Non solo teologia: la matematica di Dante

Vincenzo Vespri
2020

In questa nota ci interesseremo del pensiero matematico di Dante. In premessa discuteremo del mondo scientifico all'epoca di Dante. La matematica che Dante ha usato è quella che era emersa dalle nebbie medievali. Gli arabi avevano conservato memoria dei contributi di Euclide, avevano appreso il nuovo metodo di usare le cifre degli indiani, avevano capito l'importanza dello zero. Tutte queste nuove conoscenze erano state portate in Europa sia grazie alle Repubbliche Marinare da mercanti come Fibonacci e sia grazie alla presenza araba in Spagna. Dopo questa carrellata, entreremo nel merito di Dante "matematico". La matematica è fortemente presente nella Divina Commedia in cui vari teoremi sono correttamente enunciati. Ovviamente la matematica (e la scienza) di Dante non sono quelle che noi conosciamo. Fra l'altro, nel Medioevo la cultura umanista e scientifica erano profondamente intrecciate. E Dante trovava assolutamente naturale inserire enunciati di teoremi nella sua opera.

Le conoscenze scientifiche al tempo di Dante

Non pretendiamo certo di considerare tutti i matematici e gli scienziati che Dante cita, esplicitamente o implicitamente, nelle sue opere (rimandiamo i lettori al saggio di Bruno D'Amore, La matematica ai tempi di Dante, in «Nuova Civiltà delle Macchine», 18, 2000, 3, pp. 100-115). Qui ci limiteremo a individuare i matematici che a nostro parere hanno maggiormente influito nella formazione del pensiero scientifico del Sommo Poeta.
Dante, dopo la morte di Beatrice, frequentò la "scuola dei religiosi" e le "disputazioni dei filosofanti", leggendo Cicerone e Boezio. Siccome Boezio aveva tradotto Euclide, è stato inevitabile per Dante incontrare l'opera del grande alessandrino. Lo studio della geometria euclidea non si poteva però praticare banalmente attraverso i maestri d'abaco più rozzi, ma richiedeva studi più approfonditi, che di solito passavano attraverso la filosofia. Ed è proprio per questo che Dante, molto probabilmente, aveva una conoscenza molto ampia della geometria. Euclide formulò la prima rappresentazione organica e completa della geometria nella sua fondamentale opera: gli Elementi, divisa in 13 libri. Ogni libro inizia con una pagina contenente delle affermazioni che possono essere considerate come una specie di definizioni allo scopo di chiarire i concetti successivi; esse sono seguite da altre proposizioni che sono invece veri e propri problemi o teoremi: questi si differenziano fra di loro per il modo con cui vengono enunciati e per la frase rituale con cui si chiudono. Dunque Euclide fu il primo a introdurre il formalismo matematico e questo rigore è ben presente nell'opera di Dante.
Pare che ancora bambino Dante abbia frequentato una lezione di Pietro Ispano (1220-1277), futuro papa Giovanni XXI. Fu definito dai suoi contemporanei «magnus sophista, loycus et disputator atque theologus», soprattutto per il suo compendio di logica formale Summulae logicales, che fu il manuale di riferimento sulla logica aristotelica in uso nelle università europee per più di 300 anni. Dante non solo lo cita in Paradiso XII, 134-135, ma anche dimostra di conoscere molto bene la sua opera. Come infatti non ricordare i versi riguardanti Guido da Montefeltro in Inf XXVII, 117-123?

ch'assolver non si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente.

Oh me dolente! come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: «Forse
tu non pensavi ch'io laico fossi!».

   

Sicuramente la cultura matematica di Dante fu molto influenzata dalla figura di Leonardo Pisano detto il Fibonacci (1170-1235). Nel1202 pubblicò, e nel 1228 riscrisse (lo fece pubblicare solo dopo la sua morte, però, lasciandolo nel suo testamento), il Liber abbaci, opera in quindici capitoli con la quale introdusse (nel capitolo I) le nove cifre, da lui definite "indiane", e il segno 0. All'epoca il mondo occidentale usava i numeri romani e il sistema di numerazione greco, e i calcoli si eseguivano con l'abaco. Questo nuovo sistema stentò molto a essere accettato, tanto che nel 1280 la città di Firenze proibì l'uso delle cifre arabe da parte dei banchieri. Si riteneva infatti che lo "0" apportasse confusione e venisse impiegato anche per mandare messaggi segreti. Da notare che l'uso delle cifre arabe era in ogni caso già conosciuto da alcuni dotti dell'epoca. Il primo caso del quale si ha notizia è stato quello del monaco Gerberto (poi diventato papa dal 999 al 1003 col nome di Silvestro II): egli propose l'uso di questo sistema in alcuni conventi in cui si scrivevano opere scientifiche, ma il metodo rimase sconosciuto nel mondo esterno.

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Dante Alighieri (1265 – 1321)

Altra figura che può aver avuto influenza su Dante matematico è quella di Federico II (1194-1250), conosciuto con gli appellativi stupor mundi o puer Apuliae. Il 5 giugno 1224, all'età di trent'anni, Federico istituì con editto formale, a Napoli, la prima universitas studiorum statale e laica della storia d’Occidente, in contrapposizione all'ateneo di Bologna, nato come aggregazione privata di studenti e docenti e poi finito sotto il controllo papale.
Federico II non si limitò a incoraggiare gli studi, ma fu uno studioso lui stesso. Tuttavia la curiosità scientifica, il voler carpire con ogni mezzo i segreti della Natura, poteva avere i suoi lati oscuri: così Salimbene di Adam, cronista contemporaneo a Federico, ci ha raccontato di alcuni macabri esperimenti che l'imperatore avrebbe messo in atto. Il problema dell'immortalità dell'anima lo avrebbe ossessionato: egli allora rinchiuse un condannato a morte in una botte di vino per verificare se, al suo decesso, l'anima uscisse dal foro; questo non avvenne, dunque la conclusione di Federico II fu che l'anima non fosse immortale. Un altro esperimento riguardò se si digerisse meglio facendo un sonnellino o facendo due passi dopo mangiato. Federico II fece chiamare due condannati a morte: a uno concesse, dopo pranzo, un pisolino, l'altro lo spedì a caccia. Poi, come se niente fosse, fece aprire lo stomaco a entrambi e constatò che aveva digerito meglio l'uomo che si era riposato. Ma l'esperimento più inquietante è quello che fece utilizzando come cavie alcuni bambini. Una prova che si può leggere direttamente dalla penna di Salimbene: «La seconda sua stranezza fu di voler scoprire che lingua e quale idioma avessero i bambini nel crescere, se non parlavano con nessuno. E perciò diede ordine alle balie e alle nutrici di dare il latte agli infanti e lasciar succhiare loro le mammelle e far loro il bagno e tenerli puliti, ma che non li vezzeggiassero in nessun modo e stessero sempre mute e silenziose davanti a loro. Intendeva arrivare a conoscere se parlavano poi la lingua ebraica, la quale era stata la prima, o il greco, il latino o l'arabo; o almeno la lingua dei genitori da cui erano nati. Tuttavia si affaticava invano: gli infanti morivano tutti, perché non potevano vivere senza gli incoraggiamenti, i gesti, la letizia del volto e le carezze delle loro balie e nutrici». Come non vedere, in questi orrori, l'idea di un Uomo dilaniato fra la necessità di seguir vertute e canoscenza e i limiti imposti all'Uomo dalla Legge Divina?

Anche l'empirismo inglese ha influenzato profondamente Dante. Roberto Grossatesta (1175-1253) non è citato direttamente da Dante, ma la teoria della luce da lui elaborata sembra ispirare alcune riflessioni del poeta. Nei commentari aristotelici, Grossatesta delineò l'intelaiatura del corretto metodo scientifico. Fu il primo degli scolastici a comprendere pienamente la visione aristotelica del percorso duale del ragionamento scientifico, riassumendo particolari osservazioni in una legge universale e quindi ricavando da leggi universali la previsione dei particolari. Grossatesta disse che entrambi i percorsi devono essere verificati attraverso la sperimentazione allo scopo di verificarne i principi.

Un altro filosofo che ha contribuito alla formazione scientifica di Dante è stato sicuramente Ruggero Bacone (1214-1294) noto come Doctor mirabilis. Egli rifiutava di seguire ciecamente le autorità precostituite, sia sul piano teologico sia su quello scientifico. Questo scienziato medievale aveva il coraggio di dire, mezzo secolo prima di Dante, che Aristotele aveva commesso vari errori, che non poteva sapere tutto e nessuna generazione al mondo può vantarsi d'una cosa simile. Egli fu un entusiasta sostenitore e praticante del primato dell'esperienza come mezzo per acquisire conoscenze intorno al mondo. Secondo Bacone, la suprema scienza è la matematica, sussidiaria di tutte le altre scienze, e solo la connessione di questa con l'esperienza concreta del reale può consentire all'uomo di scorgere i rapporti quantitativi e matematici che reggono il mondo sensibile.

Continuando con la scuola inglese, si deve citare Giovanni Duns Scoto, (1266-1308) noto come Doctor subtilis. Dante non lo cita direttamente, ma alcune riflessioni fra scienza e fede sembrano riprese dal pensiero di questo frate. Scoto traccia una netta distinzione tra metafisica e teologia. Essa si basa a sua volta sulla distinzione tra la theologia in sé e la theologia nostra, vale a dire tra ciò che in assoluto può essere conosciuto a proposito di Dio (e che solo Dio stesso conosce) e ciò che noi possiamo conoscere di Dio, principalmente grazie alla rivelazione.

Contemporaneo di Dante e sicuramente conosciuto da Dante fu Guglielmo di Ockham (1285-1347), teologo, filosofo e religioso francescano inglese. Ockham era convinto dell’indipendenza di fede e ragione e portò alle estreme conseguenze quella linea di pensiero che aveva già perseguito Duns Scoto; ovvero le verità di fede non sono per nulla evidenti e la ragione non le può indagare; solo la fede, dono gratuito di Dio, può illuminarle; ma se tra Dio e il mondo non possiamo porre alcun legame, se non la pura volontà di Dio, ne consegue che l'unica conoscenza è la conoscenza dell'individuo. È l'insegnamento di Ockham che conduce alla fine della Scolastica e in un certo senso del Medioevo. La legge del "rasoio di Ockham" è usata da Dante nella sua raffigurazione del Creato: come un grande orologio e un grande ingranaggio. Il moto dei beati è paragonato due volte al moto dell'orologio.

La matematica nella Divina Commedia

Moltissimi sono gli studi dedicati alla matematica presente nelle opere di Dante ed è difficile dire qualcosa di nuovo in questoambito. Quasi tutte le osservazioni riguardano la numerologia (che in questa nota non sarà considerata) e il simbolismo matematico (di cui daremo un rapido accenno). Relativamente poco si parla degli aspetti "realmente" matematici, e di questo aspetto invece parleremo un po' più diffusamente.
Dante utilizza molte volte simboli matematici per rappresentare Dio e il rapporto fra Dio e gli uomini. Ad esempio, per descrivere la e visione di Dio da lui avuta nel Paradiso, decide di far ricorso al concetto tutto euclideo di punto geometrico (Par XXVIII, 16-21):

 

un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che 'l viso ch 'elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;

e quale stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca.

   

Quel punto emette una luce tanto intensa che l'occhio colpito è costretto a chiudersi per l'insostenibile luminosità da esso irraggiata; eppure a Dante appare cosi piccolo che qualsiasi stella, per quanto appaia minuscola ai nostri occhi, sembrerebbe grande come la luna piena se fosse posta vicina a esso. Per Dante il punto euclideo è il simbolo più appropriato di Dio perché privo di dimensioni, quindi indivisibile e immateriale.
Altro utilizzo di simbolismo matematico compare nella raffigurazione del mistero della santissima Trinità (ParXXXIII, 115-120):

   

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l'alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d'una contenenza;

e l'un da l'altro come iri da iri
parea reflesso, e 'l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.

   

Il simbolismo dei cerchi (sfere) per rappresentare la perfezione non può non ricordare l'idea di perfezione del cerchio espressa da Ruggero Bacone.
Ma ecco che subito Dante passa alla matematica "seria". Il canto (Par XXXIII, 133-138) prosegue con:

   

Qual è 'l geomètra che tutto s'affìge
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond 'elli indige,

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;

 

Cosa voleva dire Dante? Varie ipotesi sono plausibili. La prima, che io escluderei, è che qui affiori una cantonata matematica da parte di Dante. Ora, il problema della quadratura del cerchio nella sua forma più banale era stato risolto dagli antichi greci. Dinostrato (390-320 a.C.) usò la quadratrice (una curva trascendente scoperta da Ippia di Elide) per risolvere il problema. Un'altra ipotesi è che intendesse l'impossibilità di risolvere il problema del cerchio con riga e compasso. Ma qui mi sembra che, come prima si poteva sottovalutare le conoscenze matematiche di Dante, così adesso le si sopravvaluti. L'impossibilità della quadratura del cerchio tramite riga e compasso è un risultato molto lontano dalla portata della matematica dei tempi di Dante. Fu provata infatti solo nel 1882 da Ferdinand von Lindemann. È stata avanzata anche un'interpretazione simbolico-esoterica. Dante avrebbe voluto dire che quadrare il cerchio rappresenta la congiunzione alchemica degli opposti e della pietra filosofale: essendo il cerchio tradizionalmente associato al cielo e il quadrato alla terra, far coincidere matematicamente le due figure equivaleva a comporre lo spirito con la materia, il trascendente con l'immanente. Anche questa interpretazione mi sembra implausibile, caricando di eccessivo esoterismo il pensiero dantesco. La possibilità che mi sembra più ragionevole è invece un'altra. Il valore di n era dato tramite un'approssimazione di poligonali. Conoscere l'esatto valore di n equivaleva a fare un'approssimazione infinita, operazione impossibile per un essere finito come l'essere umano. Questa visione separata fra il regno della teologia e quello della fisica ben si adatta alla visione degli empiristi inglesi di cui abbiamo discusso nella prima parte.
Altri spunti matematici che io reputo interessanti si susseguono in tutta l'opera di Dante. L'avo di Dante, Cacciaguida, dice (Par XV, 56-57):

 

da quel ch'è primo, così come raia
d a l'un, se si conosce, il cinque e 'l sei;

 

Ora, questa visione dei numeri naturali è estremamente acuta e lucida. La teoria assiomatica dei numeri naturali si basa proprio su principi similari e fu introdotta, a fine Ottocento, dal matematico italiano Giuseppe Peano (Arithmetices principia, nova methodo exposita, Torino, 1889). Ovviamente si deve escludere, nel modo più categorico, che Dante abbia anticipato l'opera di Peano. Si può affermare invece con sicurezza che Dante avesse un intuito matematico eccezionale, capace di cogliere (anche inconsciamente) le più profonde proprietà strutturali matematiche.
Altro punto di questa intuizione matematica di Dante si trova all'inizio del VI canto del Purgatorio (vv. 1-3):

   

Quando si parte il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;

 

che anticipa la possibilità di utilizzare il calcolo delle probabilità nei giochi dei dadi come faranno tre secoli dopo Galilei, Cardano, Pascal, Huygens e Leibnitz.
Ancora, in Par XXVII, 115-117:

   

Non è suo moto per altro distinto,
ma li altri son mensurati da questo,
si come diece da mezzo e da quinto;

 

e in Par XXVIII, 91-93:

 

ed eran tante, che 'l numero loro
più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla

   

si sente echeggiare Fibonacci.
Mentre gli insegnamenti di logica di Pietro Ispano traspaiono in Par VI, 19-21:

 

Io li credetti; e ciò che 'n sua fede era,
vegg' io or chiaro sì, come tu vedi,
ogni contradizione e falsa e vera.

 

In passi successivi (Par XIII, 101-102 e Par XVII, 13-15), vengono enunciati teoremi di geometria come il fatto che un triangolo inscritto in una semicirconferenza avente come lato il diametro debba essere retto:

 

o se del mezzo cerchio far si puote
triangol sì ch'un retto non avesse

 

o che in un triangolo non possano esserci due angoli ottusi:

   

O cara piota mia che sì t'insusi
che, come veggion le terrene menti
non capere in tr'iangol due ottusi,

   

Infine (Par XIX, 40-42) lo stesso Dio è rappresentato proprio come un geometra, che traccia i confini del mondo esattamente come un architetto fa con l'edificio che deve costruire:

 

Colui che volse il sesto a lo stremo del mondo,
e dentro a esso distinse tanto occulto e manifesto.

 

Si ricorda che il compasso veniva chiamato "sesto" perché poteva essere aperto fino a un sesto del cerchio.
Tanti altri sono gli aspetti di matematica degni di essere considerati. Ma, tenendo presente lo scopo di questa nota, credo che gli esempi mostrati siano più che sufficienti per accertare, senza ombra di dubbio, che Dante non solo era a conoscenza della teoria matematica più avanzata della sua epoca, ma la padroneggiava perfettamente.

V. Vespri, Non solo teologia: la matematica di Dante, «Vita e Pensiero»103 (2020), n. 3, pp. 113-121. Si ringrazia Vita e Pensiero per il permesso di riproduzione del testo nel progetto DISF-Educational.

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