 1983, seconda edizione, pp. XLIII-XLIV.

[2] MARTIN HEIDEGGER, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, p. 27.

[3] HANS GEORG GADAMER, Sul circolo ermeneutico, in “Aut-Aut”, n. 217-218, gennaio-aprile 1987, p. 13.

[4] HANS GEORG GADAMER, Testo e interpretazione, in “Aut-Aut”, nn. 217-218 (1987) p. 33.

[5] Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, II-II, q. 80, a. 3.

[6] TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q.13, a. 1.

[7] AGOSTINO, Sermo, 293, 3: PL 1328-1329.

[8] JEAN PIAGET, El lenguaje y ele pensamiento desde el punto de vista genético, in Seis estudios de psicologia, Editorial Seix Barral, Barcellona 1981, undicesima ed., p. 132.

        

Questo studio è stato originariamente pubblicato su “Cultura & Libri” 8 (1991), n. 68, pp. 37-49.

Docente ordinario di Antropologia filosofica