Di chi è figlio Homo sapiens?

Ivan Colagè
Giuseppe Tanzella-Nitti
Crani di (da sinistra) Australopithecus afarensis, Homo erectus, Homo sapiens. Immagine tratta e adattata (da F. Facchini, Le origini dell'uomo e l'evoluzione culturale, Jaca Book, Milano 2006, p. 81).

Homo sapiens – la nostra specie – è figlio di una lunghissima evoluzione. È figlio degli ominidi che 4-5 milioni di anni fa sono “scesi dagli alberi” cominciando ad abitare la savana; quindi dei primi rappresentanti del genere Homo che hanno iniziato a produrre strumenti e mangiare carne, sviluppando la loro massa encefalica e vivendo in comunità organizzate. Homo sapiens è anche “figlio di sé stesso”, perché con la sua evoluzione culturale ha progressivamente costruito la sua peculiare forma di vita. Per la teologia cristiana, tutto ciò è compatibile con il fatto che Homo Sapiens sia anche figlio di Dio, il Dio vivente, creatore e personale, che ha creato l’essere umano a Sua immagine e somiglianza.

Da quali forme di animali superiori deriva la biologia dell’essere umano?

La biologia e alcuni aspetti comportamentali e cognitivi di Homo sapiens, la nostra specie biologica, derivano da un lungo processo evolutivo (detto ominazione). H. sapiens è l’unica specie attualmente esistente del genere Homo. Il genere Homo appartiene alla sottofamiglia delle Homininae della famiglia delle Hominidae, all’ordine dei Primates (primati) – emerso 80-55 milioni di anni fa – e alla classe dei Mammalia (mammiferi) – comparsa 225-160 milioni di anni fa.

Per H. sapiens essere un mammifero significa alcune cose importanti. In primo luogo, avere un cervello dotato della cosiddetta “neo-corteccia”, responsabile degli aspetti motori, percettivi e cognitivi più sofisticati. In H. sapiens, la neo-corteccia è essenziale per facoltà superiori come linguaggio e autocoscienza. In secondo luogo, i mammiferi presentano sempre un forte legame madre-figli (almeno fino alla pubertà della prole) dovuto all’allattamento e, più in generale, alla cura della prole. In terzo luogo, i mammiferi, soprattutto da cuccioli, giocano, e il gioco assume una rilevanza cruciale nell’apprendimento di svariate abilità motorie e cognitive. Legame madre-figli e gioco hanno un ruolo fondamentale anche nello sviluppo della socialità.

Essere un primate, poi, è ancor più significativo perché implica altri aspetti cruciali, quali: un alto quoziente di encefalizzazione (un cervello tendenzialmente grande rispetto alla massa corporea); un basso ritmo riproduttivo (un numero piuttosto limitato di figli) e quindi molte cure dedicate alla prole; un allungamento del periodo dello sviluppo (il periodo dalla nascita alla pubertà) e le conseguenti spiccate capacità di apprendimento; il potenziamento della vista come modalità percettiva primaria (l’olfatto essendo quello principale per gli altri mammiferi); mani (e piedi) prensili e una forte coordinazione occhio-mano, nonché una dimensione sociale progressivamente più sofisticata.

Proprio sulla dimensione sociale vale la pena soffermarsi ancora un momento. Semplificando un po’ le cose, H. sapiens proviene dalla linea evolutiva dei “grandi primati superiori” (oranghi, gorilla, scimpanzé). La socialità di queste specie è articolata (e questo richiede delle capacità cognitive sofisticate), ma si costituisce principalmente di legami sociali deboli e temporanei (salvo il legame madre-figli) all’interno di comunità piuttosto ampie. Lo sviluppo di legami sociali forti e stabili (fino a giungere alla cosiddetta “famiglia nucleare”) sembra dunque essere uno sviluppo tipico della linea evolutiva che diparte da quella dagli altri grandi primati superiori esistenti e che porta alla nostra specie.

Ma Homo sapiens discende dalle scimmie?

L’evoluzione dei primati (“le scimmie”) dura da almeno 55 milioni di anni. Il genere Homo è emerso quasi 2,5 milioni di anni fa; H. sapiens circa 250.000 anni fa. L’ultimo progenitore comune tra H. sapiens e Pan troglodytes (lo scimpanzé comune) è vissuto prima di 5-7 milioni di anni fa. In questi 5-7 milioni di anni sono accadute moltissime cose senza le quali H. sapiens non esisterebbe. Basti pensare che nella linea evolutiva dello scimpanzé sembrano essere avvenute pochissime speciazioni ( tra cui quella che ha distinto il P. trogloyites dal Pan paniscus, più noto come bonobo), mentre nella linea che ha portato a H. sapiens si contano almeno venti specie diverse – e secondo alcuni autori, molte di più – tutte estinte, tranne noi.

Le prime specie sulla nostra linea evolutiva appartengono a tre generi diversi (Sahelanthropus, Orrorin e Ardipithecus) che esibiscono un bipedismo facoltativo e un cervello non maggiore di quello degli scimpanzé attuali.

Tra i 4 e i 5 milioni di anni fa, compaiono le Australopitecine (il genere Australopithecus). Qui il bipedismo si fa sempre più stabile (“obbligato”), e queste specie vivono in un ambiente solo parzialmente arboreo. I denti diventano sempre più grandi (soprattutto i molari), il che indica una dieta vegetale. Il cervello non cresce molto.

Intorno ai 3,5 milioni di anni fa, si palesa nel registro archeologico un bivio adattativo. Alcune Australopitecine (dette “robuste”), spesso attribuite al genere Paranthropus, si specializzano sempre più in una dieta vegetale-coriacea, che dà al loro cranio una struttura particolare atta a sostenere un poderoso apparato masticatorio. Il cervello cresce appena. Altre australopitecine, probabilmente popolazioni di A. africanus, percorrono l’altro “sentiero”, quello che porterà in circa un milione di anni, al genere Homo, che conta almeno sei specie (alcuni autori le ridurrebbero a tre, ma altri ne distinguerebbero di più).

Quindi, se con “scimmia” intendiamo lo scimpanzé, H. sapiens non discende direttamente "dalle scimmie". È più corretto dire invece che discende dalle Australopitecine e da qualche popolazione di qualche specie del genere Homo. Ma allora sì può anche dire, andando ancora più indietro,che discende dai primati di 55 milioni di anni fa, dai mammiferi di 160 milioni di anni fa, e dai primi animali comparsi probabilmente più di 600 milioni di anni fa. Ad acquisire importanza maggiore non è il passato remoto, ma il processo evolutivo “recente”, assai complesso, che ha portato alla comparsa della nostra specie.

Com’è emerso H. sapiens all’interno del genere Homo?

H. habilis è il primo rappresentante del genere Homo, emerso quasi 2,5 milioni di anni fa. Con l’habilis si nota l’inizio di due “trend” evolutivi rilevanti: un’accelerazione della crescita del volume cerebrale (fino ai 1.300-1.800 ml di H. sapiens) e un sensibile allungamento del periodo di sviluppo. Gli Homo iniziano ad abitare una nicchia ecologica nuova, quella della savana africana, e iniziano a mangiare carne. Aspetto fondamentale: con H. habilis inizia la stabile fabbricazione di strumenti in pietra. Altro aspetto importante: aumentano il numero di individui nel gruppo sociale e la forza dei legami al suo interno.

Nell’evoluzione del genere Homo si intrecciano dunque aspetti anatomico-fisiologici, “tecnologici”, sociali, e – conseguentemente – comunicativi (legati sia alla coesione sociale, sia alla pianificazione delle attività, sia alla trasmissione culturale). Tutto ciò si potenzia e si amplifica vicendevolmente nel passaggio – circa 1,8 milioni di anni fa – da H. habilis a H. ergaster (che diventerà H. erectus in Asia), e poi a H. heildebergensis (tra 900 e 600 mila anni fa). Quest’ultimo potrebbe essere l’antenato comune da cui si svilupperanno H. neanderthalensis in Europa, e (indipendentemente) H. sapiens in Africa. Eccoci! In Africa, circa 250.000 anni fa; e poco dopo, inizieremo quella diffusione che ci porterà a “colonizzare” l’intero pianeta.

Questo processo evolutivo è certamente analogo a quello di altri viventi: sfide ambientali richiedono nuovi comportamenti, che implicano l’ingresso in nuove nicchie, dunque nuovi fattori selettivi, e quindi l’azione della selezione naturale sulla variabilità genetica. Col genere Homo, però, c’è un fattore in più, la cultura. Sì, perché accanto all’evoluzione genetica e morfologica, ciò che soprattutto cambia nel genere Homo è il “comportamento culturale”, che assume dinamiche e tempistiche proprie, non riducibili a quelle dell’evoluzione genetica o morfologica. Le sfide a cui rispondere non sono più “puramente” di sopravvivenza, ma sempre più “socio-culturali”, animate – sembrerebbe di poter dire – dal desiderio di “vivere meglio”.

H. sapiens è evidentemente all’apice di questo processo: linguaggio articolato, agricoltura e allevamento, città e templi, scrittura, cultura teoretica (la arti, la filosofia, le scienze), sistemi di diritto, etc. E, significativamente, queste innovazioni sono avvenute “all’interno” della specie H. sapiens, senza (dover) evolvere geneticamente: da questo punto di vista, H. sapiens per come lo conosciamo oggi si è “fatto da sé”, in un processo di evoluzione culturale (di “progresso”) che si colloca al culmine di un lunghissimo processo di evoluzione biologica.

Cosa intende la teologia cristiana quando parla dell’essere umano come creato a immagine e somiglianza di Dio? È questa visione compatibile con il risultato scientifico che l’essere umano derivi a specie animali precedenti e meno evolute?

H. sapiens possiede una singolare unicità nel panorama dei mammiferi e dei primati superiori. I risultati del suo progresso evolutivo – cultura, arte, tecnologia, conoscenza scientifica, pensiero filosofico – non sono condivisi da altri animali. Solo l’essere umano, in relativamente poco tempo, è riuscito a conoscere la struttura intima della materia e la struttura dell’universo fisico in cui il pianeta Terra, il sistema solare e la nostra galassia sono collocati. È lecito chiedersi perché altre specie, fra i primati superiori, o anche fra altre specie animali dotate di adeguata massa encefalica e di sistema nervoso centralizzato, non abbiano avuto un’evoluzione culturale e scientifica simile alla nostra, anzi non l’abbiano avuta per nulla. Per chi condivide la fede che il mondo abbia un Creatore, affermare che la nostra specie umana sia frutto di una speciale relazione con il Creatore dell’universo, del nostro pianeta e della vita, non contraddice alcun dato scientifico. Questa relazione, se esiste, certamente supera il piano empirico della conoscenza sperimentale, perché deve avere qualcosa della trascendenza di Dio, essendo una relazione con Lui. La Rivelazione ebraico-cristiana, affermando che l’essere umano è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, sostiene che la comparsa di H. sapiens risponde a una specifica intenzionalità creatrice di Dio, quella di volere una creatura che potesse entrare in relazione con il proprio creatore. Dio ha creato l’essere umano, e continuamente lo crea, chiamandolo alla vita mediante la lunga storia evolutiva che ha dato origine alla nostra specie e mediante lo sviluppo biologico di ogni nuovo essere umano.

Il nucleo di questa immagine consiste in ciò che consente all’essere umano di vivere la relazione per cui è stato creato, quella di conoscere e amare il suo Creatore. Tale relazione può essere qualificata – così lo afferma la Rivelazione biblica – come filiale. È in questo senso che la fede cristiana afferma che l’essere umano è “figlio di Dio”. Egli è immagine di Dio nella sua libertà, nella sua razionalità, nella sua capacità di dirigersi alla verità, di riconoscere il bene distinguendolo dal male, di stupirsi di fronte alla bellezza. Questa immagine non è presente in altre specie animali che hanno preceduto il cammino evolutivo che ha condotto a H. sapiens. Eppure, le specie che ci hanno preceduto nella nostra lunga storia evolutiva sono state necessarie perché la dimensione biologica della corporeità umana fosse adatta a manifestare la relazione trascendente, quella con Dio, che lo caratterizza come essere a Sua immagine e somiglianza.

Cosa afferma la teologia cristiana circa il “passaggio” da una vita animale a una vita umana propriamente detta?

In quanto immagine e somiglianza con Dio, l’essere umano possiede una discontinuità rispetto alle altre specie animali. In quanto specie biologica, quella di un primate superiore, l’essere umano è in continuità con la vita animale. Se alla teologia si chiede di spiegare come si possa dare questa discontinuità nella continuità, essa risponde spiegando, appunto, in cosa consista essere immagine e somiglianza di Dio e come questa relazione trascendente abbia bisogno di una storia evolutiva e biologica per potersi esprimere. Se le si chiede quando e dove tale discontinuità si è manifestata, in quale momento e in quale luogo, la teologia non ha risposte da fornire. Essa può, come tutte le altre discipline che studiano l’essere umano, vedere gli effetti indiretti che manifestano la relazione fra l’uomo e Dio: senso religioso, credenza nella propria dimensione spirituale, testimonianze artistiche dell’adorazione di un creatore… Se le si chiede, invece, in qual modo si possa dare un passaggio da un essere che non sia immagine e somiglianza di Dio a un essere, l’essere umano, che lo sia, essa può solo rispondere che tale passaggio è una specifica chiamata di Dio, quando il Creatore ha finalmente di fronte qualcuno che può ascoltarlo e può rispondergli nella libertà. Dunque non si tratta di un passaggio interamente biologico e materiale, che possa essere individuato con gli strumenti dell’indagine scientifica, ma di una chiamata che trascende la storia e la materia, perché ha Dio come autore.

Vi sono autori che hanno collocato l’esistenza di questa relazione già molto indietro nel tempo, quando sorge il pensiero astratto delle prime specie Homo; altri la riconoscono solo in tempi recenti, con il sorgere del senso religioso primitivo. In ogni caso, ciò che, esistendo nella storia, noi comprendiamo come un passaggio nel tempo, è presente in Dio da sempre, perché la sua intenzionalità creatrice trascende la storia.

La fede cristiana, infine, sostiene che la pienezza dell’immagine di Dio nell’uomo è Gesù Cristo, Verbo incarnato. L’essere umano è stato creato in Cristo, cioè secondo il modello di una perfetta umanità da sempre presente nell’intenzionalità creatrice di Dio. Il vero uomo, l’uomo completo, quello che risponde al piano creatore di Dio, non è solo il risultato di processo biologico, ma anche frutto e compimento della donazione libera dell’amore, quella di Gesù di Nazaret che, vivendo totalmente orientato all’amore di Dio e degli altri, ha risposto come Figlio alla chiamata del Padre.

   

Visita anche il Percorso Tematico La comparsa dell’uomo sulla Terra: evoluzione biologica e culturale

      

Glossario: 

Genere della sotto-famiglia Homininae della famiglia Hominidae comparso circa 4 milioni di anni fa nell’Africa sud-orientale i cui ultimi rappresentanti si sono estinti intorno ai 2 milioni di anni fa. All’interno di questo genere si distinguono sei specie: A. anamensis, A. afarensis, A. bahrelghazali, A. garhi, A. sediba e A. africanus.

Specie generalmente attribuita al genere Homo comparsa probabilmente tra 300.000 e i 200.000 anni fa e estinta forse 40.000 o probabilmente solo 15.000 anni fa. Ha vissuto principalmente in Asia centrale e sud-orientale e in Oceania. Secondo recenti dati genetici, i Denisoviani sembrano essersi incrociati sia con H. neanderthalensis che con H. sapiens.

Specie del genere Homo esistita in Africa tra 1,8 milioni e 900 mila anni fa. Il suo cranio è particolarmente allungato longitudinalmente (lungo l’asse antero-posteriore) e schiacciato lungo l’asse verticale (anche se meno rispetto a H. erectus); presenta un massiccio toro frontale (protuberanza ossea in corrispondenza delle sopracciglia) con forma a “doppio arco”. Il volume del suo cervello è di almeno 850 ml. Ha regolarmente prodotto strumenti litici, dapprima di cosiddetto Modo 1 (o Olduvaiano) consistente nella scheggiatura di una parte di ciottolo per renderlo più affilato, ma anche, dopo 1,5 milioni di anni fa, di Modo 2 (o Acheulano) che consiste in pietre accuratamente scheggiate a forma di mandorla e con evidente simmetria.

Specie del genere Homo esistita in Asia orientale tra 1.8-1.6 milioni di anni fa e 700 o 200 mila anni fa, (spesso considerata la variante Asiatica di H. ergaster). Il suo cranio è particolarmente allungato longitudinalmente (lungo l’asse antero-posteriore) e molto schiacciato lungo l’asse verticale (platicefalo); presenta un massiccio toro frontale (protuberanza ossea in corrispondenza delle sopracciglia) essenzialmente rettilineo. Il volume del suo cervello è di 900-1.150 ml. Ha regolarmente prodotto strumenti in pietra, ma solamente del cosiddetto Modo 1 (o Olduvaiano) consistente nella scheggiatura di una parte di ciottolo per renderlo più affilato. 

Probabilmente il più antico rappresentante del genere Homo, documentato in Africa da almeno 2,1 milioni di anni fa e estintosi intorno a 1,5 milioni di anni fa. Il suo cranio aveva un volume superiore ai 550 ml. È associato con strumenti litici di Modo 1 (o Olduvaiano) consistente nella scheggiatura di una parte di ciottolo per renderlo più affilato. Ha probabilmente “convissuto” con Parantropi e, a partire da 1,8 milioni di anni fa, con H. ergaster

Specie all’interno del genere Homo vissuta in Africa e in Eurasia tra 900-600 mila e circa 300.000 anni fa. Il nome H. rodhesiensis è talvolta riservato alla variante africana. Secondo alcuni studiosi, H. heildebergensis evolverà in H. neanderthalensis in Europa (a partire da 4-500.000 anni fa) e in H. sapiens in Africa (dove sembra scomparire circa 300.000 anni fa). Presenta una forte encefalizzazione (fino a 1.400 ml) e produce stabilmente strumenti litici di Modo 2 (o Acheulano) che consiste in pietre accuratamente scheggiate a forma di mandorla e con evidente simmetria.

Specie del genere Homo esistita in Europa da almeno circa 250.000 anni fa (alcune forme spesso dette “ante-neandertaliane” risalgono 400.000 anni fa o più). Si estingue circa 30.000 anni fa, probabilmente in conseguenza dell’arrivo in Europa di H. sapiens. Il Neanderthal aveva un cervello di volume comparabile a H. sapiens, ma la forma del cranio è allungata e allargata, e non presenta la conformazione “globulare” tipica del sapiens. Produce una varietà di elementi strumentali e culturali; la produzione litica è di Modo 3 (o Musteriano) e sono presenti alcuni elementi indicativi di “simbolicità”, come sepolture e rappresentazioni artistiche. Secondo recenti dati genetici, i Neanderthal sembrano essersi incrociati sia con i Denisoviani che con H. sapiens

Anche detta antropogenesi o evoluzione umana, è l’insieme dei processi che hanno portato alla comparsa della nostra specie, H. sapiens. Questo processo ha portato ad alcune caratteristiche peculiari della nostra specie: il bipedismo obbligato, l’altissimo quoziente di encefalizzazione, il prolungato periodo di sviluppo, la riduzione del dimorfismo sessuale (la differenza morfologica tra maschi e femmine di una stessa specie), la completa opponibilità del pollice (fino a toccare la punta del dito mignolo), la perdita di peli sul corpo, e la preminenza della vista sull’olfatto. Aspetto fondamentale è l’emergere di caratteristiche cognitive superiori (autocoscienza, linguaggio) e l’estensione della cultura e della capacità di accumulazione e trasmissione di innovazioni. Unica della nostra specie è anche la religiosità e la percezione del sacro.

Con questa espressione si indica la specie in comune (e più prossima al presente) tra due specie distinte. Per esempio, il LCA tra H. sapiens e P. troglodythes (lo scimpanzé) è una specie (a noi ignota) vissuta non meno di 5-7 milioni di anni fa, prima della separazione delle linee evolutive dello scimpanzé e dell’uomo; il LCA tra noi e l’orango (Pongo pygmaeus) è una specie vissuta prima della separazione delle linee evolutive dell’orango e dell’uomo, avvenuta tra i 16 e i 13 milioni di anni fa.