Quale posto si debba riconoscere all’uomo nella natura non è una questione teorica. Essa investe la concezione dell’uomo e il suo posto nella società, oltre che nel sistema della natura di cui fa parte. È un problema fondamentale che dipende dal significato e dal ruolo che si riconosce alla cultura, la quale rappresenta come la cerniera o la mediazione tra l’uomo e la natura. È questo lo specifico dell’uomo nel mondo dei viventi, ciò che fa la differenza rispetto ad altre specie nel rapporto tra la specie umana e la natura. Pierre Teilhard de Chardin, Teodosij Dobzanskij e altri scienziati vedono nella comparsa dell'uomo un trascendimento evolutivo nella storia della vita, perché si instaura un rapporto nuovo con la natura. Esso investe anche la sfera spirituale specifica dell'uomo e si esprime mediante la cultura, la grande mediazione dell'uomo con l'ambiente, intesa come capacità di comportamenti progettuali e simbolici, oltre che come sfera di interessi spirituali.
La stoffa comune della natura
Nel secolo scorso abbiamo visto l'esaltazione della natura nella linea di un naturalismo ispirato alla visione evoluzionistica darwiniana. In essa si vede l'uomo come una delle tante specie viventi con proprietà psichiche e comportamenti comuni alle altre specie animali, così da potere essere interpretati come variazioni quantitative o di grado. Si pensi all'opera di Darwin L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872), che ha largamente ispirato il pensiero scientifico del Novecento. Molti biologi e antropologi hanno seguito questa impostazione. Fra i tanti basti ricordare Julian Huxley, Jacques Monod, François Jacob, Richard Dawkins.
Luigi Luca Cavalli Sforza e Marcus W. Feldman estendono il concetto di cultura «ai comportamenti appresi attraverso tutto ciò che non è trasmissione genetica , sia che si tratti di imprinting, sia di condizionamenti, osservazioni, imitazioni o risultato di un insegnamento diretto»; di conseguenza andrebbe riconosciuta la cultura anche al mondo animale (cfr. Cultural Transmission in Evolution, Princeton [NJ], Princeton University Press, 1961). C'è chi parla della cultura della cavia, del cane, della scimmia ... Molti filosofi evoluzionisti, tra cui Orlando Franceschelli e Telmo Pievani, si ispirano alle vedute del naturalismo e di un livellamento dell'uomo all'animale.
L'estensione delle emozioni e dei sentimenti umani al mondo animale impoverisce e svuota il concetto di cultura con un appiattimento della cultura sulla natura, uno svuotamento di ciò che è specifico dell'uomo ed è costituito dalla capacità di progetto e di simbolo. Queste attitudini, che non si ritrovano nel mondo animale, rappresentano il grande divario che, anche sul piano fenomenologico, esiste tra l'animale e l'uomo e spiegano il successo della specie umana nella storia della vita . Le analogie di comportamenti tra il mondo animale e quello umano possono evocare qualche somiglianza più che identità di natura.
La natura come processo e il suo superamento
Nel quadro culturale del naturalismo la natura appare però sempre come qualcosa di oggettivamente strutturato e ordinato, sia pure caratterizzato dalla dimensione del cambiamento. Per contro, nella seconda metà del secolo scorso, si è vista affermarsi, specialmente nell'antropologia culturale, una concezione della natura più fluida, più dinamica, la natura come un processo (bioculturale) attraverso il quale l'umanità si fa e costruisce la propria storia (Francesco Remotti).
In questo modo di vedere, ha osservato Francesco Botturi, la natura umana non sarebbe una struttura stabile e autonoma, un prodotto finito, ma qualcosa di variabile, principio produttivo di molte forme culturali. Questo modo di vedere corrisponde a una risoluzione della natura nella cultura, a un suo assorbimento nella cultura. Questo aspetto della realtà si accentua se pensiamo alle possibilità di modificazioni della natura realizzate dalle biotecnologie, in cui si giunge alla sostituzione di organi o parti degli organismi. Si tende non solo a supplire eventuali parti mancanti, ma a sostituirle. Si cerca di modificare le specie con la creazione di organismi transgenici. Le nuove tecniche riproduttive (Fivet, maternità surrogata) svincolano la trasmissione della vita dall'unione uomo-donna. Le tecnologie applicate alla medicina tendono a sostituire non solo organi, ma funzioni con gli sviluppi della bioinformatica, con l'intelligenza artificiale e la robotica. L'obiettivo di alcuni è quello di realizzare una umanità superiore nella prospettiva del post-umano.
Anche nel campo delle comunicazioni sociali la tecnica consente rapporti immediati in cui si riduce la parte dell'uomo, e tende a sostituire il rapporto umano o a ridurlo con l'effetto di diminuire o eli minare le relazioni interpersonali. Il tecnicismo diventa dominante. Si parla oggi dell'uomo digitale. Con queste realizzazioni si ha un appiattimento della natura sulla cultura con evidente impoverimento delle relazioni umane interpersonali e quindi dell'umanità dell'uomo che le produce. La tecnica diventa la vera natura dell'uomo, lo sviluppo tecnologico la sua espressione, per cui la natura non è più qualcosa di fisso o di immutabile.
Il ruolo nefasto delle ideologie
Entrambi i quadri prospettati hanno qualcosa in comune, una ideologia di fondo che li ispira. Nel primo caso c'è una visione della realtà di tipo totalizzante, tendente a spiegare tutto nella natura e con la natura, una visione di tipo immanentistico, in cui l'uomo non viene riconosciuto nella sua identità spirituale; nel secondo caso si tende al superamento del dato della natura, non soltanto a padroneggiarla, ma a sostituirla in qualche modo con le invenzioni della tecnica. L'uomo non si limita a governarla o supplirla, ma vuole sostituirsi alla natura. Espressione di un dominio che può arrivare a stravolgere l'ordine della natura, di un'autonomia che tende a trasformarsi in sovranità. Non soltanto realizzando processi sostitutivi della natura (e questo potrebbe anche rappresentare in alcuni casi una utilità sul piano individuale e sociale), ma anche nello stabilire l'identità della persona, nel decidere ciò che si vuole essere quanto alla sessualità e al genere (si pensi all'ideologia del gender), quale debba essere la durata e la qualità della vita (si pensi alla eutanasia).
Tutto ciò nella linea di una sovranità assoluta e di una volontà che vuole superare i limiti della natura. C'è chi vagheggia ibridi uomomacchina nella linea di un trans-umanesimo. Si è di fronte a una concezione della vita, dell'uomo, della società che, oltre a essere governata da un individualismo assoluto, tende a superare i limiti della corporeità, finendo però per essere autodistruttiva, proprio perché svincolata dalla natura che, si voglia o no, rappresenta la base della costruzione di ogni essere umano e della società.
L'uomo deve rimanere il soggetto, non può diventare un oggetto manipolabile con qualunque tecnica da lui stesso realizzata. Sono utopie che alimentano idee, progetti, sogni, speranze facendo dimenticare la realtà presente e concentrando su un futuro ipotetico energie e progetti che potrebbero essere utilizzati in altra direzione più vantaggiosa per l'uomo di oggi. L'uomo viene visto come arbitro assoluto della propria esistenza e del proprio futuro su cui nessuno, neppure il bene comune, possono interferire. Ma con il prevalere del tecnicismo si ha un impoverimento del mondo umano.
Alla fine è una visione riduzionista, negatrice dell'umano inteso come pensiero, coscienza, libertà, amore; una concezione che allontana dalla natura, quasi un suo tradimento, con effetti nefasti, come l'annientamento dell'umanità dell'uomo. Si direbbe una forma di suicidio, una pazzia. Come ha osservato Edgard Morin: l'uomo troppo sapiens diventa ipso facto demens.
F. Facchini, Liberarsi dalle ideologie ed essere fedeli alla natura, «Vita e Pensiero», 102 (2019), n. 1, pp. 106-109. Si ringrazia Vita e Pensiero per il permesso di riproduzione del testo nel progetto DISF-Educational.