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Breve storia delle domande umane sulla vita nel cosmo

Paul Davies
1994

Siamo soli? Implicazioni filosofiche della vita extraterrestre

   

Nel IV secolo a. C. il filosofo greco Epicuro scriveva in una lettera a Erodoto:

I mondi poi sono infiniti, sia quelli uguali al nostro sia quelli diversi; poiché gli atomi, che sono infiniti [...], percorrono i più grandi spazi. Non vengono esauriti infatti tali atomi, dai quali ha origine o viene costituito un mondo, né da uno solo né da un numero finito di mondi [...]; di modo che niente si oppone a che i mondi siano infiniti [1].

Quindi l'idea dell'esistenza di una pluralità di mondi abitati risale addirittura all'alba del pensiero razionale e dell'indagine scientifica. E la cosa è ancora più sorprendente se si pensa che la cosmologia greca, come tutti gli altri antichi modelli del mondo, somiglia ben poco all'immagine scientifica moderna dell'universo.

   
In mancanza di una vera e propria ricerca astronomica empirica, le ipotesi dei greci sui sistemi extraterrestri si basavano quasi interamente sul dibattito filosofico, quindi offrivano ampio spazio al dissenso. Aristotele, ad esempio, rifiutava decisamente l'idea che ci fossero altri mondi: secondo lui «il cielo è di necessità uno solo, e non più d'uno» [2].

La convinzione che esistessero altri mondi era strettamente collegata con la teoria atomistica, inizialmente esposta da Leucippo e da Democrito, secondo la quale il cosmo non è costituito che da particelle indistruttibili che si muovono nel vuoto. Dato che tutte le cose sono fatte di atomi, e che gli atomi appartenenti alla stessa classe sono identici tra loro, ne consegue che associazioni di atomi simili a quelle che formano la Terra possono essersi verificate in altri punti del vuoto:

[...] il tutto è infinito ed è in parte pieno, in parte vuoto; con questi termini egli indica gli elementi. Da questi si formano mondi infiniti e in essi si risolvono. I mondi si formano in questo modo: staccandosi dall'infinito molti corpi d'ogni specie di figura si portano nel grande vuoto e raccoltisi insieme formano un unico grosso vortice, per cui essi, urtandosi tra di loro e volgendosi in circolo in ogni possibile direzione, si separano in modo che i simili si uniscano ai simili [3].

Questa spiegazione sul modo in cui si formano gli altri mondi viene attribuita a Leucippo dallo storico del III secolo a. C. Diogene Laerzio.

   
La convinzione che esistesse una pluralità di mondi fu adottata anche dal poeta e filosofo romano Lucrezio. Seguace egli stesso dell'atomismo, Lucrezio riprendeva l'argomento di Epicuro secondo il quale, dato il numero infinito di atomi, non esiste nessun impedimento ovvio alla formazione di altri mondi, che si formeranno naturalmente:

Che mondi di tal genere siano infiniti di numero è possibile concepirlo, [e si formano...] per il confluire da un solo cosmo o metacosmio, o da più, di certi atomi adatti, i quali determinano a poco a poco aggiunte e connessioni e mutamenti in un altro luogo, a seconda di come càpiti, e afflussi di complessi adatti fino al compimento e in modo da poter durare, fino a che cioè le basi sottoposte ammettano l'aggiunta di materia [4].

Nella sua essenza questa antica argomentazione è la stessa che è anche alla base della ricerca del programma SETI [Search for Extra Terrestrial Intelligence]. Data l'abbondanza della materia e l'uniformità della natura, gli stessi processi fisici che hanno portato alla formazione della Terra e del sistema solare dovrebbero ripetersi altrove; e se altrove si verificassero le condizioni appropriate, la vita e la consapevolezza dovrebbero emergere su altri mondi più o meno nello stesso modo in cui sono emerse qui.

 Gli atomi certo/non si disposero in ordine/né per volere né per fisso disegno/né s'accordaron fra loro sui moti/che avrebbe ciascuno impresso al suo corso./Ma in mille maniere da tempo infinito/movendosi, gli atomi urtati da colpi/e spinti e portati dallo stesso loro peso,/in mille maniere si unirono/tentando, aggruppati, forme di vita:/accadde così che agitati nel tempo,/provando ogni specie d'incontro e di moto,/pervennero infine a quel nesso improvviso,/a questa che fu la materia dei mondi,/cioè della terra e del mare e del cielo/e del genere umano e animale [5].

Gli atomisti greci non avevano pregiudizi contro la possibilità che esistesse la vita su altri mondi. Questo era un argomento di discussione comune tra i filosofi dell'antica Grecia. I pitagorici, ad esempio, erano dell'opinione che la Luna fosse abitata da creature superiori a quelle della Terra. In un'opera letteraria più tarda lo storico greco Plutarco (ca. 45-120 d.C.) fa un confronto tra la Luna e la Terra favorevole alla prima e riflette sulla natura e gli scopi degli abitanti lunari.

   
Nell'Europa del Rinascimento, con la nascita della scienza moderna, la discussione sulla possibilità dell'esistenza di forme di vita al di fuori della Terra prese una nuova piega. Prima Copernico stabilì che la Terra non è al centro dell'universo ma ruota intorno al sole insieme agli altri pianeti. Poi i telescopi cominciarono a rivelare alcuni dettagli sulla superficie degli altri pianeti. Tutto ciò portò inevitabilmente a pensare che i pianeti fossero altri mondi, più o meno come la Terra, piuttosto che misteriose entità celesti.

  
Un rappresentante fondamentale di questo nuovo modo di vedere le cose fu l'ex domenicano e filosofo scolastico Giordano Bruno. Nel 1584 Bruno lasciò l'Italia e andò a lavorare a Oxford dove si dichiarò convinto sia della validità del sistema astronomico copernicano che dell'esistenza di un'infinità di mondi abitati.

  
Nel suo libro De infinito, universo et mondi espose le sue idee sugli altri mondi, distinguendo tra stelle e pianeti, ma sostenendo che entrambi i tipi di corpi celesti erano abitati. Per confutare l'argomentazione di Aristotele secondo la quale la Terra si trovava al centro di un unico cosmo sferico, Bruno faceva appello soprattutto al ragionamento filosofico e geometrico. Purtroppo le sue opinioni erano considerate molto pericolose dall'Inquisizione e quando Bruno tornò in Italia nel 1592 fu arrestato e accusato di una serie di eresie, finché nel 1600 fu mandato al rogo.

  
A questo punto, però, la rivoluzione scientifica era ormai avviata. Gli studi sulla Luna di Keplero, ad esempio, lo portarono a formulare uno stretto paragone con la Terra, come aveva fatto Plutarco. Keplero individuò montagne e avvallamenti e, stranamente, invertì l'interpretazione di Plutarco sostenendo che le aree più luminose della superficie lunare erano mari. Keplero fece anche l'ipotesi che gli abitanti della luna avessero «un corpo molto più grande e un temperamento molto più violento del nostro a causa delle lunghe e calde giornate lunari» [6].

  
Quando Galileo rivolse verso i cieli il telescopio che aveva recentemente inventato, le ipotesi riguardanti altri possibili mondi abitati fiorirono. Keplero congetturò che un ampio cratere della luna potesse essere opera dei suoi abitanti e che i seleniti avessero addirittura costruito delle città. Egli si appigliò anche alla scoperta da parte di Galileo delle quattro lune di Giove per sostenere che erano state create da Dio a beneficio degli abitanti del pianeta:

La nostra luna esiste per noi sulla terra, non per gli altri globi. Quelle quattro piccole lune esistono per Giove, non per noi. Ogni pianeta, insieme ai suoi occupanti, è servito dai propri satelliti. Da questo possiamo dedurre con il massimo grado di probabilità che Giove è abitato[7].

Il diciassettesimo secolo, sia nell'Europa cattolica che in quella protestante, vide la pubblicazione di un certo numero di opere che riflettevano sulle implicazioni della nuova astronomia e sulla diversa visione del mondo che essa comportava. Questi commentatori affrontavano l'idea che altri mondi potessero essere abitati senza mai perdere di vista la Chiesa e la dimensione teologica delle proprie speculazioni. Galileo, ad esempio, nel suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) fu molto cauto nel discutere la possibilità che la luna e i pianeti avessero abitanti simili a noi. L'ecclesiastico inglese John Wilkins (che più tardi diverrà vescovo), nel suo libro Discovery of a world in the moone (Scoperta di un mondo sulla luna) pubblicato per la prima volta nel 1638, sosteneva invece con forza l'idea che la luna fosse abitata. Wilkins fece di tutto per dimostrare che questa convinzione non era in conflitto con le Sacre Scritture. Keplero, tuttavia, già nel 1610 aveva ben chiari i rischi teologici di tale affermazione: «se ci sono in cielo globi simili alla nostra terra [...], come fanno tutte le cose a esistere in funzione dell'uomo? Come possiamo noi essere i padroni dell'opera di Dio?».

   
Alla fine del diciassettesimo secolo l'astronomo e fisico olandese Christiaan Huygens pubblicò un trattato dettagliato sulla vita extraterrestre intitolato Cosmotheoros, in cui diede libero sfogo alla propria immaginazione. Egli sosteneva anche che è proprio di un Dio benevolo dotare gli altri mondi di vita e di intelligenza.

  
Anche se le sue osservazioni lo avevano portato a dubitare del fatto che la luna fosse una dimora appropriata per degli esseri viventi, egli sosteneva l'esistenza di gioviani, saturniani, mercuriani e altri, fino a descriverne addirittura il carattere.

  
Il telescopio non si limitò a rivelare i segreti del sistema solare. Scomponendo la Via Lattea in tante singole stelle Galileo aprì all'umanità un primo spiraglio sulla vastità dell'universo e svelò l'esistenza di miliardi di soli, molti dei quali potevano avere un sistema planetario. Questi argomenti vennero ad avere basi più solide con l'opera di Isaac Newton, le cui leggi sul movimento e la gravità permisero infine di avviare un'appropriata analisi teoretica e matematica della struttura dell'universo. In particolare, la legge di gravitazione universale di Newton portava con sè l'implicazione che altre stelle, o soli, fossero soggetti agli stessi processi fisici a cui è soggetto il nostro sistema solare e che quindi potessero avere anche i propri sistemi planetari. Anche se fu solo più di un secolo dopo, con l'opera di Pierre Laplace, che venne formulata una teoria plausibile e scientifica sull'origine del sistema solare (e per estensione di altri sistemi), i contemporanei di Newton si affrettarono ad applicare le sue idee al problema degli altri mondi. In Inghilterra, Richard Bentley invocò le teorie newtoniane nel tentativo di dimostrare l'intervento di Dio nell'universo fisico. Nel fare questo Bentley affrontò esplicitamente il problema della vita extraterrestre. Secondo il suo ragionamento Dio non avrebbe creato tante stelle, la maggior parte delle quali sono invisibili dalla Terra a occhio nudo, soltanto per l'uomo. Di conseguenza, esse devono esistere a beneficio degli abitanti dei pianeti a loro vicini:

Come la Terra fu principalmente progettata per servire gli Uomini ed essere da essi contemplata, perché non possono gli altri Pianeti essere stati creati per un simile uso, ciascuno per i suoi abitanti dotati di Vita e di Intelligenza? [8]

E similmente, Huygens si chiedeva:

Perché allora non dobbiamo [...] concludere che la nostra stella non abbia più seguito delle altre? E quindi quello che abbiamo riconosciuto ai suoi pianeti, per il fatto che noi ne godiamo, dobbiamo similmente riconoscere a tutti quei pianeti che circondano quel prodigioso numero di soli [9].

La convinzione che l'universo fosse pieno di pianeti abitati rimase diffusa per tutto il diciassettesimo secolo, così che il grande filosofo del diciottesimo secolo Immanuel Kant poté scrivere ampiamente sull'argomento degli esseri extraterrestri senza tema di ridicolo. Secondo lo schema cosmologico di Kant l'universo ha un centro e una periferia fissi, e la natura delle creature che abitano gli altri mondi dipende dalla loro distanza dal centro. La materia vicina al centro è densa e simile a zolle, mentre quella vicina alla periferia è più raffinata. Queste qualità si riflettono nella mentalità degli esseri corrispondenti.

  
Nel diciannovesimo secolo gli astronomi e i fisici svilupparono una visione dell'universo più accurata e completa. I geologi stabilirono che la Terra aveva diversi miliardi di anni e Charles Darwin trattò per la prima volta in modo moderno l'argomento dell'origine e dell'evoluzione della vita. Le considerazioni teologiche scomparvero quasi del tutto dall'arena della ricerca scientifica. Con la possibile eccezione di Venere e di Marte, si scoprì che gli altri pianeti e satelliti del sistema solare erano abbastanza diversi dalla Terra e con ogni probabilità estremamente ostili alla nascita biologica della vita; e in mancanza di una convincente teoria sull'origine del sistema solare, nessuno poteva essere sicuro che ci fossero altri pianeti in orbita attorno ad altre stelle. Ancora oggi i telescopi non sono abbastanza potenti da individuare direttamente alcun pianeta al di fuori del sistema solare.

  
Nonostante ciò, l'esistenza di esseri alieni è sempre rimasta un argomento di discussione . Commentando il dibattito tra gli scienziati della prima metà del diciannovesimo secolo in materia di vita extraterrestre, Michael Crowe scrive:

La cosa che ci colpisce di più è quanto questa idea venisse discussa. Da Città del Capo a Copenhagen, da Dorpat a Dundee, da San Pietroburgo a Salt Lake City, i terrestri parlavanodegli extraterrestri. Le loro conclusioni apparivano su libri e opuscoli, quotidiani popolari e ponderose riviste, in sermoni e commenti alle scritture, in poesie e opere teatrali, e persino in un inno e su una pietra tombale. Baroni di Oxford e direttori di osservatori, capitani di marina e capi di stato, riformatori radicali e conservatori cattolici, scienziati e saggi, ortodossi e eterodossi − tutti avevano qualcosa da dire [10].

Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, tuttavia, un nuovo clima di indagine più scettico e rigoroso cominciò a scoraggiare queste sfrenate speculazioni sull'esistenza di esseri extraterrestri. Nel 1853 il filosofo William Whewell, direttore del Trinity College di Cambridge ed ex-sostenitore della teoria dei mondi abitati, pubblicò un trattato anonimo intitolato Of the Plurality of Worlds: an Essay (Saggio sulla pluralità dei mondi), in cui attaccava l'ipotesi sulla base di argomentazioni filosofiche, teologiche e scientifiche. Ne seguì un intenso dibattito in cui accanto agli argomenti scientifici si discussero le implicazioni dell' esistenza di esseri alieni per la Cristianità. Secondo Crowe «uomini dalle profonde convinzioni religiose venivano sfidati non da miscredenti ma da uomini altrettanto sinceramente religiosi a discutere quella che alcuni vedevano come, una questione di astronomia».

  
Nel frattempo gli stessi scienziati cominciarono ad abbandonare l'idea dell'esistenza di altri mondi abitati sulla base delle prove in senso negativo sempre più consistenti fornite dall' astronomia. Inoltre cominciò a perdere forza l'argomento filosofico secondo il quale gli altri pianeti devono essere abitati in virtù della loro semplice esistenza. Verso la fine del secolo molti scienziati cominciarono a pensare che l'Uomo, dopo tutto, fosse solo nel cosmo. C'erano, tuttavia, anche delle eccezioni. Nel 1877 l'astronomo italiano Giovanni Schiaparelli, dopo aver fatto un dettagliato studio su Marte riferì dell' esistenza di linee scure sulla superficie del pianeta. Il suo uso della parola «canali» per definire queste linee fece sì che nel mondo anglosassone la sua scoperta venisse fraintesa e si pensasse a canali di origine artificiale. Gli astronomi, eccitati, cominciarono a studiare il pianeta rosso alla ricerca di forme di vita e sulle mappe della superficie marziana cominciarono a comparire complicate reti di linee. L'astronomo americano Percival Lowell fondò l'osservatorio Lowell di Flagstaff, in Arizona, per dedicarsi principalmente allo studio deicanali di Marte e più tardi scrisse entusiasticamente: «Che Marte sia abitato da esseri di qualche tipo possiamo ormai darlo per assodato, mentre non sappiamo ancora bene di che tipo di esseri si tratti» [11].

   
Marte si prestava bene a questo tipo di speculazioni: un po' più piccolo della Terra, ha tuttavia un'atmosfera meno densa, e anche se è più lontano dal sole, sulla sua superficie le temperature possono ancora salire al di sopra del punto di congelamento dell'acqua. Inoltre gli astronomi riuscirono a vedere delle calotte polari bianche simili a quelle della Terra. Attente osservazioni rivelarono anche cambiamenti stagionali nel colore e nella configurazione della superficie marziana che potevano facilmente venire attribuite alla crescita di vegetazione. Non era difficile credere che i marziani si fossero organizzati per costruire i canali e portare l'acqua disciolta dei ghiacci polari verso le regioni equatoriali in cui le temperature più miti permettevano alla vegetazione di crescere meglio.

  
Tutte queste congetture contribuirono a creare l'immagine di Marte come un pianeta in lenta degenerazione, i cui abitanti erano stati costretti a usare forme di ingegneria molto avanzata per portare avanti una precaria esistenza, in contrasto con quanto accadeva sulla nostra opulenta e generosa Terra. La convinzione che esistessero questi marziani disperati divenne molto diffusa tra la gente e creò il pubblico ideale per un classico del 1898, il romanzo La guerra dei mondi dell'autore inglese H.G. Wells, in cui i marziani decidono di invadere il più attraente pianeta Terra.

    
Durante la prima metà del ventesimo secolo si continuò a parlare di esseri extraterrestri quasi esclusivamente in letteratura. Sebbene i racconti avessero una parvenza di scientificità, si trattava di pure e semplici opere di fantasia. Il modo di percepire il problema da parte del pubblico cambiò con la Seconda Guerra Mondiale. L'introduzione di nuovi strumenti per combattere la guerra aerea (soprattutto gli aerei a reazione, iradar, i razzi e la bomba atomica) rese la gente sensibile alle possibili minacce provenienti dal cielo. Dalla realtà del missile V2 a quella della nave spaziale interplanetaria che trasportava alieni dotati di armi tecnologicamente superiori alle nostre il passo sembrava breve. Gli scrittori di fantascienza, i disegnatori di fumetti e i registi cinematografici giocarono su queste paure, ed ebbe inizio la narrativa dell'era spaziale, da Superman a Guerre Stellari. Durante gli anni del secondo dopoguerra si verificò anche un grande aumento del numero di persone che dicevano di aver avvistato oggetti volanti non identificati (UFO). Molti si convinsero che la Terra venisse regolarmente visitata da alieni con i loro dischi volanti. Con il lancio dei satelliti artificiali e lo sviluppo dei programmi spaziali con equipaggi umani, che culminarono con l'atterraggio sulla luna, la gente cominciò a dare per scontati i viaggi nello spazio. Oggi la fantasia popolare non ha difficoltà a immaginare esseri extraterrestri che attraversano la galassia sulle loro raffinatissime astronavi.



[1] Epicuro, Epistula ad Herodotum, 45, 3 sgg. [tr. it. in Opere, Einaudi, Torino 1973, p. 42].

[2] Aristotele, De coelo, I (A), 8, 277 a [tr. it in Opere, Laterza, Roma-Bari 1991, vol. 3, p. 263].

[3] Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, IX, 31 [tr. it. Vite dei filosofi, Laterza, Roma-Bari 1983, voI. 2, p. 364].

[4] Epicuro, Epistula ad Pythoclem, 89 [td. it. in Opere, cit., p. 80].

[5] Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, V, 419-31 [tr. it. cit., pp. 309-311]; cfr. anche 1, 1021 sgg.

[6] Cit. in S. Dick, Plurality of Worlds: The Extraterrestrial Life Debate from Democritus to Kant, Cambridge University Press, Cambridge 1982, p. 71.

[7] Johannes Kepler, Dissertatio com Nuncio Sidereo (1610), tr. ingl. Kepler's Conversation with Galileo's Sidereal Messenger, Johnson, New York 1965, p. 42.

[8] Richard Bentley, A Confutation of Atheism from the Origin and Frame of the World, in I. Bernard Cohen (ed.), Isaac Newton's Papers and Letters on Natural Philosophy, MIT Press, Cambridge MA 1958, p. 356.

[9] Christiaan Huygens, The Celestial Worlds Discover'd: or, Conjectures concerning the Inhabitants, Plants and Productions of the Worlds in the Planets (1698), Cass, London 1968, p. 150.

[10] Michael Crowe, The Extraterrestrial Lije Debate 1750- 1900, Cambridge Univerity Press, Cambridge 1982, p. 263.

[11] Percival Lowell, Mars and its Canals, Macmillan, London New York 1908, p. 376.

     

P. Davies, Siamo soli? Implicazioni filosofiche della vita extraterrestre, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 5-16.