La “grande domanda” e le “non ragioni” degli atei

Dario Antiseri
2018

«La scelta fra l'esistenza e l'inesistenza di Dio» – ha scritto Luigi Pareyson – «è un atto esistenziale di accettazione o ripudio, in cui il singolo uomo decide a suo rischio se per lui la vita ha un senso oppure è assurda, giacché a questa opzione si riduce in fondo e senza residuo quel dilemma. Tale opzione è eminentemente religiosa, anche quando si risolva in senso negativo, perché il ripudio di Dio è così strettamente legato all'accoglimento che in alternativa si può farne, che ne conserva sempre un'inconsapevole nostalgia. La filosofia, poi, in quanto sopravviene a scelta già fatta, non ha più voce in capitolo, non certo per affermare l'esistenza di Dio, ma nemmeno per negarla, perché anche il ripudio di Dio non è frutto d'un ragionamento, ma atto profondo e originario della persona. D'altra parte la filosofia non ha il compito di dimostrare l'esistenza di Dio, perché essa non estende la conoscenza a nuovi ambiti di realtà, ma riflette su esperienze esistenziali: il suo compito non è dimostrativo, ma ermeneutico».
E va da sé che il credente che non ha dubbi non ha fede. Hanno dubitato gli Apostoli. La "notte dell'anima" è esperienza di grandi anime mistiche.
«L'uomo religioso» – è ancora Pareyson a parlare – «può capire il dubbio, che non è se non il risvolto della sua fede, un aspetto essenziale di essa o un suo momento interno, giacché la fede è ben lungi dall'essere un possesso tranquillo, sicuro e incontrastato, favorito dalla tradizione e ribadito dall'abitudine, ché anzi spesso è lotta durissima e tensione lancinante, appena lenita dalla consapevolezza ch'essa è cosa vivente e vivificatrice, bastevole a ispirare e riempire una vita intera».


Dario Antiseri (Foligno, 9 gennaio 1940)

Dunque, se non hai dubbi non hai fede. Ma l'ateo troppo sicuro di sé usa o abusa della ragione? Quale prova è disponibile per poter sostenere che il tutto-della-realtà è rigorosamente e convincentemente riducibile a quella realtà di cui parla e può parlare la scienza? L'ateismo non è una teoria scientifica. E non è certamente la scienza, finché la ricerca rimane nel suo legittimo ambito di azione, a negare la possibilità di una realtà trascendente.
E c'è di più. Difatti, se la fede conduce al mistero di un Dio creatore, l'ateo non si trova pure lui di fronte al fatto misterioso di un grumo di materia originario da cui si è sviluppata e si sviluppa la storia dell'universo? Questo grumo di materia si è autocreato?
Come sostiene Wittgenstein nel suo Tractatus Logico-philosophicus, l'esistenza dell'universo è un fatto misterioso, suscita uno stupore abissale. La fisica sposta la "grande domanda" – la domanda metafisica –, non la elimina. Così come non la elimina, anzi la genera, la teoria dell'evoluzione della vita. Nessuno può negare che la scienza – con le sue domande e le sue risposte e la sua storia – non abbia alcun valore perché costruita da un essere che avrebbe per antenato una "scimmia". Ma questa "scimmia" rimessa a nuovo, oltre che porsi problemi scientifici, si è posta e seguita a porsi il problema del "senso", del "senso del tutto", un problema eminentemente religioso. E, allora, con quali argomenti lo scientista evoluzionista potrà affermare insensatezza, illusorietà della "richiesta di senso", cioè della domanda religiosa?
La realtà è che la teoria evolutiva della vita non solo non cancella il problema religioso, ma lo fa emergere. Scrive Darwin: «Il sentimento di devozione religiosa è sommamente complesso perché consta di amore, di compiuta sommissione a un essere superiore elevato e misterioso, di un forte sentimento di dipendenza, di timore, di riverenza, di gratitudine, di speranza nell'avvenire, e forse di altri elementi. Nessuna creatura potrebbe provare un'emozione tanto complessa, senza che le sue facoltà morali e intellettuali abbiano raggiunto un certo grado di elevatezza».

Max Weber, al contrario, pone un aut-aut tra la sfera dei valori della scienza e quella dei valori religiosi.
Ma la situazione è proprio questa? Un mondo disincantato dalla scienza, letto cioè dalle teorie scientifiche, è un mondo che implica di necessità la negazione di un Creatore ovvero è un mondo in cui dalla fede del credente vengono strappate via le croste di ataviche superstizioni? Un mondo senza ninfe dietro a una sorgente o senza un irritato Giove che lancia fulmini sugli uomini è davvero un universo in grado di proibire senza appello ogni traccia di Trascendenza? E poi – questione di maggior rilievo – è la scienza che desacralizza il mondo ovvero il mondo, per essere investigato scientificamente, dev'essere un mondo già desacralizzato, disincantato?
Ecco, a tal riguardo, la fondamentale proposta di Max Scheler: «Bisogna, innanzi tutto, farla finita con l'errore molto condiviso che la scienza positiva (e il suo movimento progressivo) abbia mai potuto e mai possa, fintanto che essa rimane nei suoi limiti essenziali, torcere un sol capello alla religione. Questa tesi, sia essa sostenuta da credenti o da increduli, è sempre ugualmente falsa».

La scienza, fintanto che rimane nei suoi limiti essenziali, non ha mai potuto e mai potrà torcere un solo capello alla religione.
La situazione, però, appare ben diversa se ci spostiamo nel campo della filosofia. Senza spingersi troppo lontano nel tempo, vediamo, per esempio, che negli ultimi due secoli movimenti filosofici influenti e ampiamente diffusi hanno costituito vere truppe d'assalto contro la religione, con la pretesa di poter cancellare qualsiasi spazio della fede nella Trascendenza.
Fu Bruno Bauer a dire che con Hegel «l'Anticristo è venuto e si è rivelato». D'altro canto, se per le varie forme di materialismo (di ieri e di oggi) la Trascendenza è illusione, per i positivisti Dio è un'ipotesi inutile.
Non illusione o inutile, ma dannosa per l'uomo è, ad avviso di Marx, la fede in Dio: «La religione è il sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo spietato [...]. Essa è l'oppio del popolo». E «una nevrosi ossessiva universale» vede Freud nella religione.
Dato che Dio non esiste – scrive Sartre ne L’esistenzialismo è un umanismo – «noi non troviamo innanzi a noi dei valori e degli ordini in grado di legittimare la nostra con­dotta. Così non abbiamo né dietro a noi, né dinanzi a noi, in un dominio luminoso di valori, delle giustificazioni o delle scuse. È ciò che esprimerò con le parole che l'uomo è condannato ad essere libero». L'uomo è una passione, ma «una passione inutile». E dopo l'esistenzialismo ateo, la posizione contraria, quella strutturalista, per la quale non solo "Dio è morto", ma morto è anche l'uomo.
Michel Foucault: «L'uomo è un'invenzione che l'archeologia del nostro pensiero non ha difficoltà ad assegnare ad un'epoca recente. E forse neanche a dichiararne prossima la fine. Ai nostri giorni, piuttosto che l'assenza o la morte di Dio, viene proclamata la fine dell'uomo. L'uomo sta per scomparire».
E semplicemente insensate, prive di qualsiasi senso letterale, sarebbero, per i neopositivisti del Circolo di Vienna, le proposizioni che parlano di "Dio", dell'"anima immortale" o di "Provvidenza". Questi concetti e gli asserti che li inglobano sarebbero puri "non-sensi", in quanto concetti e asserzioni non verificabili empiricamente, vale a dire non traducibili o riducibili al linguaggio "cosale" della fisica. «Né Iddio né alcun diavolo» – dirà Carnap – «potranno mai darci una metafisica». E per Ayer gli asserti di fede, insieme alle teorie metafisiche, «sono soltanto materiale per lo psicoanalista». Ma se «la grande filosofia è scomparsa», irreprimibile resta la "grande domanda", la richiesta di senso, come scriveva Norberto Bobbio: «Richiesta di senso che significa bisogno di dare un senso alla propria vita, alle nostre azioni e a quelle di coloro verso i quali dirigiamo le nostre azioni, alla società in cui viviamo, al passato, alla storia, all'universo intero».

Non va cercata nella scienza la risposta alla "grande domanda" e la filosofia pone la "grande domanda" senza poter dare la risposta. La "domanda ultima" per Bobbio «rimane senza risposta, o meglio rinvia a una risposta che mi par difficile chiamare ancora filosofica». E, in direzione analoga, Armando Rigobello: «Fallita la via della razionalità piena e totale propria delle metafisiche moderne, insoddisfatti per la risposta vera ma parziale ed astratta della metafisica classica greca (i problemi dell'esistenza, del dolore, della morte, della salvezza personale non possono trovare soluzioni in forme astratte di pensiero), ci rimane la possibilità di pervenire ad una risposta situata su di un piano diverso da quello in cui è stata formulata la domanda. Si tratta della risposta non omogenea alla domanda».

La domanda filosofica è una domanda che attende una risposta non omogenea a se stessa. A un problema di fisiologia non risponde uno studioso di epigrafia, né per risolvere problemi di filologia – per esempio: l'autenticità o meno di un testo di Boccaccio – ci rivolgeremo a un chirurgo plastico. Eppure, la domanda filosofica esige una risposta «che par difficile chiamare ancora filosofica», una risposta «non omogenea a se stessa», vale a dire una risposta «non filosofica, ma di altra natura».
E di fronte a queste considerazioni sorge il fondato sospetto che la domanda filosofica non sia propriamente un "problema" da soddisfare con una "spiegazione". Come posto in evidenza da Gabriel Marcel e da Martin Heidegger, e ancora prima da Agostino, la domanda metafisica è una domanda in cui tutti i dati (a cominciare da colui che se la pone) diventano incognite. E una domanda con tutte incognite non è un problema, non è interrogatio, è piuttosto rogatio: una invocazione di senso ultimo non costruibile da mani umane.

Per Wittgenstein «noi sentiamo che persino nell'ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto una risposta, i nostri problemi vitali non sarebbero nemmeno sfiorati». L'intento di fondo del "primo" Wittgenstein fu quello di delineare il dicibile – il dicibile dalla scienza – per proteggere l'ineffabile, quello che la scienza non può dire: l'etico e il religioso.
Commenta Paul Engelmann: «Tutta una generazione di allievi poté considerare Wittgenstein un positivista, poiché egli aveva qualcosa di enorme importanza in comune con i positivisti: aveva tracciato la linea di separazione fra ciò di cui si può parlare e ciò di cui si deve tacere , cosa che anch'essi avevano fatto. La differenza è soltanto che essi non avevano niente di cui tacere. Il positivismo sostiene – e questa è la sua essenza – che ciò di cui possiamo parlare è tutto ciò che conta nella vita. Invece Wittgenstein crede appassionatamente che tutto ciò che conta nella vita umana è proprio ciò di cui, secondo il suo modo di vedere, dobbiamo tacere. Quando ciononostante egli si prende immensa cura di delimitare ciò che non è importante, non è la costa di quell'isola che egli vuole esaminare con tanta meticolosa accuratezza, bensì i limiti dell'Oceano».

Una sintesi delle precedenti considerazioni sulla natura della "grande domanda", vista quale rogatio e non come interrogatio e sulle vie di Pascal, Kierkegaard e Wittgenstein, è come se si trovasse rinvenibile in una pagina de I racconti dei Chassidim in cui Martin Buber narra del Rabbi Mendel di Kozk. Costui «stupì alcuni uomini dotti che erano suoi ospiti con questa domanda: "Dove abita Dio?". Quelli risero di lui: "Che dite? Se tutto il mondo è pieno della sua gloria?". Ma egli rispose da sé alla propria domanda: "Dio abita dove lo si fa entrare"».

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Pavel Aleksandrovič Florenskij (9 gennaio 1882 – 8 dicembre 1937)

Ed è Pavel Aleksandrovic Florenskij il pensatore che incarna, interpreta ed esprime come nessun altro sia la complessità e la varietà dellacultura del XX secolo, sia l'anima del popolo russo nei suoi aspetti più profondi e specifici. Filosofo della scienza, matematico, fisico, ingegnere elettronico, teorico dell'arte e di filosofia del linguaggio, studioso di estetica, di simbologia e semiotica, filosofo della religione e teologo, «è veramente una figura la cui esistenza può essere legittimamente considerata emblema degli splendori e delle miserie del Novecento», come scrive Silvano Tagliagambe.
Condannato alla pena di morte dalla trojka speciale di Leningrado, venne fucilato nella notte dell'8 dicembre 1937 in un bosco non lontano dalla città. Ed ecco il commento di Sergej Bulgakov allorché venne a sapere della morte di Pavel Florenskij: «Di tutti i contemporanei che ho avuto la ventura di conoscere nel corso della mia lunga vita, egli è il più grande. E tanto più grande è il delitto di chi ha levato la mano su di lui, di chi lo ha condannato a una pena maggiore della morte, a un lungo e tormentoso esilio, a una lenta agonia [...]. Padre Pavel per me non era solo un fenomeno di genialità, ma anche un'opera d'arte[...]. L'attuale opera di padre Pavel non sono più i libri da lui scritti, le sue idee e parole, ma egli stesso, la sua vita».
Scienziato di prim'ordine, Florenskij, sviluppando una originale teoria del simbolo, ha sin dagli inizi preso le distanze dalla pretesa di rinserrare l'esistenza nell'ergastolo dello scientismo. Quello di Florenskij – ha scritto Natalino Valentini – è esattamente «un ardito tentativo di epistemologia del simbolo». È attraverso il simbolo che Florenskij trova la via per superare la scissione tra mondo visibile e mondo invisibile, tra realtà empirica e realtà ulteriore, tra il mondo e Dio. Egli scrive nella prima delle dodici lettere che compongono La colonna e il fondamento della verità: «Questo nostro mondo si cruccia nelle contraddizioni se non vive delle energie dell'altro mondo. Negli umori, tendenze contrastanti; nella volontà, desideri contrari; nei pensieri, idee contraddittorie. Le antinomie frazionano tutto il nostro essere, tutta la vita creata. Dappertutto e sempre contraddizioni! Viceversa la fede che vince le antinomie della coscienza e tra esse riesce a respirare, ci offre il fondamento di pietra sulla quale possiamo lavorare per superare le antinomie della realtà. Ma come accedere a questa pietra della Fede?».

È nella fede, dunque, che si trova il fondamento per superare tutte le nostre lacerazioni e la scissione tra mondo visibile e realtà ulteriore. Da qui ben si comprende come l'esplorazione di tutte le possibili vie di interazione e rapporto dialogico tra realtà terrena e realtà trascendente costituisca il nucleo teorico della prospettiva filosofico­teologica di Florenskij. È nel culto, nella preghiera, nell'esperienza mistica (sia artistica sia onirica) – vale a dire nelle varie manifestazioni del simbolo – che Florenskij trova «una finestra nella nostra realtà, una breccia nell'esistenza terrena dalla quale irrompono le correnti dell'altro mondo nutrendola e rinvigorendola. [Così], pur essendo, da un punto di vista materiale, essenzialmente terreno nella sua caratterizzazione particolare , all'interno della visione propria del culto, nell'aura di mistero che lo circonda , avviene e prende forma qualcosa d'altro, di santo, di consacrato, di trasformato, di transustanziato; è il mistero stesso».

Così, per esemplificare, è certo che un quadro, come realtà fisica, consiste nella cornice, nei colori, nella tela, ma esso è anche qualcosa di più: è una finestra su di un significato. E sta qui la ragione per cui a proposito delle icone si può parlare di una «teologia in immagine».
Il simbolo rinvia sempre ad altro, a un "altro superiore". Scrive Florenskij ne La venerazione del nome come presupposto filosofico: «Il simbolo è un'entità che manifesta qualcosa che esso stesso non è, che è più grande e che perciò si rivela attraverso questo simbolo nella sua essenza. Il simbolo è una realtà la cui energia cresciuta insieme o, meglio, confluita insieme con un altro essere più prezioso rispetto a lui, contiene in sé quest'ultimo» .

In Italia è stato Luigi Pareyson a sottolineare, più che altri, che il linguaggio concettuale è una violazione della trascendenza. «Il problema dell'esperienza religiosa» – scrive Pareyson – «non è il problema metafisico di Dio, come invece suppone chi ancora si chiede se Dio debba o non debba concepirsi come sostanza o causa o come altro che sia. Questo è, se mai, il "Dio dei filosofi", al quale potrà essere – o, meglio, essere stata – interessata la filosofia, ma che non riguarda certo la religione.
Il Dio della religione è altra cosa: è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio vivente e vivificante, è un Dio a cui si dà del tu e che si prega, un Dio a cui si dice con trepidazione miserere mei e con disperazione ne sileas, a cui ci si rivolge domandando angosciati quare me repulisti, e supplicando con timore e tremore ne avertas faciem tuam a me, a cui nell'ora suprema ci si affida esclamando in manus tuas commendo spiritum meum ed implorando in te, Domine, speravi; non confundar in aeternum».
Per Pareyson «il Dio autentico dell'esperienza religiosa non è raggiunto dai concetti strettamente filosofici di Dio». È ben vero che tra i vanti maggiori e più frequenti della tradizione metafisica viene addotta la rappresentazione concettuale della divinità come superamento dell' antropomorfismo, vale a dire come purificazione dell'idea di Dio dai residui antropomorfici. Ma ecco che, di fronte a simile vanto, dinanzi alla pretesa metafisica di aver superato l'antropomorfismo, Pareyson annota che «non si può non restar colpiti dalla scarsa riuscita dell'impresa, giacché l'esito è per lo più il risultato in contrasto con le primitive intenzioni». Difatti: «Concepire Dio in termini concettuali significa definirlo in base a categorie elaborate dalla mente umana e attribuirgli proprietà che direttamente o indirettamente inseriscono all'uomo, sia pure estremamente affinate e astratte, e sia pure pensa­te in senso eminente ed elevate al vertice. In tal senso concepire Dio come Essere, Principio, Causa, Pensiero, Ragione, Valore, Persona, Bontà, Provvidenza, e così via, è pur sempre un kat'anthropon legein che conferisce a tali concezioni della divinità un carattere sostanzialmente, anche se larvatamente, antropomorfico».

Due sono i tipi di antropomorfismo che Pareyson distingue: «Quello concettuale, nascosto e taciuto, governato dal principio di esplicitazione oggettivante, e quello simbolico, consapevole e dichiarato, dominato dalla sollecitudine dell'inesauribilità». L'antropomorfismo genuino e rivelativo, aperto a una verità trascendente che esso sa di non poter mai oggettivare è l'antropomorfismo «schietto e genuino, aperto e riconosciuto del simbolo e del mito». Talché se il Dio dell'esperienza religiosa non è raggiunto dai concetti strettamente filosofici, «può nascere il progetto di cercarlo e la prospettiva di trovarlo in una zona più profonda e originaria del pensiero; là dove nessuna perplessità o esitazione può nascere all'idea che per il Dio dell'esperienza religiosa assai più che i concetti specificamente filosofici appaiono adeguati e significativi i simboli della poesia e le figure antropomorfiche del mito, quali si trovano, ad esempio, nelle teofanie sensibili dell'Esodo e dei Salmi, nei racconti della Genesi e dei libri apocalittici, nelle grandiose e fiammeggianti visioni dei profeti».
Ed ecco il corollario – di enorme rilevanza – che segue da quanto detto: «L'importante è non demitizzare l'antropomorfismo dichiarato e genuino, ma demistificare l'antropomorfismo occulto e deteriore».

Per concludere, non ci sono forse buone ragioni per sostenere che tra la teoria del simbolo di Florenskij e quella di Pareyson è presente una più che consistente «aria di famiglia»?

D. Antiseri, La “grande domanda” e le “non ragioni” degli atei, «Vita e Pensiero», 101 (2018), n. 4, pp. 88-96. Si ringrazia Vita e Pensiero per il permesso di riproduzione del testo nel progetto DISF-Educational.

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