Il fanatismo? Non è affatto un eccesso di religione

Adrien Candiard
2020

Tre anni fa ho partecipato, a Beirut, a un convegno sulla violenza di matrice religiosa, con la presenza di ricercatori di ogni orizzonte. Il mio intervento riguardava una fatwa che era già stata per me oggetto di studio. Ne è autore un teologo musulmano del XIV secolo, Ibn Taymiyya, figura di riferimento per gli odierni salafiti. A Ibn Taymiyya avevano domandato: che cosa dobbiamo pensare dei musulmani che partecipano assieme ai cristiani all'allegria del giorno di Pasqua? Non che i musulmani andassero a messa, ma semplicemente avvenivano scambi di uova colorate, o inviti a cena dei vicini: espressioni in apparenza del tutto innocenti. La risposta del teologo è senza appello: quei musulmani devono essere richiamati all'ordine e, se persistono o recidivano, meritano la morte.
Giusto una settimana prima di quel convegno, sui giornali aveva trovato spazio un fatto di cronaca: un bottegaio scozzese musulmano era stato ucciso nella sua casa. Per la polizia il movente era chiaro: pochi giorni prima, la vittima aveva pubblicato su Facebook un post augurale di buona Pasqua ai suoi concittadini cristiani. Omicidio in sé agghiacciante, e ancor più perché incomprensibile. Senza lontanamente giustificarla, si può ancora riconoscere qualche forma di razionalità alla legge che condanna a morte l'apostata: ha una sua logica, certo non condivisibile. Ma in questo caso? Uccidere uno perché è stato gentile? È pura barbarie, scioccante, assurda.
Ma anche a una simile assurdità dovevo cercare una spiegazione. La fatwa medievale che dovevo presentare a Beirut si era rivestita di una drammatica attualità. La mia tranquilla scrivania di studioso si trovava schizzata di sangue. Forse, però, avevo nello stesso tempo una via per superare lo shock. Avevo sotto gli occhi un testo, scritto da un autore intelligente e che mi era familiare, che giustificava proprio quel gesto incomprensibile. Avevo una pista alternativa a quella che solitamente battiamo e che non spiega niente: la follia.
Si ricorderà che Voltaire dedicò un celebre articolo del suo Dizionario filosofico al fanatismo. In esso presentava, con stile, il fanatismo come una malattia della mente. «Il fanatismo sta alla superstizione come il delirio alla febbre, come le furie alla collera». Esso inizia con visioni scambiate per realtà, ma non si arresta fino a che non abbia indotto a una condotta aberrante, spesso violenta. «Il più disgustoso esempio di fanatismo è quello dei borghesi di Parigi che, la notte di san Bartolomeo, corsero ad assassinare, sgozzare, buttar giù dalle finestre, fare a pezzi i loro concittadini che non andavano a messa». «Febbre», «peste degli animi», «malattia epidemica», «accesso di furore» che «incancrenisce il cervello»: i termini di Voltaire per definire il deragliamento del religioso che porta alla violenza o, in ogni caso, all'inspiegabile, sono quelli della medicina psichiatrica. Il comportamento del fanatico è intrinsecamente irrazionale, come Voltaire sottolinea quasi scherzosamente: «Che cosa rispondere a un uomo il quale vi dice che preferisce ubbidire a Dio che agli uomini e che, di conseguenza, è sicuro di meritare il cielo sgozzandovi?». Il filosofo non sapeva niente del terrorismo contemporaneo, ma gli si può riconoscere una certa attualità. Ed è ancor più vero per la chiusa dell'articolo: la follia del fanatico è inspiegabile, ma il più delle volte è manipolata, e ciò può spiegare come una follia individuale possa diventare un potente fenomeno collettivo, come nel caso di un movimento terroristico. «Di solito sono le canaglie a guidare i fanatici e a mettere loro in mano il pugnale; somigliano a quel Vecchio della Montagna che faceva, si dice, gustare le gioie del paradiso a certi imbecilli, e prometteva loro un'eternità di quei piaceri di cui avevano avuto un assaggio, a condizione che andassero ad assassinare tutti coloro che egli avesse indicato».
E, con questa allusione al movimento sciita ismailita medievale che è stato chiamato Setta degli Assassini, Voltaire dà una chiave di lettura di un fenomeno che vedo essere ancor oggi assai comune, e che il giornalismo spesso utilizza di preferenza a ogni altra analisi: un movimento come lo Stato Islamico viene presentato come un'accozzaglia di giovani sbandati manipolati da un gruppo di cinici. Non è completamente falso: ci sono degli sbandati, e ci sono dei cinici. Ma la trovo una lettura dal fiato corto. Non si amministra per anni un vasto territorio, popolato da decine di migliaia di persone, e facendo la guerra al mondo intero, grazie a un pugno di imbecilli strumentalizzati. Ci troviamo davanti a qualcosa di ben diverso dalla setta del Tempio Solare ... Affinché un'organizzazione simile, e con una tale portata, possa funzionare, servono anche dei credenti. Persone che abbiano del mondo una certa visione, per loro coerente e razionale, corrispondente alla realtà, e non un semplice delirio collettivo. L'approccio psichiatrico non è inutile – e dopo Voltaire è andato perfezionandosi. Gli studi recenti in materia sono utili, anche essenziali, per cogliere i pro­ cessi psicologici di slittamento nella violenza, ma non spiegano tutto; alla stregua, del resto, degli approcci sociologici, attenti, più che alle nevrosi individuali, a cause più collettive: le banlieue devastate dalla disoccupazione, o l'umiliazione geopolitica di intere nazioni.
Con la mia fatwa sulle uova di Pasqua avevo a disposizione un'altra chiave di lettura possibile: quella teologica. È una chiave che non invalida comunque le altre: di fronte a fenomeni complessi occorre moltiplicare gli approcci. Quello teologico ha il vantaggio di prendere sul serio quanto il fanatico dice. Non lo giudica a priori dicendo "è un folle" o "è un escluso". Lo ascolta. Può rispondergli e discutere. L'approccio teologico lo fa uscire dalla pura e semplice irrazionalità con la quale non si può entrare in dialogo e in base alla quale noi rimuoviamo il fanatico dalla cerchia dell'umanità.
L'approccio di Ibn Taymiyya si fonda su una teologia, lo hanbalismo, che mette al centro la trascendenza assoluta di Dio: egli è così radicalmente differente dal mondo creato che non possiamo conoscerlo, né ora né mai. La sua natura ci è inaccessibile. Con lui non abbiamo una relazione personale. Ne conosciamo unicamente la volontà quale è espressa nella rivelazione coranica. Non sappiamo chi è, sappiamo però quello che vuole. Essere religiosi, avere fede, non consiste nell'instaurare una relazione personale con Dio, parlargli, ascoltarlo, amarlo, ma nel fare ciò che ci chiede di fare e nulla più. Più precisamente: amarlo è solamente questo. Non è una questione di interiorità, ma di azione. Questo pio agnosticismo sulla natura di Dio va dunque di pari passo con un amore pieno di zelo per la sua Legge. Con quali conseguenze, nel caso della domanda posta a Ibn Taymiyya? Sono conseguenze notevoli. Dal momento che di Dio conosciamo solo la volontà, essere musulmani significa comportarsi da musulmani. Allo stesso modo, comportarsi da cristiani è essere cristiani. Fare è essere. Dunque, fare come i cristiani, anche in pratiche secondarie (un pasto festivo, uova colorate ...), è già essere cristiani. Per un musulmano significherà essere apostata – indipendentemente dalle convinzioni interiori. E nella tradizione giuridica islamica classica l'apostasia è passibile di morte. Siamo qui all'estensione massimale della definizione di apostasia, fondata su una teologia particolare – che ho chiamato pio agnosticismo.
Gli effetti del pio agnosticismo sono molteplici e non scollegati dalla possibilità della violenza. Se infatti io, credente, cerco di convincere i miei simili a credere, lo farò sulla base dei miei presupposti teologici. Se scopo della mia attività di apostolo è farti amare Dio con tutto il cuore, il ricorso alla costrizione sarà inutile se non controproducente: potrò, al limite, forzarti ad andare a messa o a recitare il Credo, certo non ad amare Dio. Se invece il mio fine è farti agire in questo o in quel modo, sottometterti a una linea di condotta che giudico essere quella richiesta da Dio, la costrizione diviene allora uno strumento adeguato, soprattutto se ritengo che Dio è per natura inaccessibile alla nostra ragione: ogni discussione è superflua e l'uso della violenza s'impone.
È utile, a questo punto, sottolineare che questa teologia, questo pio agnosticismo, è solo una fra le tante nell'islam, ma che non esprime l'essenza di questa religione – se proprio occorre cercare un'essenza. Il punto è che lo hanbalismo – risalente al IX secolo e rimasto a lungo relativamente marginale – ha ripreso nuovo vigore da un secolo con la crescita del movimento riformatore del salafismo. La crisi che oggi scuote l'islam sunnita, di cui il terrorismo è solo uno degli aspetti più visibili, ha largamente a che vedere con il successo crescente, e non sempre cosciente, di questa teologia del rifiuto della teologia. Una teologia da cui Dio è assente, eccetto che sotto forma di comandamenti.
I dibattiti del IX secolo non interessano più nessuno, ma sono in realtà essenziali; la teologia ci pare astratta e inutile, ma rifiutarla, farla uscire dal perimetro della ragione, significa accettare di essere agiti inconsapevolmente da teologie di cui non possediamo le coordinate. Con il suo rifiuto di un Dio accessibile alla ragione e alla relazione, lo hanbalismo costruisce un Dio che s'identifica con i suoi comandamenti: questi vengono conseguentemente investiti di una potenza formidabile e anche di una forma di assoluto. Ora, tutto ciò non porta necessariamente alla violenza; ma un rapporto di questo tipo con il comandamento avrà conseguenze che vanno dalle scelte di vestiario alla dimensione politica.
La chiave di lettura teologica permette, secondo me, di evitare due scogli: il primo è quello di credere che, a causa del nostro contesto contemporaneo, il fanatismo religioso appartiene solo all'islam, il quale viene così caricato di tutti i mali; l'altro scoglio sarebbe, per evitare il primo, mettere tutti quanti sullo stesso piano, decretando che in fin dei conti ci sono fanatici dappertutto – e sottintendendo che il problema non è il fanatismo ma la religione. Una maniera di vedere che ha il vantaggio di non creare gelosie, ma che non spiega niente. Mette sul medesimo piano cose assai differenti: un fondamentalista evangelico che crede che il mondo sia stato creato in sette giorni di ventiquattr'ore non è un jihadista; i lefebvriani non commettono attentati kamikaze. Mettere tutti indistintamente nello stesso sacco vuol dire condannarsi a non capire niente. È questo il pericolo quando si interpreta il fanatismo unicamente come un fatto psicologico o sociale.
L'ipotesi che propongo è la seguente: il fanatismo è frutto di una teologia che ha messo Dio in disparte. È un'assenza di Dio, quasi un ateismo – un ateismo che non cessa di parlare di Dio ma che in realtà lo sostituisce.
È una definizione di fanatismo, questa, che può stupire, sono quindi tenuto a spiegarmi ulteriormente. Noi siamo abituati a vedere nel fanatismo un eccesso di religiosità. Lo suggeriscono i termini stessi che usiamo – "islam radicale", "religioso estremista" –, che sottintendono che fanatico è colui che vive la propria religione fino in fondo. Ho già avuto modo, in altre occasioni, di dire tutto il male che penso dell'auspicio troppo spesso formulato che emergano i "musulmani moderati", ossia moderatamente musulmani, con il sottinteso che più si è musulmani più si è violenti, intolleranti, settari – e in questo modo diamo ragione ai violenti e settari che reclamano di essere loro i veri musulmani, il solo vero islam, e rendiamo un pessimo servizio ai musulmani che vivono l'islam in altre forme. Crediamo davvero di dare un sostegno a questi ultimi qualifìcandoli "moderati"? La moderazione è una virtù, oppure è solo tiepidezza e mancanza di convinzione? Io non ho la minima voglia di essere un "cristiano moderato". Cerco di vivere il mio battesimo dando tutta la mia vita a Cristo, radicalmente. Francesco d'Assisi, Vincenzo de' Paoli o Madre Teresa possono forse essere qualificati cristiani estremisti, tanto hanno vissuto la vita cristiana fino all'estremo, radicalmente. Sono forse dei fanatici?
C'è, dietro questi aggettivi, un ideale kantiano, espresso nel titolo di una sua opera, La religione entro i limiti della semplice ragione, in cui vengono accettati gli aspetti giudicati positivi del religioso (buona morale, valori...) e rigettati quelli ritenuti eccessivi, a partire dalla fede. In medio stat virtus, si faceva dire ad Aristotele: il coraggio si troverebbe così in una zona tra la vigliaccheria e la temerarietà. Lo stesso vale per la virtù della religione, che suppone che vi si aderisca ma non troppo?
Io non sono insomma convinto il fanatismo sia un eccesso di religione. È, al contrario, un difetto di fede, un'assenza di Dio. Ora, il posto lasciato dall'assenza non resta vacante: viene subito occupato da un idolo, che sarà rivestito di attributi divini. Il vuoto lasciato nel cuore dall'assenza è terribile, ma viene compensato. Chi interpreterà il ruolo di Dio? Qualcosa che gli somigli. Nel caso dello hanbalismo saranno i comandamenti di Dio; ma potrebbero essere altre cose riguardanti Dio: il culto, la liturgia; le formulazioni della fede; la religione stessa. Il primo dei dieci comandamenti, che proibisce l'idolatria, che vieta di adorare checchessia al posto di Dio, a noi sembra andato fuori scadenza, tanto siamo lontani dal vederci prostrati davanti a una statua di Giove o di Baal. Tentiamo a volte di attualizzarlo denunciando come idoli del mondo moderno il denaro o il telefonino, che però sono soltanto oggetti che creano dipendenza. Ben più grande è il rischio di idolatrare, ossia di confondere con Dio, di considerarle assolute, delle cose che riguardano Dio, che vengono da lui. Più sono vicine a Dio, più il rischio di idolatria è maggiore. Il fondamentalismo biblico, per esempio, che assolutizza ogni versetto della Scrittura per farne una verità indiscutibile, è un'idolatria della Bibbia: dimentica che la Parola di Dio è Cristo, non un libro. Idolatrare la nostra propria religione è un modo di mettere al centro non Dio ma la nostra identità (di cui siamo spesso dubbiosi). Mi sembra significativo, in proposito, osservare che l'integralismo cattolico non ha prodotto teologia, tutto preso com'è dalla sua concezione di cattolicesimo autentico. Io non sono uno specialista di questa corrente di pensiero, ma questa aridità teologica mi mette una pulce nell'orecchio. La posta in gioco è il vero cattolicesimo o il vero Dio?
In tutti gli esempi fatti sopra, l'oggetto messo in luogo di Dio è una cosa buona, anche essenziale, ma non è Dio. Mi viene in mente quel pensiero di Pascal: «Ci si fa un idolo della stessa verità, poiché la verità senza la carità non è Dio, è la sua immagine e un idolo che non bi­ sogna amare né adorare». Pascal mette il dito su un punto essenziale: una relazione con il divino che non sia una relazione d'amore è falsata.
Il Vangelo stesso illustra alla perfezione questo pensiero di Pascal offrendoci molti esempi di una conoscenza teorica di Dio che rifiuta il suo amore: si tratta dei demoni. Furono loro i primi a riconoscere in Gesù il Figlio di Dio, e da ben prima dei discepoli. Già nel primo capitolo di Marco, quando Gesù dà il suo primo insegnamento e compie il primo miracolo, un demone esclama: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!» – con sette capitoli di anticipo su Pietro, il quale solo molto più tardi dichiarerà: «Tu sei il Cristo». I demoni del Vangelo conoscono Dio o, meglio, conoscono delle verità su Dio. Sulla Trinità, l'incarnazione o la pericoresi ipostatica sono imbattibili. Ma appunto non conoscono lui, non per difetto di capacità intellettuale o di comprensione, ma perché ne rifiutano un elemento essenziale e primario: il suo amore. Anzi, ciò che essi rifiutano non è neppure amare, ma essere amati, condizione necessaria per amarlo in contraccambio e amare le creature. La venuta di Cristo li mette in fuga perché non sono permeabili alla salvezza, che altro non è se non accoglienza dell'amore di Dio. La durezza di cuore (la sclerocardia di cui parla il Vangelo) è sempre a doppio senso: è perché non so essere amato che a mia volta mi mostro inflessibile e rigido con il mio prossimo.
Non so se il fanatismo sia una malattia psicologica. Lo sarà, dato che lo sostengono medici di grande scienza, ma io non mi avventurerò su questo terreno sconosciuto. Quello che so è che il fanatismo è anche, forse soprattutto, una malattia della vita spirituale, e che può prendere forme molto diverse a seconda dell'oggetto che prende il posto di Dio, poiché questo comporta effetti assai differenti nella pratica. Forme diverse accomunate, però, da uno stesso esito: la chiusura. Gli idoli sono incapaci di procurare la libertà interiore: forse proprio da questo li riconosciamo. Creano ossessioni, scrupoli, paura. Ed è logico: non essendo Dio, gli idoli sono limitati. Ci rinchiudono nei loro stessi limiti, sono incapaci di aprirci all'infinito. E manca pure il reale: il loro è un mondo chiuso perfettamente coerente che il reale non può scalfire. "Troppo coerente per essere vero": sul piano intellettuale come sul piano spirituale. Troppo solido per essere vero: una relazione è sempre in movimento!
Nella prospettiva che propongo, il primo luogo dove combattere il fanatismo non saranno i social network, nei quali possiamo esprimere la nostra indignazione davanti all'intolleranza o alla stupidità, bensì noi stessi, attraverso un cammino di conversione dalle tentazioni idolatriche, dalla nostra fatica ad accogliere in tutta la nostra vita l'amore incondizionato di Dio. Perché il vero antidoto al fanatismo è la vita spirituale. È la relazione con Dio. Relazione sempre difficile, problematica, misteriosa, e pur sempre relazione, dove si abbia cura di lasciare soltanto a Dio il posto assoluto che appartiene unicamente a lui, e che a noi piace invece dare ad altri. "Solo Dio è Dio", non cessa di insegnarci la vita spirituale, che formula in noi tautologie che sembrano non significare nulla fino al giorno in cui si schiudono e si rivelano, abbacinanti, entusiasmanti. "Solo Dio è Dio", e nulla di ciò che lo attornia. "Solo Dio è Dio", e mi ama. I suoi comandamenti non mi amano, la liturgia non mi ama, la Bibbia non mi ama, la morale non mi ama. Tutti questi elementi non sono Dio . Lui solo è Dio, e mi ama. Non basta una vita per capirlo.
Esistono altri rimedi a questa malattia dell'anima? La teologia, questa scienza così poco studiata, che ci permette di avvicinare il divino, con spirito critico, senza lasciarsi manipolare da approcci semplicistici o seduttivi. L'abbiamo espulsa dalla nostra cultura. È proprio una buona idea lasciare i nostri liceali completamente disarmati davanti a discorsi religiosi che possono precipitarli nell'orrore? È una cosa che si può imparare. Affinare la nostra esperienza di Dio, affinare la nostra maniera di parlarne.
Dialogo interreligioso: poco interessante finché non facciamo che parlare di noi stessi, di quello che siamo, delle nostre identità; finché io rappresento il cristianesimo di fronte a un campione incaricato di rappresentare l'islam. Anche con la migliore volontà, si tratta in fondo di niente più che di confronto, concorrenza, di un concorso puerile a chi prega più forte. Tutto cambia se parliamo di Dio, un terzo su cui io ritengo di avere alcune cose da dire, e cose vere, in Gesù che le rivela; ma un terzo di cui io non ho alcun controllo, che non mi appartiene, che non è un'emanazione di me, di cui posso parlare solo con estrema castità, e di cui posso intravedere il bagliore in ciò che un amico musulmano mi dice di Lui. Un amico, sì, perché chiunque mi parli di Dio in questo modo è un amico! Non sincretismo, non la rinuncia ad affermare la verità delle verità cristiane. Ma un'esperienza sorprendente, forse ciò che di più commovente mi sia dato di vivere: quando un musulmano mi parla di Dio in un modo da farmi accapponare la pelle, perché sento lo Spirito di Cristo all'opera in lui.

A. Candiard, Il fanatismo? Non è affatto un eccesso di religione, «Vita e Pensiero», 103 (2020), n. 4, pp. 38-46. Tr. it. di Pier Maria Mazzola. Si ringrazia Vita e Pensiero per il permesso di riproduzione del testo nel progetto DISF-Educational.

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