Il Cristianesimo e le origini degli Ospedali

Francesco Agnoli
2013

La nascita degli ospedali

Agli ospedali siamo tutti abituati. Diamo per scontato che ogni città ne abbia più d’uno, e che funzioni. Ma difficilmente ci si chiede: come sono nati gli ospedali? Quando sono divenuti un fenomeno diffuso e importante? Sono propri di tutta la storia dell’umanità, o caratterizzano soprattutto un determinato periodo? E in quale cultura hanno visto la luce, prima di diffondersi in tutto il mondo?

A queste domande vi è una riposta piuttosto precisa: gli ospedali, come li intendiamo oggi, sono nati con l’avvento del cristianesimo.

Scopo di questo lavoro è mostrare questa realtà storica, e i corollari connessi, e ripercorrere una vera epopea, una delle esperienze più grandi dell’umanità.

Nel mondo antico, prima di Cristo, la presenza di ospedali ha carattere molto “sporadico” e limiti ben precisi. Il tempio di Esculapio a Pergamo, per esempio, accettava gli infermi solo dietro pagamento, mentre Platone riteneva che «solo degni di cura fossero i cittadini liberi e soprattutto quelli che potevano guarire sicuramente» [1].

Scrive il massimo storico italiano della medicina, Giorgio Cosmacini: «Era tuttavia dal Medioevo non pagano, ma cristiano, che venivano emergendo concetti e valori di grande rilevanza per la medicina. Già il cristianesimo delle origini aveva influito positivamente sulla pratica del curare. Lo stesso evangelista Luca era un “diletto medico”, emulo di Cristo nel risanare il fisico quanto lo spirito». Col cristianesimo «da un lato si affermava il concetto che il malato era un tutto unico, corpo e anima; dall’altro si affermava il valore dell’accoglienza, dell’assistenza, dell’ospitalità»; lo si affermava, questo è il punto, in modo nuovo, con forza e costanza del tutto inedite.

«Il valore dell’ospitalità, d’altro lato, era noto solo marginalmente al mondo classico. I templi degli asciepiadi e i valetudinari dei legionari romani avevano sì ospitato malati, ma non erano propriamente luoghi destinati ad essi. Era il Medioevo cristiano a dare fondamento etico all’hospitalitas: questo stesso nome, conosciuto sì dagli antichi ma solo come attitudine od opzione individuale e come obbligo giuridico nei confronti dell’ospite, si affermava nella bassa latinità come comandamento condiviso, come servizio reso al bisognoso e al sofferente nell’ambito di un cristianesimo che si proclamava religione dei poveri».

Fu così che la Cristianità si dotò di diaconi, per il servizio agli orfani e alle vedove, e, sin da subito, di numerose «case ospitali o domus episcopi, sorte accanto alle residenze vescovili» e «archetipi delle istituzioni ospedaliere moderne» [2].

Raccogliamo qualche altra informazione. Scrive Roy Porter: «Nella Grecia classica non vi erano ospedali... Da parte sua la Roma imperiale si attrezzò con alcune strutture ospedaliere, ma riservate a schiavi e soldati [venivano mandati, per così dire, a “riparare”, per motivi di evidente interesse, N.d.R.]. Fu con l’era cristiana che queste istituzioni iniziarono a essere dedicate alla cura dei malati comuni. Il che non è casuale perché santità e guarigione andavano a braccetto. Cristo era stato artefice di guarigioni miracolose: diede la vista a un cieco e fece camminare uno storpio, e la carità rappresentava la suprema virtù cristiana, prova ne sia la parabola del Buon Samaritano. In quanto espressioni di virtù cristiane quali la carità, la compassione e la cura degli altri, gli ideali dell’assistenza e della guarigione del malato diedero impulso alla fondazione di ospedali. All’inizio del IV secolo, dopo la conversione dell’imperatore Costantino, iniziarono ad essere creati ospedali in quanto fondazione pie, in genere collegati a ordini religiosi dediti a servire Dio e gli uomini.

Durante i secoli del Medioevo, sotto l’egida di monaci, suore e altri ordini religiosi, ne vennero fondati a migliaia grazie a lasciti di devoti» [3].

   

Primi passi nell’epoca cristiana

Espressione evidente della nuova mentalità portata da Cristo e dalla Chiesa cattolica fu l’apparire di molte donne, magari vedove, che si dedicavano alla carità.

I primi secoli del cristianesimo sono ricchi di queste figure, che presso le chiese «si dedicavano all’assistenza dei malati in maniera più o meno professionale, con il nome di diaconesse, dalla parola greca che significa servizio o assistenza. Tuttavia il passo verso un’assistenza di tipo organizzato venne compiuto soltanto verso la fine del quarto secolo, quando Marcella, una ricca vedova romana, adottò la sua magnifica dimora a convento per le monache-infermiere.

Più vicino al significato moderno del termine fu senz’altro l’ospedale fondato nel 390 dalla bella Fabiola a Roma: con due matrimoni infelici alle spalle, ella si convertì al cristianesimo e dedicò il resto della sua vita alle opere di carità. Pur essendo anche lei molto ricca, si recava tra i poveri e gli ammalati, portandone alcuni a casa con sé e non arretrando neanche dinanzi agli aspetti più sgradevoli e ripugnanti della sua opera. Ecco cosa si scrisse del lavoro di Fabiola: “Qui ella riuniva tutti gli ammalati raccolti per le strade, occupandosi personalmente degli infelici e delle vittime della fame e delle malattie. So che esistono molti uomini che non riescono a superare la loro natural ripugnanza per simili spettacoli e compiono la loro opera di amore attraverso altri; essi danno denaro anziché adoperarsi di persona. Pur non condannandoli, devo dire che - anche se avessi cento lingue - non sarei in grado di contare tutti i pazienti che hanno avuto cure e assistenza da Fabiola... Dopo aver fondato un ospedale, vi raccolse tutte le persone sofferenti, raccolte per le strade, prestando loro le attenzioni di una vera infermiera... Quante volte ha lavato il pus da piaghe che altri non riuscivano neanche a guardare! Nutriva i pazienti con le sue stesse mani e, anche quando una persona non era altro che un povero corpo scosso dal respiro, lei ne rinfrescava le labbra con alcune gocce d’acqua”» [4].

Fabiola e Marcella non erano donne pagate dallo Stato o da qualcun altro: erano, come si direbbe oggi, volontarie a vita, mosse dalla carità di Cristo e integrate nella istituzione da lui fondata, la Chiesa.

Accanto alle opere di carità di Fabiola e Marcella in Occidente, e a quella di San Basilio - che creò un’intera cittadella della carità che fungeva da «ospedale, locanda, lebbrosario, scuola di avviamento professionale, orfanotrofio» [5] -, Santa Elena e di tante altre donne e uomini, in Oriente, occorre ricordare, tra gli antenati del moderno ospedale, due Hotel-Dieu in Francia: «Il primo venne costruito a partire dal 542 circa a Lione, per volontà del re Childerico I, mentre il secondo fu fondato un secolo dopo a Parigi dal vescovo della città» [6].

L’Hotel-Dieu di Parigi «divenne nel corso del Medioevo il maggior ospedale della Francia e come tale servì a lungo di esempio. La sua posizione ad Occidente della cattedrale di Notre-Dame indica che fu una fondazione vescovile» [7].

Riassumendo, si può dire che i primi ospedali, centri di accoglienza per malati, poveri, pellegrini e stranieri (in quanto tali detti anche “xenodochi”), nacquero dall’iniziativa privata di matrone come Fabiola e Marcella, che mettevano a disposizione i loro palazzi, le loro ricchezze e la loro stessa vita; e da quella di vescovi, sacerdoti o religiosi che diedero vita a “case ospitali urbane”, designate di solito con nomi simili (“Domus Dei”, o “Ca’ di Dio”, in Italia; “God’s house’’ in Inghilterra, che però nacquero molto più avanti; “Godshuis” nei Paesi Bassi; “Hotel- Dìeu” in Francia, etc...); anche dall’opera di papi come San Gregorio Magno (590-604), che di fronte ad una Roma in disfacimento, in preda alle lotte tra Bizantini e Longobardi, alle carestie e alle pestilenze, «fondò e aiutò ospedali, liberò i prigionieri, assegnò pensioni a indigenti e provvide a rifornire Roma e molte località di generi di prima necessità» [8]; all’interno dei monasteri e dei conventi, che aprivano «le loro “foresterie” agli ospiti forestieri, le loro “infermerie” agli infermi» e inventavano una vasta farmacopea.

 

Medicina greca, Ospedale cristiano

Una delle questioni intriganti che si pongono a questo punto è questa: come mai l’antica Grecia, che ha generato grandi medici, non ha pensato all’istituzione ospedaliera? Se osserviamo la fine del mondo antico e i primi secoli del Medioevo europeo, notiamo un fatto curioso: i monaci, da Cassiodoro ai benedettini, trascrivono e studiano i testi di Galeno e dei medici greci, il cui insegnamento e le cui intuizioni rischiavano altrimenti di scomparire dal ricordo degli uomini; nello stesso tempo danno vita a luoghi di ospitalità, di cura, di sostegno al loro prossimo che contengono in nuce l’ospedale futuro, ma di cui in verità non vi è pressoché traccia nel pensiero e nell’azione dei maestri greci.

Per capire perché questo sia accaduto, come mai la civiltà greca abbia posto le basi della medicina, ma solo la civiltà cristiana abbia dato vita all’ospedale (senza il quale la medicina stessa non sarebbe mai potuta decollare), occorre passare dal piano storico a quello teologico.

La medicina, infatti, nasce dall’intelligenza umana, dalla sua volontà di comprendere e di interrogare la realtà, dopo aver compiuto un atto di fede nei suoi confronti, dopo averla cioè dichiarata intelligibile. La medicina, insomma, nasce dal Logos, risponde al desiderio naturale di conoscere. I greci hanno potuto dare il loro notevole contributo, dunque, proprio perché erano filosoficamente predisposti: perché ritenevano, ben più di altri popoli, che la realtà fosse cosmos, e che la divinità fosse identificabile con il Logos, ovvero con la ragione. I greci erano essenzialmente dei contemplativi, e ponevano l’attività intellettiva ben al di sopra della virtù concretamente fattiva.

Come spiega molto bene Marco Fasol nel suo Eros greco e amore cristiano (M. FASOL, Eros greco e amore cristiano, Fede & Cultura, Verona 2011), nella speculazione di Aristotele Dio è “pensiero che pensa se stesso”, cioè un Dio che contempla se stesso: «Il Dio aristotelico viene amato, ma non ama attivamente, perché dovrebbe piegarsi, chinarsi verso qualcosa di inferiore: è un Dio che pensa, ma non parla, non si rivela all’uomo, perché non ne ha bisogno. È contento della sua perfezione».

Analogamente in Platone «non è concepibile nella divinità una discesa verso l'umano, anche perché questa implicherebbe in Dio una mancanza di qualcosa, e questo non è ammissibile nel mondo degli déi. Dio è perfetto, completo in se stesso, e quindi non prova desiderio o eros per qualcosa o qualcuno di cui sia privo».

Semplificando: se gli déi popolari dell’Olimpo sono troppo umani, infidi, falsi, meschini come gli uomini, gli déi dei filosofi sono troppo lontani e inaccessibili. Nella filosofia greca l’oggetto di amore deve essere degno: Dio dunque è degno di amore, e magari lo sono in qualche modo gli eroi, i grandi uomini (“buoni e belli” nel contempo), ma non certo gli umili, i brutti, gli ignoranti...

Questo è ancora più chiaro nelle filosofie ellenistiche, che hanno come obiettivo l’atarassia, l’apatia, la mancanza cioè di passioni, di desideri, di moti dell’animo. Epicuro, per intenderci, ereditando l’intellettualismo socratico e aristotelico, crede negli dei, ma li considera totalmente disinteressati, estranei alle vicende umane e, nella loro autosufficienza, felici. Di conseguenza propone ai suoi seguaci la ricerca dell’aponia, cioè la soppressione del dolore fisico, e la ricerca dell’atarassia: la beatitudine umana starebbe in una perfetta autarchia, analoga a quella delle indisturbate divinità iperuraniche. Basterebbe questo - nota Fasol - «per scoraggiare qualsiasi ulteriore ricerca sul tema dell’amore in età ellenistica».

Ben diversa, invece, appare la concezione biblica di Dio: già nell’Antico Testamento Egli non solo non è come quello di Aristotele, che “non ama perché si abbasserebbe verso esseri inferiori”, ma neppure come quello di Epicuro, e di tante altre religioni antiche, che si disinteressa dell’uomo.

Al contrario Dio ha scelto un popolo, lo ama, lo riprende, e con esso si “fidanza” e si “sposa”. Ancora più sconvolgente è la novità portata dal Vangelo dove “il primo comandamento” è «amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza. E il secondo è questo: amerai il tuo prossimo come te stesso». Fasol commenta che Gesù gerarchizza e “lega insieme” i due comandamenti, e “questo non era mai accaduto”.

Nel Vangelo di Giovanni, quindi, Dio appare come Logos (con una chiarezza ben maggiore rispetto alla intuizione ancora confusa del pensiero greco), ma anche come Amore: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, per ché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv 4,7-8).

Ma non è ancora tutto: quel Dio contemplabile del mondo greco, che pensava a se stesso, autosufficiente e lontano, sceglie di farsi uomo, di prendere carne: di divenire, come dice Isaia, “sfigurato”, senza “né apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi”, “uomo dei dolori che ben conosce il patire” (Cfr. Is 52,13; 53,12).

Ecco, contemplando questo Dio sofferente, la civiltà cristiana ha ripreso, salvato e portato avanti la scienza medica greca, e nello stesso tempo ha però saputo creare anche luoghi fisici nuovi, gli ospedali, dove tutti, ricchi e poveri, belli e brutti, potessero trovare rifugio e sostegno.

 


[1] Enciclopedia Treccani, voce “Ospedale”; si veda anche G. NISTICÒ, N.G. MARCHESE, Dalla magia alla medicina sperimentale, Spirali, Milano 2004.

[2] G. COSMACINI, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza, Bari 2009, pp. 117-118.

[3] R. PORTER, Breve ma veridica storia della medicina occidentale, Carocci, Roma 2004, pp. 167-168.

[4] K. HAEGER, Storia illustrata della chirurgia, Il pensiero scientifico Editore, Roma 1989, p. 56. La frase citata su Fabiola è di San Girolamo (Epistola 77).

[5] L. MEZZADRI, L. NUOVO, Storia della carità, Jaca Book, Milano 1999, p. 30.

[6] K. HAEGER, op. cit., p. 70.

[7] G. COSMACINI, op. cit., p. 136.

[8] L. MEZZADRI, L. NUOVO, op. cit., p. 32.

 

da La grande storia della carità, Cantagalli, Siena 2013, pp. 7-14, 22-25