Proponiamo qui di seguito la celebre pagina conclusiva del Tempo ritrovato, settimo e ultimo volume del capolavoro di Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto (1913-1927). La meditazione del protagonista segue il filo delle libere associazioni e dei ricordi, dando forma letteraria a una concezione del tempo insolita per il senso comune ma non priva di connessioni con alcune intuizioni della scienza contemporanea. Il tempo non è un flusso uniforme e assoluto, impermeabile rispetto agli eventi di cui è costellato, non è cioè costituito dalla pura successione misurabile degli istanti, ma ha un aspetto qualitativo, legato al vissuto soggettivo e, sebbene irreversibile, conserva nel suo scorrere l’insieme delle vicende umane. Con un’immagine poetica suggestiva, Proust descrive un tempo che si sedimenta formando «vivi trampoli» sotto i piedi di coloro che, come il duca di Guermantes – uno dei personaggi principali del romanzo –, camminano malcerti sotto il peso degli anni. Gli eventi della vita, che si sono succeduti nei singoli istanti, sono virtualmente simultanei nella dimensione del Tempo ritrovato.
Provavo un senso di stanchezza e di sgomento nel sentire che tutto quel tempo, cosi lungo, non solo era stato ininterrottamente vissuto, pensato, secreto da me, che era la mia vita, che era me stesso, ma che inoltre dovevo tenerlo in ogni momento attaccato a me, che esso mi sosteneva, appollaiato com'ero sulla sua cima vertiginosa, e che non potevo muovermi senza spostarlo come lui con me. II giorno in cui avevo udito il suono della campanella del giardino di Combray, così lontano eppure così interiore, era un punto di riferimento in quella dimensione enorme che non sapevo di avere. Provavo le vertigini nel vedere sotto di me, e tuttavia in me, quasi fossi alto interi chilometri, tanti anni.
Ora capivo perché il duca di Guermantes, che con stupore avevo trovato, guardandolo seduto su una sedia, cosi poco invecchiato benché avesse sotto di sé tanti anni più di me, non appena si era alzato e aveva tentato di reggersi in piedi, avesse vacillato su due gambe tremolanti come quelle di certi vecchi arcivescovi sui quali non c’è più nulla di solido tranne la loro croce metallica, e intorno ai quali si affannano i giovani seminaristi solleciti, e perché fosse venuto avanti tremando come una foglia, sulla vetta poco praticabile dei suoi ottantatré anni, come se gli uomini fossero appollaiati su vivi trampoli, crescenti senza posa, a volte più alti dei campanili, tali da render loro difficile e pericoloso il camminare, e da cui cadono giù all’improvviso. (Era forse per questo che, agli occhi dei più ignoranti, era così impossibile confondere la faccia degli uomini d'una certa età con quella di un giovane, e che essa non appariva se non attraverso la gravità di una sorta di nube?) Mi sgomentava il pensiero che i miei trampoli fossero già così alti sotto i miei passi; non mi pareva che avrei avuto la forza di tenere ancora a lungo, unito a me, quel passato che già scendeva cosi lontano. Pertanto, se quella forza mi fosse stata lasciata abbastanza a lungo da poter compiere la mia opera, non avrei mancato anzitutto di descrivervi gli uomini, quand'anche ciò avesse dovuto farli somigliare ad esseri mostruosi, come occupanti un posto tanto considerevole, accanto a quello, così angusto, riservato loro nello spazio, un posto, al contrario, prolungato a dismisura, poiché essi toccano simultaneamente, come giganti immersi negli anni, epoche da loro vissute cosi distanti l’una dall'altra, tra le quali tanti giorni sono venuti a interporsi – nel Tempo.
M. Proust, Il tempo ritrovato, a cura di P. Pinto e G. Grasso, Newton Compton, Roma, 1990, pp. 288-289.