Ultime teorie sulla mente: ha ancora senso parlare di anima e corpo?

Nicola Di Stefano
Maurits Cornelis Escher (1898-1972), Vincolo d’unione, 1956, Litografia, Collezione privata (da M.C. Escher, The Official Website).

Sì, ha ancora senso, ma non certo nei termini di una contrapposizione dualistica o di una indipendenza, come eravamo abituati a fare fino a qualche decennio fa. Per quanto diversificate, le più recenti teorie della mente muovono infatti dal comune e radicale rifiuto della posizione dualistica, di derivazione cartesiana. Oggi risulta chiaramente che la mente, generalmente intesa come la complessità delle attività che caratterizzano l’essere umano, emerge da una relazione strutturale tra cervello, corpo e mondo. Per quanto ancora distinti terminologicamente, non sembra possibile delineare tra loro dei confini precisi, né stabilire i rispettivi contributi alle attività della mente stessa. Questa nuova prospettiva influisce anche sul modo tradizionale di intendere i rapporti fra anima e corpo, tra spirito e materia.

Con quali modelli le scienze cognitive interpretano il rapporto fra mente e corpo nell’essere umano?

A partire dalle fine del secolo scorso, le scienze cognitive hanno gradualmente compiuto una svolta, sposando l’idea secondo la quale la nostra “corporeità” struttura e dà forma alle nostre esperienze cognitive e concettuali al pari di come la fornisce a quelle percettivo-sensoriali. In questa direzione, numerose ricerche nei più diversi ambiti hanno sperimentalmente dimostrato le influenze reciproche tra percezione e azione, invitando a superare il vecchio paradigma che vedeva un ruolo passivo e solo ricettivo del soggetto nel processo di percezione della realtà. La centralità della relazione tra percezione, azione e cognizione ha così progressivamente delineato un nuovo contesto concettuale, nel quale le risposte mentali, comportamentali e motorie si verificano simultaneamente e si influenzano reciprocamente.

Diverse declinazioni di questa idea si sono succedute negli ultimi anni. La più recente, e forse la più comprensiva, va sotto l’etichetta di “4E Cognition”, da intendersi come embodied, embedded, enacted, extended cognition. L’idea centrale resta che l’attività cognitiva non si verifica esclusivamente all’interno del cervello, ma è incarnata, incorporata, attuata ed estesa, grazie a processi, strutture, relazioni e dinamiche extra-craniche. In altri termini, l’attività cognitiva non risulta come prodotto della manipolazione mentale di simboli o concetti, ma è parte integrante dell’agire corporeo nel mondo e con il mondo.

L’attività cognitiva è allora incorporata, perché la forma particolare del nostro corpo modella le possibili interazioni con il mondo e dunque la rappresentazione concettuale del mondo stesso. Così la cognizione è detta anche attuata, o “azionata”, perché essa emerge come prodotto finale di un processo attivo, che coinvolge il soggetto a partire dalla sua corporeità vivente, e non come un processo esclusivamente contemplativo-passivo. Infine, la cognizione è estesa, perché il mondo è parte integrante del processo cognitivo e la mente stessa è il sistema soggetto-soggetti-mondo entro il quale l’essere umano opera e si costituisce come tale in maniera relazionale.

All’interno di un simile contesto, la distinzione tra mente e corpo diviene solo funzionale, ma non riflette una distinzione sostanziale tra realtà diverse. Resta metodologicamente possibile offrire una descrizione di un processo in termini corporei, o in termini mentali, ma occorre tener presente che la complessità di ogni processo cognitivo è tale da non escludere mai completamente la componente corporea o quella mentale. La distinzione tra mente e corpo perde di validità nella misura in cui il mentale è sempre anche corporeo, e viceversa.

La scoperta dei circuiti e delle reti cerebrali come sede del linguaggio, dei sentimenti e delle emozioni implica una riduzione delle funzioni spirituali a una causalità totalmente materiale, ovvero a processi bio-chimici?

In linea generale, è possibile affermare che l’approccio neurobiologico allo studio delle facoltà della mente, o di quella che tradizionalmente si definiva anima, comporta un necessario riduzionismo, almeno a livello metodologico. Questo significa che, per il modo in cui vengono condotti gli studi sperimentali, risulta difficile evitare di ridurre la complessità di alcuni processi emotivo-cognitivi a una concatenazione di eventi biochimici.

Tuttavia, il punto nodale è come sono interpretati i dati sperimentali ottenuti con metodi eventualmente “riduzionistici”. Ovvero, come vengono interpretati i nessi causali che i dati sperimentali mettono in evidenza. A questo proposito, è quanto mai opportuno richiamarsi alla distinzione logica tra correlazione e causa: mostrare l’attivazione di un’area cerebrale in concomitanza con l’insorgere di un sentimento o di un’emozione, non dimostra ancora che la prima sia la causa dell’altra. Mostra una correlazione, certo statisticamente significativa, ma che attende ancora di essere dimostrata come causa sufficiente, oltre che necessaria. Infatti, se è chiaro che il cervello (o una sua area) sia causa necessaria del timore reverenziale, è altrettanto chiaro che per provare l’esperienza del timore reverenziale non basta avere il cervello. Occorre che questo organo sia parte attiva di una trama di relazioni corporee, sociali e culturali, le quali rappresentano un contesto necessario, per quanto non facilmente esprimibile in termini quantitativi o misurabile in laboratorio, per la determinazione dell’esperienza stessa.

Per non sacrificare la complessità della vita emotiva e spirituale dell’uomo sull’altare della misura di laboratorio, occorre ricordare che le funzioni complesse dell’uomo, quelle non immediatamente riconducibili alla sopravvivenza, sono meglio comprese attraverso un approccio di indagine multidisciplinare, grazie al quale, oltre alla radice biologica della funzione specifica, se ne mostrerà, ad esempio, la varietà culturale, l’evoluzione storica, la rilevanza sociale, la componente antropologica. Solo così sembra possibile ricostruire il senso di funzioni caratterizzanti l’essere umano, quali quella spirituale o religiosa, senza correre il rischio di frammentarle o di smarrirle dopo aver tentato una loro improbabile traduzione in termini biologici.

Il termine anima non rientra nelle analisi delle neuroscienze ma si ha l’impressione che esso venga sostituito oggi da altre nozioni, come Self e Mind. L'idea di anima, fatta accomodare fuori della porta, viene fatta oggi rientrare dalla finestra?

È comune il dubbio se il termine “anima” sia ammissibile solo in un contesto filosofico, teologico, antropologico, o se abbia invece dignità anche a livello scientifico. Se è vero che il termine “anima”, in quanto tale, non sembra trovare spazio nel dizionario concettuale scientifico contemporaneo, all’interno di determinati contesti teorici sembra tuttavia possibile rinvenire nozioni che presentano caratteri simili a quelli tradizionalmente associati a esso.

Il sospetto che molti uomini di scienza nutrono nei confronti dell’utilizzo del termine “anima”, ritenendolo quasi incompatibile con la visione scientifica dell’uomo, deriva dal retaggio cartesiano, per cui solo il corpo materiale sarebbe passibile di indagine scientifica. Nel modello cartesiano, infatti, l’anima, o res cogitans, è la sostanza pensante e immateriale, che in quanto tale non può essere “misurata”. Al contrario, la res extensa è materiale, occupa spazio e non è dotata di pensiero, e pertanto può essere misurata con gli strumenti della scienza geometrica e fisica. Di qui la distinzione sulla quale si fonda il meccanicismo cartesiano, e che porterà alla scienza moderna, tra gli oggetti di indagine passibili di misurazione scientifica (il corpo) e quelli approcciabili esclusivamente per mezzo di analisi concettuale (l’anima). 

Gli sviluppi scientifici degli ultimi decenni, tuttavia, hanno parzialmente modificato alcune premesse generali dell’indagine scientifica di derivazione cartesiana. In particolare, l’idea antica di anima come “principio del movimento” non è incoerente se accostata con alcuni paradigmi teorici recentemente formulati come, ad esempio, la prospettiva sistemica adottata dalla Systems Biology. La concezione della “attività integrata” di un organismo vivente come non interamente riducibile ai processi fisico-chimici, ai segnali nervosi, alla secrezione di sostanze chimiche, rappresenta un punto di vista analogo a quello di buona parte della riflessione filosofica quando quest’ultima impiega il termine “anima” come forma del corpo e come principio unificante delle funzioni che esso esprime.

Infine, l’idea di un “principio unificante” per le operazioni del vivente – pensiamo all’essere umano in particolare – continua a essere necessaria, perché esiste certamente un “soggetto” al quale tutte le operazioni e processi, del corpo e della mente, vengono attribuiti. L’unità di questo soggetto, ovvero il self, o anche il suo “io”, rende possibile l’analisi scientifica ma, al tempo stesso, sembra trascenderla.

Le varie caratteristiche dell’essere umano possono essere comprese come effetto di progressive fasi evolutive. L’autocoscienza dell’essere umano può essere anch’essa compresa come effetto di selezione naturale e adattamento all’ambiente?

La nozione di autocoscienza ha una lunghissima storia nel pensiero occidentale, a partire dall’antica Grecia (soprattutto in Platone), passando poi per il pensiero cristiano (si pensi ad Agostino d’Ippona) fino alla filosofia moderna (il Cogito cartesiano o l’idealismo kantiano) e contemporanea (l’esistenzialismo di Heidegger o la psicoanalisi). Nella seconda metà del ’900 il tema è stato anche affrontato in prospettiva neurobiologica.

In generale, con autocoscienza si intende la capacità di riflettere su sé stesso, di sapere non soltanto “che si è” ma anche “chi si è”. L’autocoscienza è quindi fortemente legata all’identità personale. In neurobiologia, la nozione forse più affine è quella di sé narrativo: la capacità di fare un resoconto (per sé stessi o per altri) di ciò che sì è fatto nella propria vita o dei propri progetti. L’identità personale si costituisce progressivamente durante l’esistenza di una persona anche a seguito delle valutazioni (morali, cognitive, utilitaristiche, etc.) che quella persona dà delle proprie azioni, scelte, decisioni e opzioni fondamentali.

I processi legati all’autocoscienza sono, anche dal punto di vista neurobiologico, processi lenti, che presuppongono e implicano la possibilità di riflettere sul da farsi, di tornare più volte sulle proprie scelte, di avere “seconde chance” per rivedere le proprie visioni, di esporsi al confronto con altri.

Da questo punto di vista, dunque, sembra improbabile che l’autocoscienza possa essere il risultato diretto di selezione naturale e adattamento all’ambiente, perché gli aspetti della vita di una persona che ingaggiano l’autocoscienza non sono quelli immediatamente legati a sussistenza e sopravvivenza. Inoltre, ricorrere all’autocoscienza per questi aspetti risulterebbe spesso in processi troppo lenti per essere realmente utili. È però importante sottolineare come il fatto di ritenere che l’autocoscienza non sia prodotto diretto di selezione naturale e processi adattivi non significa né (a) pensare che essa non possa, alla lunga, avere effetti positivi anche sulla sopravvivenza e sul “successo biologico” di una specie o popolazione, né (b) sostenere che essa non presupponga una serie di condizioni necessarie – quali ad esempio un sistema nervoso centrale sufficientemente complesso – che possono ben essere il risultato di processi evolutivi basati su dinamiche selettive e adattive.

Prima che una nozione teologica, l’anima è una nozione filosofica: a cosa si riferivano Aristotele o Tommaso d’Aquino quando parlavano dell’anima?

Nella sua opera De Anima, Aristotele definisce l’anima come forma sostanziale degli esseri viventi, superando le aporie che caratterizzavano il concetto di anima come “sostanza per sé sussistente” tipico delle dottrine orfiche e della filosofia platonica. Più precisamente, secondo Aristotele l’anima è la forma del corpo che ha la vita in potenza, dunque non di un corpo costituito da un semplice aggregato di materia inerte, ma da materia organizzata, unitaria e vivente. Il creato non si distingue platonicamente in due sostanze, l’una intelligente e l’altra materiale, ma in materia vivente dotata di anima (piante, animali ed esseri umani) e materia inorganica e priva di anima (ad esempio i minerali).

Per Aristotele, all’anima si debbono alcune funzioni essenziali dell’essere vivente. In particolare, l’anima vegetativa, propria delle piante, presiede alla nutrizione e alla riproduzione. L’anima sensitiva, propria degli animali, comprende le funzioni di quella vegetativa ed è arricchita dalla sensibilità e dal movimento. Infine, l’anima intellettiva, la più completa, si esprime nelle funzioni razionali e della volontà ed è tipica degli esseri umani. Se l’anima sensitiva permette di discernere l’utile dal dannoso, l’anima razionale permette di distinguere il bene dal male. Di conseguenza, l’unico animale morale, per Aristotele, è l’uomo.

Erede e interprete originale della tradizione aristotelica, Tommaso d’Aquino ritiene che la definizione di anima sia tra i compiti più ardui della riflessione filosofica. Come Aristotele, Tommaso ritiene che l’anima sia la forma del corpo, ma ne precisa anche in maniera chiara alcune ulteriori caratteristiche fondamentali, quali l’unicità e l’immaterialità. Consapevole dei dibattiti sulla localizzazione dell’anima nel corpo di cui è forma, Tommaso precisa che essa non risiede in un punto preciso (come cercherà invece di sostenere Cartesio, rinvenendo questo luogo anatomico nella ghiandola pineale) ma è diffusa interamente in ogni parte del corpo. In linea con il pensiero platonico, infine, Tommaso ritiene che l’anima individui pienamente un corpo, ma che sia in grado di vivere senza il corpo, in quanto al corpo si contrappone per la sua natura immateriale, semplice e incorruttibile. In quanto forma del corpo, infatti, l’anima è priva di materia.

Cosa intendono le sacre Scritture e la teologia cristiana quando parlano di “anima”?

L’Antico Testamento, scritto in lingua ebraica, non impiega un termine univoco per indicare l’anima umana. Tutti i viventi in generale, e l’essere umano con loro, hanno uno “spirito”, un alito di vita, perché li si vede respirare, vivere. Vita, respiro e alito sono termini quasi sinonimi. Dio viene presentato come fonte di questa vita, e dunque come causa della vita dei viventi, essere umano compreso, perché è colui che dà loro un alito di vita. Dio è Spirito e Vita, anzi lo “Spirito di Dio” è la fonte della vita.

La sacra Scrittura e la teologia trasmettono in ogni caso un contenuto essenziale: ogni essere umano è un soggetto libero, responsabile delle proprie azioni, amato e creato da Dio a Sua immagine e somiglianza. Ciò fa sì che in ogni essere umano vi sia un principio “spirituale” che trascende la sua materialità e corporeità, sebbene tale principio operi attraverso di esse. Se la teologia cristiana continua a impiegare il termine “anima” è perché intende sottolineare l’esistenza di questo principio individuale, espressione della relazione personale di ciascun essere umano con Dio, che fa di ogni essere umano un essere irripetibile. In questo senso, anima, essere personale e relazione con Dio, sono modi diversi di indicare una medesima realtà. Quando la teologia parla di “immortalità dell’anima”, indica che tale realtà individuale, libera e personale, non dipende totalmente dalla materia. Essa esprime una relazione con Dio creatore, una relazione che trascende il tempo e lo spazio, perché sempre sostenuta da Chi ha dato origine a tutte le cose. L’eternità di questa relazione e la trascendenza dell’immagine di Dio presente in ogni essere umano fondano la possibilità che la teologia cristiana parli della vita eterna e delle realtà escatologiche, cioè gli scenari ultimi che concludono la storia, oltre la storia stessa.

Se una prospettiva teologica “classica” parla della morte umana come separazione dell’anima dal corpo, lo fa perché intende con ciò sottolineare che la relazione eterna e fondante dell’uomo con Dio sopravvive alla corruzione del corpo materiale, non perché sottoscriva la visione dualista cartesiana di anima e corpo come due entità indipendenti e autosufficienti. Anche quando la teologia parla, più in generale, della differenza fra materia e spirito, lo fa perché desidera affermare l’irriducibilità dello spirito alla materia, la sua trascendenza, non la sua estraneità. Se pensiamo alla prospettiva aristotelica secondo la quale ogni ente materiale è composto di materia e forma, ne concludiamo che la materia è anch’essa, in certo modo, solidale allo spirito, in quanto informata da una forma immateriale.

   

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Glossario: 

Lo strato esterno del cervello degli esseri umani e dei mammiferi. La corteccia umana è spessa dai 2 ai 4 mm, si divide in due emisferi (destro e sinistro) e svolge un ruolo chiave per quanto riguarda in meccanismi o funzioni mentali cognitive complesse come pensiero, consapevolezza, memoria, attenzione, linguaggio. Nell’essere umano presenta delle circonvoluzioni, ovvero delle pieghe, che consentono a una superficie di circa mezzo metro quadrato di essere contenuta nella testa di un adulto. La corteccia viene divisa in quattro regioni, o lobi (frontale, parietale, temporale, occipitale). Ogni lobo è suddiviso a sua volta in aree corticali associate a determinate funzioni. Ad esempio, la corteccia motoria primaria è principalmente coinvolta nell’inizio dei movimenti volontari, la corteccia visiva o quella uditiva per il riconoscimento di stimoli visivi e uditivi, rispettivamente. Molto note sono infine l’area di Broca, “sede” della produzione del linguaggio, e quella di Wernicke, responsabile della comprensione del linguaggio. 

Dottrina diffusa nell’Ottocento, di cui il massimo esponente è ritenuto il medico tedesco, di formazione franco-austriaca, Joseph Gall. La dottrina si fonda sull’assunto per cui i caratteri e le funzioni psichiche sarebbero determinate dalle parti del cervello. Secondo tale dottrina, sarebbe pertanto possibile passare dalla morfologia del cervello di un individuo ai caratteri della personalità dell’individuo. La teoria venne screditata nel Novecento, nonostante se ne riconobbe la validità di massima del principio generale, ovvero che diverse aree del cervello abbiano diverse funzioni.

Capacità del sistema nervoso di modificare la rete di relazioni tra neuroni, instaurandone di nuove ed eliminandone altre. Tale proprietà consente al sistema nervoso di modificare la sua struttura e la sua funzionalità in modo più o meno duraturo sulla base degli eventi improvvisi (ad esempio un trauma cerebrale) e di esperienze protratte nel tempo (ad esempio la pratica di uno sport o di uno strumento musicale). Tipiche manifestazioni della neuroplasticità occorrono in seguito a danni cerebrali e consentono il recupero funzionale tramite “riorganizzazione” della funzione, ad esempio, tramite lo spostamento della funzione in un’area cerebrale preservata dal danno.

Scelta di un soggetto che si colloca alla base di molte altre scelte successive e che coglie aspetti rilevanti dell’intera vita di una persona. Esempi di opzioni fondamentali possono essere la decisione di divenire uno studioso di qualcosa in particolare, uno sportivo, un insegnante, etc. Elaborare un’opzione fondamentale richiede in genere tempo e riflessione.

La capacità di far presente a sé stessi e agli altri la propria “storia di vita”. Integrando nel tempo dati sensoriali e processi cognitivi questa capacità fa sì che un soggetto possa auto-attribuirsi le proprie azioni passate e i propri piani futuri, riconoscendosene quindi come il vero “autore” responsabile. È essenziale per la facoltà di autocoscienza. Non sembra che altre specie oltre a H. sapiens abbiano questa capacità.