Se la civiltà perde l’uso della parola

Lamberto Maffei
2019

A me come a molti, capita di viaggiare, in treno o in aereo, di passare ore in sale di attesa dal dentista o in un ufficio. Si rimane colpiti dal vedere che la stragrande maggioranza dei compagni di viaggio o di attesa, bambini compresi un tempo irrequieti in queste situazioni, sta silenziosamente seduta con lo sguardo fisso su un piccolo oggetto luminoso che assorbe tutta la loro attenzione, lo smartphone. I cinesi, più avanti di noi nella produzione e nell'uso del digitale, hanno coniato un'espressione che descrive in maniera perfetta e divertente queste persone: dï tóu zú, in italiano "la tribù con la testa china".
La memoria va a quei viaggi di anni lontani, quando negli scompartimenti affollati si intrecciavano vivaci conversazioni, racconti di vita vissuta o questioni attuali, dalla politica al calcio, si stringevano amicizie e perfino relazioni sentimentali. A quel tempo gli scompartimenti con bambini venivano evitati con cura da passeggeri desiderosi di schiacciare un pisolino o di leggere il giornale perché i piccoli terremoti lo avrebbero impedito con i loro tentativi di coinvolgervi in qualche gioco. Come spettatore anziano, poco abile e poco assuefatto all'uso del telefonino e che di mestiere ha fatto il neurofisiologo, non posso esimermi dal cercare una risposta neurologica per questo comportamento che in pochissimi anni si è diffuso coinvolgendo un gran numero di persone, senza distinzione di età, sesso, cultura, nazionalità.
Come è noto, il comportamento è un prodotto del cervello, quindi una funzione biologica, e un suo così repentino cambiamento rappresenta un problema di cui occuparsi e forse preoccuparsi. Esso assume particolare interesse nel caso dei giovani e dei bambini, per i quali è stato inventato l'inquietante termine di nativi digitali: una nuova specie umana?

A testimoniare la drastica diminuzione della comunicazione verbale nei giovani e nei bambini ricordo che, alla fine di una lezione da me tenuta nell'ambito del progetto «I Lincei per la scuola», una maestra mi parlò della drammaticità di questo problema dicendomi che alla base delle sue difficoltà didattiche stava il fatto che i bambini parlavano ben poco e che il suo primo compito era quindi quello di riportarli a parlare, ancor prima di cominciare il programma di insegnamento. La maestra aveva chiare come me le cause del problema e mi spiegava che a casa i genitori stavano al cellulare anche durante i pasti e che nelle famiglie erano ben poche le parole rivolte ai bambini. Altri insegnanti di scuola elementare hanno osservato che i bambini sono assai taciturni e hanno ipotizzato che il prolungato esercizio telefonico del bambino e quello dei genitori, con la conseguente scomparsa della conversazione, siano la causa di questa afasia. Si è presa in considerazione in passato la possibilità di usare lo smartphone a scuola come mezzo didattico, dato che esso, sottobanco o anche apertamente, è comunemente usato dai ragazzi durante le ore di lezione. Io sono contrario, perché ciò farebbe concentrare perennemente la mente del ragazzo sullo schermo, diminuendo la sua attenzione alla lezione.
Risulta dalle statistiche che l'uso della comunicazione digitale, in pratica dello smartphone, può superare le 6-7 ore al giorno e di conseguenza influisce inevitabilmente sullo stile di vita del giovane e perfino sulla pianificazione del suo futuro. Sherry Turkle, psicologa al Mit, nel suo interessante libro Reclaiming Conversation (edizione italiana: La conversazione necessaria) riporta che i giovani, a iniziare dal momento in cui si svegliano, consultano il loro smartphone in media 220 volte al giorno e ogni volta per 4-5 minuti.
Un'indagine dell'Università del Texas su 800 giovani mostra che i giovani iperconnessi crescono meno ribelli, meno felici e completamente impreparati alla vita adulta, con possibile alterazione dello sviluppo delle aree frontali e prefrontali e possibile sintomatologia di depressione, alterate socialità e attività sessuale. Lo smartphone agisce come una droga, interferisce con la produzione di cortisolo e dopamina aumentandola come ricompensa della connessione.

Chi sostiene che le nuove tecnologie fanno aumentare le possibilità di comunicazione, e ciò è certamente vero, trascura il minimalismo di queste nuove forme a fronte della ricchezza del colloquio tradizionale. Le rivoluzioni culturali, comprese ovviamente quelle tecnologiche, hanno bisogno di essere metabolizzate, assorbite e utilizzate nel rapporto sociale e nel proprio lavoro. Le tecnologie digitali fanno parte della scienza e del progresso, e quindi devono diventare cultura, programma scolastico affidato alla scuola che ha il ruolo di preparare cittadini critici capaci di partecipare attivamente all'organizzazione e alla gestione della politica del loro Paese. La scuola, per aspirare a essere una buona scuola e preparare un migliore futuro per il Paese, deve essere prima di tutto seria e impegnativa, curata e dotata di fondi finanziari adeguati. Una cultura in movimento, come l'attuale, richiede insegnanti continuamente aggiornati e motivati nel loro ruolo sia finanziariamente sia socialmente. L'insegnante, come il medico, deve poter contare sulla fiducia e sul rispetto dei soggetti a lui affidati e dei loro genitori, spesso schierati in una protezione troppo amorosa dei loro "bambini" .
È invece triste osservazione che la scuola non è curata, valutata e finanziata come dovrebbe. Viene in mente, in un angolo sospettoso del cervello, che questo potrebbe non essere casuale, generato dalla situazione economica, ma strategico. Cittadini meno preparati sono più disponibili ad accogliere le grida assordanti di acchiappacitrulli di turno e lo stesso angolo sospettoso del cervello sembra cogliere aspetti dimostrativi di questa strategia. Ma, per carità, si tratta di divagazioni e con Candide siamo consapevoli di vivere nel migliore dei mondi con i migliori dei governanti!
Come neurofisiologo studioso in particolare della plasticità del sistema nervoso, so che la massima potenzialità di apprendimento è presente nei bambini verso i 3 anni di vita. In questo periodo le sinapsi, elementi cruciali del funzionamento del sistema nervoso e indice delle sue potenzialità, raggiungono la massima densità: nell'uomo raggiungono il numero di 10 alla quattordicesima/quindicesima (circa un milione di miliardi su quasi 100 miliardi di neuroni). Il numero massimo è raggiunto nel bambino nel lobo frontale verso l'età di 3 anni. Numerosissime ricerche attestano che il picco della plasticità, proprietà per la quale il cervello può cambiare funzione e perfino struttura, si col­loca proprio intorno a questa età. È accertato, e qualsiasi genitore ne è testimone, che questa è l'età ottimale per l'apprendimento e quindi per l'educazione del piccolo.

Il professar Luigi Miraglia, direttore di «Vivarium novum» (Accademia internazionale per l'insegnamento delle discipline umanistiche con sede a Villa Falconieri a Frascati), e l'Accademia dei Lincei (nelle persone del presidente, di alcuni soci e del sottoscritto) stanno studiando un progetto per realizzare una scuola per la prima infanzia in cui introdurre, attraverso il gioco, i primi elementi della cultura umanistica e scientifica. Ricordo che già da qualche anno la Fondazione «l Lincei per la scuola» è attiva in 25 città italiane, grazie al volontariato dei suoi soci, con corsi di aggiornamento di italiano, matematica e scienze sperimentali per docenti della scuola primaria e secondaria.
L'evoluzione ha dato all'uomo il grande dono della parola. Eventi sonori riuniti dalla stretta logica della razionalità diventano comunicazione: questa facoltà ha comportato, nell'emisfero cerebrale sinistro (nei destrimani), un aumento di volume e il sorgere dei centri del linguaggio e in seguito la facoltà di scrivere e di leggere. La scrittura è compito complesso e interessa diverse aree cerebrali che coinvolgono la memoria e l'organizzazione dello scritto, la memoria di lavoro e infine l'area motoria che guida la mano. Il problema della lettura ci appare di particolare interesse, perché anch'essa, come la conversazione, è in crescente decadenza. L'uomo non è organizzato fin dall'inizio per leggere, ma ha certamente nell'emisfero sinistro aree le cui lesioni danno disturbi della lettura, le dislessie. Ricerche recenti presuppongono che il nostro sistema visivo, nato per leggere "la natura", nel corso della vita, sotto lo stimolo dell'esperienza, abbia sviluppato aree cerebrali per leggere "la scrittura". Il bambino nelle sue prime esperienze ripercorre un periodo "evolutivo" che porta alla formazione del centro cerebrale della lettura, probabilmente un'area cerebrale "riciclata", per dirla con lo scienziato francese Stanislas Dehaene. Quest'area, all'analisi della risonanza funzionale, si rivela più evidente a partire dai 10 anni.
La maestra riferiva che i bambini sono taciturni e che prima di svolgere i programmi bisogna indurli a parlare. Sembra che una terapia possa essere «La scuola della parola» dove si lascia lo smartphone a casa e i tweet agli uccelli, dove si discute di argomenti salienti selezionati dall'insegnante e ognuno è invitato a esprimere la propria opinione utilizzando il valore salvifìco della parola, già sperimentato in certe terapie di gruppo o addirittura nella confessione cattolica. L'alunno deve essere protagonista, perché la conoscenza va conquistata e non assorbita passivamente; la conquista, infatti, benché faticosa, induce di per sé soddisfazione, che è basilare rinforzo dell'apprendimento. È noto che è grande piacere del cervello riuscire a esprimere un pensiero personale, che poi può diventare materia di confronto con i compagni e con i genitori. L'alunno deve costruire quello che impara, e insegnare è fare un po' come Michelangelo, scoprire la figura, la forma nascosta nel marmo, in questo caso le potenzialità conoscitive nascoste nel cervello dell'alunno.

L. Maffei, Se la civiltà perde l’uso della parola, «Vita e Pensiero», 102 (2019), n. 1, pp. 110-114. Si ringrazia Vita e Pensiero per il permesso di riproduzione del testo nel progetto DISF-Educational.

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