La biodiversità nelle città, una risorsa per il mondo

Elena Granata
2020

È la prima volta nella storia di questo pianeta che il suolo, il sottosuolo e la cappa atmosferica sono modificati da inedite composizioni chimiche, fisiche e biologiche. È una transizione che già negli anni Ottanta un gruppo di studiosi ha definito come Antropocene - termine introdotto dal biologo Eugene Stoermer e poi adottato nel2000 dal premio Nobel Paul Crutzen - l'epoca in cui le principali trasformazioni del mondo sono attribuibili all'essere umano che, con strumenti, modi e intensità non paragonabili alle generazioni precedenti, sta alterando equilibri e destini.
L'esito è una crisi ambientale senza precedenti, che richiede nuove lenti interpretative e la capacità di mettere in discussione alcuni luoghi comuni. E se in un futuro prossimo la battaglia si giocasse tra città sempre più sostenibili ed enormi distese di territori inabitati dove le risorse naturali vengono devastate in modo nascosto? Se prevalesse una geografia dicotomica, che contrappone centri urbani abitabili a province abbandonate e saccheggiate?
Guardiamo alle grandi città del mondo. È qui infatti che ci possiamo misurare con la disfatta, con gli errori del passato, con edifici e comportamenti dissipativi di risorse o possiamo agire una discontinuità profonda con il passato, trasformandole in laboratori di cambiamento effettivo. Le città consumano il 75% delle risorse naturali e sono responsabili di oltre il 70% delle emissioni globali di CO2 che, insieme a quelle di metano e di altri gas serra, determinano il surriscaldamento globale del pianeta , da cui dipendono altre conseguenze planetarie, come lo scioglimento dei ghiacciai, la perdita di biodiversità e l'innalzamento crescente del livello degli oceani.
D'altro canto, è nelle grandi città, per la particolare concentrazione di capitali, capacità, tecnologie e istituzioni, che si possono intercettare le risorse per le soluzioni più innovative in risposta a tali fenomeni.
È proprio questa intrinseca contraddizione che rende le città il luogo più sensato dove oggi andare a capire come gira il mondo, dove le tensioni, i cambiamenti e le trasformazioni sono più evidenti e accelerate. Perché la ricchezza culturale non nasce dalla purezza, dall'omogeneità, dalla somiglianza, ma dalla mescolanza e dalla biodiversità. E il plurale, il molteplice alla base del significato stesso di ecosistema che produce la vita e la sua continua rigenerazione. È l'apertura e il grado di differenziazione di un sistema che lo fa crescere. Così accade in natura, così accade nelle città.
Molte città stanno oggi recuperando il loro legame con la natura, in forme molto diverse dal passato. I progetti urbani più capaci di incarnare lo spirito del nostro tempo intrecciano cura dell'ambiente e attenzione sociale. L'ambiente e la vita degli uomini sono intimamente connessi, non possiamo dedicarci alle questioni ambientali senza considerare contestualmente quelle legate alla povertà, alla giustizia, al lavoro. Quando parliamo di natura, parliamo certamente di ambiente, di terra, di acqua, di biodiversità, ma natura è anche cultura, sedimento delle opere degli uomini.

Creatività come capacità di sovversione

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La High Line di New York

Nelle città sta tornando attenzione alla dimensione ambientale, che va dagli orti urbani a progetti di riforestazione più complessi per la mitigazione delle isole di calore.
Sostenibilità ambientale che si coniuga con capacità di immaginazione, come nel caso dell'High Line di New York, dove il progetto è soprattutto capacità di sovversione, capacità di trasformare quella che per tutti era solo una vecchia ferrovia ingombrante, in una delle più grandi attrazioni paesaggistiche newyorkesi.
La High Line è oggi uno dei posti più belli della città. Un parco sopraelevato costruito su quella che un tempo era la ferrovia. Più di due chilometri, una mezz'ora a piedi da parte a parte, da Manhattan al fiume Hudson. È la storia di un ranocchio diventato principe. Fino a pochi anni fa, era un mostro metallico appoggiato tra le case, inutile e abbandonato. La città lo sentiva avverso, un nemico da eliminare, da rimuovere alla vista per liberare la città dalla sua invadente bruttezza. Nella cronaca locale il mostro era rappresentato come una ferita non rimarginabile, inferta dalla cultura ingegneristica-industriale della fine degli anni Venti; un progetto nato dalla profonda insensibilità - propria di quegli anni -verso i tessuti urbani, la vita dei quartieri sottostanti, le attività commerciali al dettaglio che rendono vivi i quartieri. Puro esercizio funzionale che mirava allo scopo di trasportare le merci da una parte all'altra della città nel minor tempo possibile. Non era nata sotto una buona stella, quella infrastruttura. Forse era inutile già nei primi anni di vita, tanto da venire in parte demolita negli anni Sessanta e poi definitivamente dismessa nel 1980.
Oggi la High Line viene visitata da circa cinque milioni di persone ogni anno, quella che era una rovina industriale è diventata un parco naturale. Il progetto di semina e piantagione della High Line tiene in vita contemporaneamente i tre tipi di pianta, creando nei visitatori un'illusione di biodiversità naturale. Il progetto gioca con la natura e con la sua immagine. Perché anche la natura è artificio, è arte del dare forma. Il progetto creativo è soprattutto capacità di sovversione, l'arte di scorgere in atto quello che gli altri non vedono neppure in potenza. Gli occhi dei progettisti vedono già in una vecchia ferrovia ingombrante una delle più grandi attrazioni newyorkesi. E qui sta il punto. Creatività è riuscire a far convivere in armonia le differenze, valorizzare l'energia di una comunità, trasformando le emozioni in comportamenti, il gioco in progetto, come nelle piazze che si allagano a Rotterdam o nel termovalorizzatore di Copenaghen sul cui tetto si può anche sciare.
Esperimenti simili oggi li troviamo in tutte le grandi città del mondo: un mix di funzioni e di caratteri che ne fa luoghi ibridi e aperti al cambiamento, dalle architetture contemporanee nelle periferie di Bogotà ai progetti di spazio pubblico nel centro di Stoccolma, dagli esperimenti sulla gestione del traffico in Sudafrica alle ricerche sui terremoti lungo le coste del Cile, dalle imprese innovative nel cuore dell'Umbria alle tecnologie a basso impatto sviluppate in India.

Guardare nei luoghi che restano in ombra

D'altro canto, se vogliamo capire davvero la tragedia della crisi ambientale contemporanea, dobbiamo allargare lo sguardo e cominciarea guardare nei territori in ombra, quelli senza nome e senza mappa. La crisi climatica è una crisi planetaria dove tutto è in relazione con tutto, dove le scelte dei Paesi ricchi sono a loro volta condizionate da quelle dei Paesi emergenti, dove possiamo ripensare la relazione tra urbano e territorio, tra Nord e Sud, tra urbanizzato e non urbanizzato.
Basti pensare all'America Latina, la terra del "pensiero di frontiera" che ci mostra, nelle sue tensioni evidenti e senza mediazioni, le zone d'ombra su cui cominciare a posare lo sguardo.
A differenza dell'Europa in cui ogni regione è comunque profondamente intessuta della presenza antropica, dai segni tessuti scolpiti da civiltà millenarie, in America Latina ambiente naturale e urbano sono ancora ben delineati, con ampie regioni ancora vergini: accanto alle più grandi metropoli del pianeta abbiamo sconfinate aree che solo l'immaginazione può aiutare a localizzare.
Le foreste amazzoniche, gli altopiani andini, la Patagonia, le regioni del Venezuela ricche di quel materiale tanto utile per costruire cellulari e robot, la vergine Groenlandia, la sconosciuta Siberia, i laghi dell'Africa; come anche le cave abbandonate della periferia di Caserta, i laghetti artificiali della Brianza, gli sterri dietro le case che improvvisamente diventano discariche, le fabbriche abbandonate. Oggi la grande distruzione comincia dai luoghi dove le persone non vivono, dove sopravvivono in piccole comunità agricole, scambi asimmetrici di energia tossica che sotterra chimiche aliene alla natura, che estirpa minerali e che fagocita materiale biologico in immense distese del nostro pianeta, rigenerando il tutto in nuovi cicli e transazioni finanziarie.
È dei territori senza nome e senza mappe che dovremo tornare a occuparci e preoccuparci. È lì che il capitalismo sta mostrando indisturbato il suo volto più terribile, dove il territorio è piattaforma amorfa da depredare, impoverire, distruggere senza ritegno.
Non è un caso che proprio l'America Latina sia il continente che ha conosciuto il più accelerato processo di urbanizzazione o, se vogliamo leggerlo al contrario, il più accelerato processo di svuotamento dalle campagne e dai territori dove non c'è nulla.
Allora il problema non è solo ecologico, ma investe gli stili di vita, gli aspetti sociali e la stessa proprietà dei beni, delle terre e delle acque, dei minerali: è quindi un problema di giustizia. E non è un caso che papa Bergoglio, di fronte alla domanda se la sua enciclica Laudato si' debba essere intesa come un'enciclica green, ha fermamente risposto: «Non è un'enciclica verde. No, perché è un'enciclica sociale». E all'ulteriore domanda su quale fosse stata la scintilla ispiratrice di tale enciclica ha confidato: «Quando attraversai la terra dei fuochi, nell'Italia meridionale». La spia visibile è ancora una volta una questione ambientale, ma sotto quei fuochi cova ben altro: ingiustizia, corruzione, male sociale.
Proprio per questo ha avuto grande valenza culturale il Sinodo Pan-amazzonico organizzato da papa Francesco (6-27 ottobre 2019) e costituito per la gran parte da rappresentanti di quei territori remoti. Viene dalla periferia depredata, l'Amazzonia, la voce che parla al centro: racconta l'emergenza ambientale ed ecologica dove più è negata e nascosta e dove restano solo piccole comunità indigene, sempre più impoverite e private delle loro risorse naturali, a raccontarne l'esistenza. È qui, come in altri contesti naturali ricchi di risorse, che possiamo comprendere come giustizia sociale ed ecologia siano intimamente connesse.
Quello che accade là ha molto a che fare con la nostra vita qua. Nessun progetto ecologico, pur radicale, che investa le grandi città può trascurare la stretta connessione con quello che accade nei territori senza un nome.

E. Granata, La biodiversità nelle città, una risorsa per il mondo, «Vita e Pensiero», 103 (2020), n. 1, pp. 29-33. Si ringrazia Vita e Pensiero per il permesso di riproduzione del testo nel progetto DISF-Educational.

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