La grande peste del 1347, con la moria, il terrore, la devastazione che portò con sé, contribuì a segnare il superamento dell’ospedale medievale, in cui spesso i confini tra assistenza e cura, povertà e malattia erano sfumati ed incerti; in cui gli “infirmari”, più che infermieri nel senso moderno del termine, erano persone votate interamente alla carità, senza però particolari conoscenze specialistiche; in cui la figura del medico era spesso marginale; in cui non era chiara la distinzione dei malati per sesso e patologia.
Si passò così, a partire dal XV secolo, dall’ospedale della carità all’ospedale della cura: si accentuò l’intervento degli Stati, delle autorità comunali e del laicato, soprattutto nell’amministrazione (fermo restando la presenza negli istituti di religiosi, di confraternite e delle collaborazione ecclesiastica); si profuse maggior attenzione nella cura, nel perseguimento della guarigione, piuttosto che nella generica assistenza; si attuò la separazione tra malati guaribili e inguaribili, tra acuti e cronici (quest’ultimi sistemati in ospedali e ricoveri minori); si attuò una sempre maggior distinzione per sesso e patologia, insieme ad una maggior specializzazione e a una maggior importanza dei medici, molto più presenti in corsia.
Se «il luogo della lebbra, il lebbrosario, era più simile al vecchio ospizio», al contrario «il luogo della peste, il lazzaretto, era più simile all’ospedale moderno, che di fatto, in certo qual senso, anticipava». La peste fu dunque «un agente non solo destrutturante a più livelli, ma anche mutante in positivo. Era una spada di Damocle incombente che induceva gli Stati, quelli italiani prima degli altri in Europa, a darsi uomini e strutture capaci di farvi fronte». In questo modo «in anticipo sul resto d’Europa nasceva in Italia un’organizzazione sanitaria d’avanguardia, esemplare per gli altri paesi europei» [1].
Tutto questo avanzamento, non avvenne senza una qualche controindicazione: «Le cure, non più generiche, rischiavano di diventare non più generose; non più in differenziate, rischiavano di diventare via via indifferenti. Rischiavano, in altri termini, di perdere qualcosa o gran parte dei loro contenuti umani. La tecnologia della cura rischiava di sbilanciarsi rispetto all’antropologia curativa, basata sul rapporto interumano» [2].
Così mutò pure lo spirito del personale, che come nota Luca Belli, divenne «sempre più mercenario e pertanto poco interessato alla cura e all’assistenza del malato».
L’Italia, si è detto, si mostrò all’avanguardia: come era sempre stato, essendo il paese di Cassiodoro, dei benedettini, della schola medica di Salerno, dell’Ospedale del Santo Spirito, delle prime università, e poi della chirurgia nel XIII secolo, dell’anatomia, della fisiologia... Bologna, Padova, Roma, furono per secoli, nel campo della medicina, punti di riferimento per l’Europa intera. Un dato, questo, che andrebbe valutato, prima di proporre strane considerazioni su una presunta e congenita “arretratezza del Bel Paese”, dovuta alla presenza della Chiesa cattolica, tanto declamata da Machiavelli e dai suoi seguaci odierni.
Come prototipo del nuovo tipo di complesso ospedaliero che si diffonderà d’ora in poi può valere l’Ospedale Maggiore di Milano, riservato ai malati con possibilità di guarigione, a cui ne seguirono, in Italia, molti altri, e alla cui realizzazione contribuirono l’azione dello Stato e della Chiesa.
L’Ospedale Maggiore di Milano, noto anche come Ospedale dell’Annunziata o come Ca’ Granda, fu fondato ufficialmente nel 1456 da Francesco Sforza, che volle così adempiere ad un voto alla Madonna Annunziata e nel contempo portare a compimento l’opera di aggregazione di tutti gli ospedali esistenti nel territorio milanese, iniziata già nel 1447 dall’arcivescovo della città, Enrico Rampini, allora noto come il “Padre dei poveri”, col beneplacito del Papa. Il nuovo ospedale, quindi, assorbì compiti e patrimoni delle numerose istituzioni che, annesse a monasteri o gestite da ordini religiosi e confraternite, esistevano a Milano e nel suo territorio almeno dal IX secolo.
La realizzazione del progetto architettonico, preceduta da uno studio attento del Santa Maria della Scala di Siena e del Santa Maria Nuova di Firenze, fu invece di Antonio Averlino, detto il Filerete, il quale nella dedica del suo Trattato di architettura allo Sforza, esordiva così: «Nella tua gloriosa città di Milano io costruii il celebre albergo dei poveri di Cristo di cui tu stesso posasti la prima pietra» [3].
Nel passaggio dall’ospedale medievale a quello rinascimentale, non ci fu dunque rottura, ma sviluppo nella continuità.
Naphy e Spicer notano che «nell’anno 1500 l’Europa disponeva di una metodologia consolidata per prevenire e controllare le epidemie di peste, affermatasi attraverso i sistemi sviluppati delle città-Stato dell’Italia settentrionale». Così, «alla fine del periodo preso in esame (circa il 1700) si era soliti affermare, in Europa, che l’Italia era il luogo più rigoroso del mondo, in quanto a salute pubblica, mentre l’Inghilterra era considerato uno degli Stati più arretrati in materia» [4].
Del resto persino Martin Lutero, mai molto tenero con l’Italia cattolica e papalina, dopo il suo viaggio a Roma e a Firenze nel 1511 aveva affermato nei suoi Discorsi conviviali, riguardo agli ospedali in Italia: «Sono costruiti con edifici regali, ottimi cibi c bevande sono alla portata di tutti, i servitori sono diligentissimi, i medici dottissimi, i letti e i vestiti sono pulitissimi, e i letti dipinti. Appena viene portato un malato lo si spoglia di tutte le vesti [...] gli si mette un camiciotto bianco, lo si mette in un bel letto dipinto, lenzuola di seta pura. Subito dopo vengono condotti due medici [...]. Accorrono qui delle spose onestissime, tutte velate; servono i poveri e poi tornano a casa [...]. L'ho visto a Firenze con quanta cura sono tenuti gli ospedali. Così anche le case dei fanciulli esposti, dove i fanciulli sono alloggiati, nutriti ed istruiti in modo eccellente; li abbigliano tutti con un medesimo vestito dello stesso colore e sono curati molto paternamente» [5].
Aggiunge Maria Conforti: «Gli ospedali italiani, sull’onda della carità controriformata ma in realtà molto prima, si specializzarono, anche dal punto di vista architettonico, offrendo una pluralità di servizi a una pluralità di pazienti: si veda ad esempio lo sviluppo, tipicamente cinquecentesco ed italiano, delle istituzioni ospedaliere “degli incurabili” [vedi più avanti, N.d.R.], dove si trattavano i malati di sifilide [...] gli ospedali costituivano una delle caratteristiche notevoli delle città italiane del Rinascimento, tra le più ammirate dai viaggiatori stranieri. Il modello architettonico dell’ospedale fu all’inizio quello del monastero, con i suoi chiostri e gli spazi comuni [...] luoghi di cura dell’anima e del corpo, gli ospedali avevano di solito una chiesa rivolta all’esterno e una serie di cappelle, spesso situate nelle corsie e dove l’edificazione del paziente veniva perseguita almeno quanto il tentativo di guarirlo. A questa doppia funzione rispondeva il carattere cerimoniale e fastoso di molti momenti della vita ospedaliera: se a Napoli la festa annuale degli Incurabili prevedeva la presenza del Viceré, a Roma l’Ospedale del Santo Spirito, direttamente legato alla corte papale, fu uno dei principali committenti musicali del tardo Rinascimento, e la musica era anche eseguita a benefìcio dei pazienti, in corsia. L’ospedale rinascimentale in Italia presentava dunque una certa continuità con l’istituzione tardo-medievale, ma tendeva a differenziarsene per il maggior spazio riservato alla cura e alle attività mediche propriamente dette. Il sistema di assistenza ai poveri aveva negli ospedali e nelle confraternite che spesso li gestivano, uno dei suoi fulcri», mentre, come nel Medioevo, rimaneva negli ospedali una grande attenzione ai bambini abbandonati (brefotrofi).
Quanto all’Europa del nord, e all’Inghilterra in particolare, uno dei motivi della sua arretratezza rispetto all’Italia, può essere rintracciato in un certo fatalismo calvinista di cui si è già detto (che potrebbe essere una delle cause remote della situazione sanitaria che troviamo anche oggi negli Usa); ma forse occorre soprattutto riferirsi ad un fatto storico ben preciso: la lotta dei sovrani inglesi, anglicani e scismatici, contro la Chiesa cattolica e di conseguenza contro le sue opere di misericordia.
Infatti, mentre alla fine del Trecento nell’Inghilterra ancora cattolica «si contavano quasi 500 ospedali», «la soppressione di monasteri e possedimenti ecclesiastici durante il periodo riformistico di Enrico e di Edoardo (1536-53) portò praticamente alla scomparsa di tutte queste istituzioni via via che la corona si impadroniva delle loro tenute e dei loro beni».
Così, ad eccezione di Londra, fino al 1700 non vi furono quasi ospedali per i malati.
Invece «nei paesi cattolici e nella Germania protestante non si assistette all’esproprio di beni del periodo enriciano, e nella Spagna, Francia e Italia del Rinascimento gli ospedali continuarono a crescere per numero, dimensione, ricchezza e potere. A Parigi l’Hotel-Dieu era una vasta istituzione sanitaria gestita, sino alla rivoluzione francese, da ordini religiosi».
Quanto all’Inghilterra, nel Settecento, per colmare un “vuoto enorme”, «vennero fondati nuovi ospedali per i poveri bisognosi e meritevoli. Corona e Parlamento non rivestirono alcun molo: la spinta organizzativa e i fondi provenivano in genere da iniziative caritatevoli di persone benestanti» [6].
Inutile dire che se l’Italia era all’avanguardia in Europa, quest’ultima lo era rispetto al resto del mondo, dal momento che proprio l’istituzione ospedaliera fu il principale motore della crescita della medicina: «In Asia, all’opposto, gli esperti di medicina, che non svolgevano la propria attività nell’ambito degli ospedali, affrontarono l’esperienza delle nuove malattie sviluppatesi in quegli stessi secoli richiamandosi rigorosamente alle antiche autorità» [7].
[1] G. COSMACINI, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza, Bari 2009, pp. 217-222.
[2] Idem, p. 261.
[3] H. SCHIPPERGES, Il giardino della salute, Garzanti, Milano 1988, p. 214.
[4] W. NAPHY, A. SPICER, La peste in Europa, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 67-69.
[5] M. LUTERO, Discorsi a tavola, Einaudi, Torino 1983, p. 272.
[6] R. PORTER, Breve ma veridica storia della medicina occidentale, Carocci, Roma 2004, pp. 169-170.
[7] W. MCNEIL, La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall’antichità all’età contemporanea, Einaudi, Torino 1982, p. 221.
da La grande storia della carità, Cantagalli, Siena 2013, pp. 90-97.