Accostarsi al fenomeno della vita

Livio Melina
2002

Secondo la comune osservazione, il fenomeno «vita» indica un movimento non comunicato, spontaneo originantesi dall’interno dello stesso essere [1]. Le scienze sperimentali, e in particolare la biologia, studiano quei fenomeni vitali, che si svolgono in seno a masse limitate di materia estremamente complessa e incessantemente mutantesi, rilevandone le caratteristiche distintive: il metabolismo, ossia il continuo rinnovamento mediante assimilazione di materia dall’esterno ed eliminazione di scorie; l’individualità di ciò che vive e che si presenta come un organismo, dotato di organi morfologicamente e funzionalmente diversi, commisurati e coordinati tra di loro; la differenziazione specifica della materia vivente; la generazione specifica, per cui ogni vivente deriva da altro o da altri viventi della stessa specie; la variabilità e l’adattabilità, come capacità di mutarsi in maniera da poter vivere in condizioni profondamente diverse da quelle in cui lo stesso organismo aveva vissuto precedentemente; la reattività, ossia la capacità di risposta agli stimoli ambientali; la delimitazione dell’esistenza dell’organismo in un ciclo vitale determinato; l’autoregolazione, per cui ogni singola parte si sviluppa e funziona a servizio del tutto, mediante un governo, una moderazione ed un coordinamento delle singole funzioni dell’organismo. Il vivente appare pertanto come un “sistema aperto” entro il quale si stabilisce un equilibrio complesso di flussi, dotato di individualità e capace di scambio con l’ambiente.

All’interno del mondo degli esseri viventi si notano gradi diversi di attuazione della vita. Tradizionalmente si distingue la vita vegetativa, che comprende alcune funzioni vitali (nutrizione, accrescimento, riproduzione) e la vita animale, con funzioni vitali superiori — sensibilità e moto spontaneo — riconoscibili solo negli animali. Negli organismi più complessi si riscontrano poi tropismi e riflessi, che negli animali superiori diventano movimenti spontanei, o più esattamente istintivi. Si tende oggi a distinguere la vita vegetativa, piuttosto che dalla vita animale, dalla vita di relazione, che comporta sensibilità e motilità, nonché diversificate capacità di reazione all’ambiente, considerando il comportamento istintivo come il carattere proprio degli animali superiori. Nei viventi inferiori, invece, si ammette che ogni distinzione tra animali e vegetali può essere artificiosa.

La fenomenologia della vita si presenta dunque con tratti di continuità rispetto all’ordine inferiore dei fenomeni fisico-chimici ma anche con le dimensioni di un salto qualitativo. A ciò corrisponde il dibattito classico tra “meccanicisti”, che tentano di ricondurre le proprietà della vita ai soli fenomeni di scambi chimici e fisici, e “vitalisti”, che invece mettono in rilievo la positiva irriducibilità dei fenomeni vitali a questo livello di spiegazione.

In effetti la biologia dell’essere vivente rappresenta un caso del tutto particolare per l’epistemologia. La biologia non può ridursi ad una matematizzazione del mondo della vita. Anche se, in linea ipotetica, la biologia sperimentale può essere concepita come un’analisi dei fenomeni vitali in termini semplicemente energetici e fisico-chimici, considerando quindi le spiegazioni in termini finalistici come un residuo di “irrazionalità”, da ridurre ed eliminare quanto più possibile, diventa sempre più evidente che la stessa analisi scientifica non può compiere nessun vero progresso se non col superamento di un rigido paradigma meccanicista. Per “salvare le apparenze del sensibile” e per poter avanzare mediante ipotesi più feconde, si è avuta ormai da parecchi decenni, in ambito scientifico, una forte reazione antimeccanicistica, che ha rivalutato concetti come «organico», «vita», «attività immanente» ed anche «anima». Alla riduzione analitica si associa quindi anche l’intuizione sintetica delle realtà vitali, l’intuizione fenomenologica dell’organico, di cui la biologia si occupa. Pur nelle distinzioni necessarie e pur continuando a lasciare ampio spazio all’analisi fisico-chimica, la biologia sente il bisogno di aprirsi a categorie e a concetti che possono entrare in continuità teorica con una spiegazione filosofica.

Non si tratta certo di passare dal rigido meccanicismo del razionalismo positivista ad un vitalismo irrazionalista, che non rispetta la legittima distinzione e autonomia metodologica della biologia sperimentale. Piuttosto si tratta di mostrare come, sulla base dell’integrale assunzione dei risultati della scienza sperimentale, può sorgere una “filosofia dell’essere vivente”, che li interpreta nella luce sua propria, offrendo in tal modo alla biologia la sua giustificazione razionale. Così la dimensione fisico-chimica non rimarrà giustapposta alla dimensione vitale del fenomeno biologico, ma apparirà ordinata ad essa.

L’individuo vivente rappresenta un vero paradosso per la biologia sperimentale, essendo ad un tempo il suo oggetto e la sua aporia [2]. In effetti l’individualità non può essere predicata della materia, ma solo dell’essere. L’unità dell’organismo, di cui si occupa come del suo oggetto proprio di indagine, sfugge al metodo sperimentale. Così l’aporeticità di un approccio puramente sperimentale, mentre segnala il limite dell’intelligibilità scientifica, mette in moto la dinamica propria della ragione metafisica. Come potrebbe fare ancora della bio-logia uno scienziato che pretendesse di eliminare radicalmente l’idea della funzione del composto che analizza, che non tentasse di capirne la “forma”, cioè la ragione d’ordine delle parti differenti, che interagiscono dando origine a quel fenomeno complesso che è la vita? Se l’indagine non presupponesse in alcun modo l’esistenza di una struttura del suo oggetto in relazione alla funzione vitale, egli vedrebbe svanire immediatamente ciò di cui si occupa.

In effetti, una critica epistemologica delle scienze biologiche mostra i limiti e le aporie di un approccio riduzionista al fenomeno “vita”. Secondo Michael Polanyi (1891-1976), un organismo vivente può essere visto come un sistema che funziona sotto il controllo di due princìpi distinti: la sua struttura biologica, la quale, come principio superiore, serve da condizione limite per mettere a frutto le risorse dei processi fisico-chimici; questi ultimi a loro volta, come principio inferiore, permettono ai vari organi di svolgere le loro funzioni [3]. In tal senso, la struttura degli esseri viventi è estranea alle leggi della fisica e della chimica che l’organismo sfrutta: si tratta di princìpi irriducibilmente più elevati che vi si aggiungono con funzione regolativa. O, per dirlo con Hans Jonas (1903-1993), l’identità di un organismo vivente è l’identità di una forma nel tempo e non l’identità di una materia: questa forma vivente è ontologicamente «il complessivo ordine strutturale e dinamico di una molteplicità» [4]. L’informazione non è riducibile né alla materia né all’energia, anche se la sua conservazione, trasmissione e conversione dipendono fisicamente sia dalla materia, sia dall’energia. Proprio la genetica spinge quindi verso la adozione di un’analisi secondo più livelli e di un paradigma informazionale, come più idoneo a interpretare il fenomeno della vita [5].

Con ciò il sapere biologico si apre a conoscenze diverse e superiori e può essere integrato in esse. L’oggettivazione scientifica è un modo di interpretare la realtà, ma essa non esaurisce tutte le possibilità della ragione, che va intesa come apertura alla realtà del vivente secondo tutte le sue dimensioni. La vita non è un oggetto su cui indagare, ma è la base di ogni attività. Allora appare chiaro che la forma superiore di vita è quella che si dà alla coscienza, e con la coscienza dell’uomo. Coscienza e vita non si possono contrapporre come soggetto e oggetto: la coscienza è il livello più perfetto del vivere: Quis non intellegit non habet perfecta vita [6]. Come afferma Robert Spaemann: «Chi non è disposto a scegliere la vita cosciente come paradigma dell’interpretazione della vita in generale, è costretto a disconoscere all’essere vivente il suo carattere di vivente e a ridurlo a una struttura “oggettiva” di un essere materiale, senza accorgersi che è soltanto a partire dall’essere vivente che è possibile comprendere che cosa significhi “essere” quando lo si applica alla materia» [7]. La vita cosciente dell’uomo è il luogo dove diventa trasparente ciò che la vita è, dove emerge la sua origine da Dio e la sua destinazione a Dio. Il concetto di vita appare quindi fondamentalmente analogico: si applica in una scala ascendente, che a partire dai livelli più elementari giunge fino a Dio, Colui che ha la vita come sua essenza, che la possiede in pienezza e che la crea. Qui si inserisce la dimensione propriamente teologica, nella quale si scorge la soprannaturale chiamata a partecipare alla vita divina stessa in Cristo.

   


[1] Cfr. ARISTOTELE, De anima, II, 1, 403b, 16.
[2] Cfr. P. CASPAR, La saisie du zygote humain par l’esprit. Destin de l’ontogenèse aristotélicienne, Paris-Namur 1987, pp. 411ss.
[3] Cfr. M. POLANYI, La struttura irriducibile della vita (1968), in Conoscere ed essere. Saggi, Armando, Roma 1988, pp. 265-280.
[4] Cfr. H. JONAS, Philosophical Essays: From Ancient Creed to Technological Man, Englewood Cliffs, Prentice-Hall (NJ) 1974, p. 192.
[5] Cfr. R. COLOMBO, Vita: dalla biologia all’etica, in A. Scola (a cura di), Quale vita? La bioetica in questione, Mondadori, Milano 1998, pp. 169-195.
[6] Cfr. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae, I, q. 18, a. 3.
[7] Cfr. R. SPAEMANN,  Felicità e benevolenza, Milano 1998, p. 132.

    

L. Melina, Vita, in Dizionario interdisicplinare di scienza e fede, a cura di G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova, Roma 2002, pp. 1519-1521.