Perché la morte?

Giampaolo Ghilardi
Qualsiasi essere vivente ha un ciclo vitale destinato a concludersi, ma solo l’essere umano si interroga sul significato della morte.

La morte si comprende a partire dalla vita, di cui è funzione: non si muore se non si è vivi. Se non si morisse, le generazioni non potrebbero avvicendarsi. Nel caso della società umana questo avrebbe conseguenze evidenti. Sotto il profilo biologico qualsiasi vivente ha un ciclo di vita determinato, programmato dunque per concludersi a determinate condizioni. A differenza delle altre specie animali, per l’essere umano la morte non è un evento solamente biologico. Egli, infatti, si interroga sul senso della vita e della morte, e la morte segna profondamente la sua cultura, fino a poter parlare, nei miti, nella filosofia e nelle religioni, dell'idea di un "oltre la morte", e dunque del concetto di immortalità.

Alcuni filosofi hanno fatto osservare che mentre gli animali periscono, solo gli esseri umani muoiono. Cosa indica questa frase? Qual è la dimensione antropologica della morte?

Una prima differenza tra il morire degli animali e quello degli umani può essere rinvenuta nella coscienza che questi ultimi manifestano nei confronti della propria fine. Anche gli animali, nell’imminenza della propria morte, manifestano una certa qual consapevolezza dell’evento, ma l’essere umano ha una consapevolezza costante circa il proprio destino mortale, lungo tutto l’arco della sua vita. Diversamente da Aristotele, Omero preferisce definire l’uomo come mortale, piuttosto che come essere razionale, perché la mortalità consapevole lo configura più specificatamente. Inoltre, il culto dei morti è una costante antropologica universale. Riti funebri, necropoli e cimiteri sono i lasciti culturali più frequenti delle antiche civiltà, al punto che gli antropologi sono arrivati a sostenere che le civiltà nascono e si identificano proprio a partire dal culto che sviluppano verso i propri morti. Ancora, nel regno animale non assistiamo a un culto per le esequie dei morti.

Queste rapide considerazioni ci permettono di capire che il “morire” e il “sapere di morire” sono due cose diverse: esse costituiscono l’inizio dell’avventura umana nella sua specificità. La morte di per sé è un fatto, ma la coscienza di essa sposta il fatto nell’ambito della sua interpretazione. La domanda sul senso della morte accompagna l’essere umano da sempre e i riti funebri sono i tentativi di risposta approntati dalle diverse civiltà per razionalizzare l’evento della morte. Sotto il profilo antropologico, il fatto stesso che esista un essere vivente in grado di interrogare il senso della morte è un punto essenziale. Il pensiero antico arrivò a dire che la filosofia nasce dalla meditazione sul morire ed essa stessa non è altro che un esercizio di morte. Se dunque l’essere umano si distingue dagli altri esseri per la sua capacità di porre domande, quella sulla morte sarà la prima e più fondamentale domanda a cui dare risposta. Ma prima ancora di valutare la risposta è utile capire che la domanda porta in sé una qualità nuova, inedita nel panorama biologico: la ricerca del senso della propria finitezza e mortalità.

Come è stato affrontato il tema della morte dalle diverse filosofie e religioni? Essa ha una comprensione univoca nelle varie culture?

“Quando ci siamo noi, non c’è la morte”. E viceversa. Con queste celebri parole Epicuro nell’Epistola a Meneceo in qualche modo tenta di esorcizzare la più grande tra le paure umane, quella della morte appunto. L’epicureismo è una dottrina filosofica che si fonda sull’atomismo democriteo, ritiene cioè che i componenti ultimi della realtà siano gli atomi, i punti di materia non ulteriormente riducibili. Una forma di materialismo, dunque; dopo il dissolversi dei composti, anche del corpo quindi, non sopravvive alcunché. Paradossalmente un pensatore assai diverso da Epicuro come Platone, per il quale la realtà ultima delle cose non sono gli atomi ma le idee – idee che persistono dopo la “morte” della materia, anzi vengono liberate dal degrado della materia – giungerà anch’egli a una conclusione molto simile. Paltone saluterà con favore il sopraggiungere della morte, quale evento che finalmente libera l’anima dal carcere corporeo in cui era imprigionata. Materialismo e idealismo in qualche modo convergono, partendo da premesse molto diverse, nel dire che la morte non è una realtà di cui essere spaventati. I primi lo fanno negandole realtà, poiché reale è solo ciò che è materiale, e la morte non è materia; i secondi pure le negano realtà, poiché vero e reale è solo ciò che non muta, e la morte in qualche modo è mutamento. Queste sono le due grandi scuole filosofiche di riferimento che, con infinite variazioni, rappresentano i due atteggiamenti metafisici di fondo rispetto al tema della morte. Il cristianesimo assumerà dal platonismo alcune categorie filosofiche per “pensare” il tema della morte, ma le sottoporrà a significativi mutamenti. A causa della dottrina dell’Incarnazione del Verbo, vero uomo e vero Dio, il corpo umano da prigione diventa realtà vera, apprezzata, consistente. La dottrina della Risurrezione, lungi dallo svalutare la “prigione dell’anima”, rilancia il ruolo essenziale del corpo e della corporeità nella persona umana. Vita mutatur, non tollitur, recita una preghiera cristiana: la vita cambia, non si perde. Questa è in sintesi la verità cristiana sulla morte, che dunque è sì passaggio, ma un passaggio in cui non si perde il punto d’origine, riguadagnandolo in forma gloriosa (risurrezione dei corpi).

La filosofia di ispirazione cristiana sulla morte non svaluta la vita terrena. Il mutamento da questa a una vita futura non è visto come illusione o passaggio, ma come realtà vera e propria. Capovolgendo un certo nichilismo greco, il mutamento non è dunque figura del non essere ma dell’essere, passaggio al suo pieno disvelamento.

Quali sono i modi in cui determinare, dal punto di vista clinico, la morte di un essere umano?

Dal punto di vista clinico, vale a dire quello del medico al letto del paziente, si determina la morte di un essere umano secondo tre criteri principali: quello cardiologico, quello respiratorio e quello neurologico. Essendo la morte l’esito di una complessità di processi, si sono succeduti nella storia della medicina diversi criteri per accertare il verificarsi dell’evento della morte. I criteri sono il frutto sia della scienza medica, che muta con il progredire delle conoscenze scientifiche, sia delle possibilità tecnologiche diverse in ogni epoca, così che se un tempo era sufficiente apporre uno specchietto alla bocca del paziente, per vedere se, appannandosi, questi respirava ancora, avallando così il criterio respiratorio, oggi abbiamo elettrocardiogrammi ed elettroencefalogrammi per verificare le attività cardiache e cerebrali al fine di svolgere lo stesso accertamento. Cuore, polmoni e cervello sono in qualche modo sempre stati riconosciuti come organi particolarmente significativi per valutare il sopraggiungere della morte per il loro particolare valore sistemico. La morte è infatti definita come la cessazione dell’integrità dell’intero organismo, dunque occorre rilevare i segni della cessazione di quest’integrità e pertanto si studiano gli organi che più di altri coordinano, presiedono e sostengono l’organismo nella sua totalità.

Nel 1968 una commissione scientifica legata all’Università di Harvard propose tre criteri di accertamento di morte clinica: il primo, strettamente clinico, l’osservazione di completa assenza di movimento per un’ora; il secondo, apnea di almeno tre minuti; il terzo, assenza di riflessi nervosi (sia cerebrali che spinali), corroborato da elettroencefalogramma piatto. I criteri prevedono di escludere l’ipotermia e l’utilizzo di farmaci che possano alterare i parametri neurologici. Il test va ripetuto dopo 24 ore.

Nel 2012 l’Organizzazione Mondiale della Salute ha specificato ulteriormente la definizione di morte, centrandola ulteriormente sui parametri neurologici e definendola come perdita permanente della capacità di coscienza e delle fondamentali funzioni cerebrali.

Qual è il giudizio della Chiesa cattolica sulla donazione di organi e sui trapianti di organo?

Riguardando la possibilità di salvare vite umane, a partire da quando le tecniche medico-chirurgiche lo hanno permesso, la Chiesa cattolica ha contribuito allo sviluppo di una sensibilità che incoraggiasse la donazione di organi, non ponendo difficoltà di principio al loro trapianto. Già in epoche precedenti, la Chiesa cattolica ha considerato pienamente lecite trasfusioni di sangue, a differenza di altre confessioni religiose che vietano invece tale prassi. Nella enciclica Evangelium vitae (1995) affermava Giovanni Paolo II: «Al di là dei fatti clamorosi, c'è l'eroismo del quotidiano, fatto di piccoli o grandi gesti di condivisione che alimentano un'autentica cultura della vita. Tra questi gesti merita particolare apprezzamento la donazione di organi compiuta in forme eticamente accettabili, per offrire una possibilità di salute e perfino di vita a malati talvolta privi di speranza» (n. 86). Numerosi discorsi dei romani Pontefici ribadiscono la medesima prospettiva, specialmente quelli indirizzati da Giovanni Paolo II alla Transplantation Society.

Esistono tuttavia alcune importanti precisazioni per la liceità dei trapianti di organo. In primo luogo, è necessario l’esplicito consenso del donatore, in quanto nessuno può disporre del corpo di altre persone, e occorre che la donazione non implichi menomazioni né rischi sproporzionati per il donatore. In secondo luogo, è necessario garantire con certezza l’avvenuta morte del donatore prima dell’espianto di organi vitali. In mancanza di dichiarazioni in vita, per la donazione di organi di persone decedute la Chiesa lascia la libertà, a chi ne ha per diritto naturale la corrispondente autorità (genitori, coniugi, etc.), di prendere le corrispondenti decisioni di coscienza, sempre nel rispetto delle leggi giuste vigenti nei diversi Stati. Infine, non tutti gli organi sono eticamente donabili, ma alcuni di essi, come l’encefalo e le ghiandole sessuali, fanno parte della dignità della persona in quanto unica e irripetibile. Per quanto riguarda la valutazione morale circa la volontà di donare o meno i propri organi, la Chiesa incoraggia gesti di generosità, ma non può fornire regole generali, valide per tutti, in quanto solo le persone direttamente coinvolte conoscono tutte le circostanze del caso, compresi eventuali rischi collegati a espianti in vita. Ciascuno è in ogni caso incoraggiato ad agire con prudenza e generosità. I principi morali al riguardo sono riepilogati nella Carta degli operatori sanitari (1995), pubblicata dal Pontificio Consiglio della pastorale per gli operatori sanitari, la quale dedica al tema della “Donazione e trapianto di organi” numerosi punti (cf. nn. 83-91).

Un discorso a parte riguarda invece la produzione in vitro, l’espianto e l’impianto di esseri umani allo stato di embrioni. In questo caso non si tratta di organi appartenenti a esseri umani, ma di esseri umani completi, aventi una propria dignità. In base ad argomenti etici fondati su una ragione condivisa, la Chiesa cattolica ha sostenuto e sostiene la difesa dell’integrità degli embrioni umani. Fra i documenti più importanti al riguardo, le Istruzioni della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) Donum vitae (1987) e Dignitas personae (2008).

Procurare la morte del paziente sofferente può essere considerata parte dell’attività medico-sanitaria? Qual è il giudizio della fede cristiana sulle cure o sull’assistenza da offrire ai malati terminali?

L’attività medico-sanitaria dai suoi albori ha avuto come principio fondante il “primum non nocere” vale a dire, per prima cosa: non recare danno al paziente. Le cure che si possono e devono rivolgere al paziente sofferente nella fase terminale della propria vita sono intese in prima istanza a non nuocergli, dunque a non procurare direttamente la sua morte. Il fine della medicina infatti è il ripristino o la preservazione della salute e in nessuna di queste due finalità rientra il procurare la morte. Può capitare in situazioni di stati avanzati della malattia che le cure cosiddette palliative, vale a dire quelle cure, come la sedazione, che trattano il dolore e la sofferenza connesse con il decorso della malattia, possano accelerare l’avvento della morte, ma in questi casi la morte è l’effetto secondario, seppur previsto. Al contrario, causare direttamente la morte di un paziente, come nel caso dell’eutanasia o del suicidio assistito, non rientra nel perimetro delle attività medico sanitaria, si manifesta piuttosto come la contraddizione esplicita del ruolo che l’arte medica ha svolto nel corso della cultura umana.

La morte è un evento naturale che deve essere riconosciuto come tale, la medicina cerca di curarne/prevenirne le cause, ma non può farlo indefinitamente. Quando cioè l’inevitabile fine vita si approssima, è ragionevole cercare di alleviare le sofferenze che vi si accompagnano, mentre non lo sarebbe tentare di mantenere in vita quanto più possibile il malato. Questo caso andrebbe sotto la categoria dell’accanimento terapeutico, ovvero di quel genere di interventi sproporzionati rispetto alle naturali attese di vita del paziente.

Il principio di proporzionalità della cura è un elemento ricorrente nell’etica medica e può essere suscettibile di diverse interpretazioni, una soggettiva e una oggettiva. Quella soggettiva fa perno sull’autonomia del paziente e il suo diritto a eventualmente non avvalersi di determinati presidi straordinari; quella oggettiva fa invece leva sulle condizioni fisiopatologiche del paziente che determinano il grado di interventi possibili sotto il profilo medico assistenziale.

Quando ci si trova in ambito di cure palliative, il fatto di non poter più intervenire efficacemente sulle cause del morbo non equivale a un abbandono terapeutico, ma è la ricalibrazione delle cure sui sintomi più acuti della malattia. In questo caso è l’agente patogeno la causa prima della morte.

La sacra Scrittura presenta la morte umana come conseguenza di un peccato di origine commesso dall’uomo all’inizio della storia. Come si accorda con la storia naturale, che indica la morte presente già prima della comparsa dell’uomo?

Per il cristianesimo la morte non è l’ultima parola, in quanto parte integrante del Credo cristiano è la risurrezione dei corpi e la vita eterna. La fede cristiana, tuttavia, parla spesso della morte in collegamento con una prova morale che si sostiene i progenitori del genere umano abbiano sostenuto agli albori della loro esistenza sulla terra. La tradizione teologica e la catechesi, fondate sulle narrazioni bibliche della creazione (in particolare il cap. 3 del libro della Genesi), chiamano il fallimento di questa prova “peccato” o anche “caduta” originale. La fiducia nella bontà paterna di Dio viene messa in sospetto e la relazione filiale dell’uomo con Dio incrinata. Con il peccato, afferma la sacra Scrittura, nel mondo entra la morte. Come conseguenza del peccato, mutano le relazioni della creatura umana con Dio, con sé stessa, con gli altri, e quelle fra l’uomo e la donna. Tale “caduta” è stata commentata in diversi modi, anche a seconda dei diversi contesti storici e dottrinali ai quali i teologi si rivolgevano. Per comprendere bene cosa la Chiesa cattolica insegna circa le conseguenze del peccato occorre dirigere l’attenzione, appunto, alle relazioni. Ad esempio, dopo la caduta dei progenitori è la loro relazione con la natura (ambiente, custodia, affidamento) a cambiare, non la natura in sé stessa, le sue leggi fisiche e i suoi processi, che la scienza mostra essere rimasti immutati prima e dopo la comparsa dell’uomo sulla terra. Anche il ciclo vitale degli esseri umani e le loro leggi biologiche sono rimaste tali. Nel panorama dei viventi, la morte biologica esisteva ben prima della comparsa di Homo sapiens, perché legata al ciclo termodinamico di essere vivente in quanto vivente, uomo compreso. Il peccato originale, invece, mutando la relazione fra l’uomo e Dio, ha fatto sì che l’esperienza della morte, la consapevolezza della propria fine biologica, venisse colta con profondo disagio esistenziale, qualcosa che genera paura e incertezza. L’essere umano sperimenta timore di fronte al termine dei propri giorni, perché il peccato originale ha messo in crisi la sua relazione filiale con Dio. La sacra Scrittura impiega una stretta corrispondenza fra morte e peccato, fino a usarli quasi come sinonimi: vuole mettere in luce che l’uomo, senza Dio, muore; vivendo nel peccato e lontano da Dio, l’uomo muore, cioè non è più sé stesso, perché non vive più secondo verità. Secondo la fede cristiana, le relazioni stravolte dal peccato vengono restaurate dalla grazia della redenzione di Gesù Cristo: le relazioni ferite vengono sanate dalla carità. Dove si vive la pienezza dell’amore di Dio, l’esistenza umana può essere vissuta senza paura della vita e della morte, come manifesta ad esempio la biografia di molti santi.

   

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Glossario: 

La morte cerebrale è la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo. Tale condizione è associata a uno stato di coma, senza respirazione spontanea, e alla perdita di tutti i riflessi del tronco encefalico. Questa condizione sopraggiunge quando la lesione cerebrale è talmente grave e vasta da causare la morte del cervello. Possibili cause comprendono l'arresto cardiaco e l'ictus. Più raramente, la morte cerebrale può risultare da gravi traumi alla testa, infezioni dell'encefalo e tumori cerebrali. Affinché il medico possa dichiarare la morte cerebrale, è necessario che la causa metabolica o strutturale del danno al cervello sia nota e sufficiente a spiegare la perdita irreversibile di tutte le funzioni.

Azione od omissione che, per sua natura e nelle intenzioni di chi agisce (eutanasia attiva) o si astiene dall’agire (eutanasia passiva), procura anticipatamente la morte di un malato. In particolare, l’eutanasia è oggettivamente l’uccisione di un soggetto consenziente, in grado di esprimere la volontà di morire. L’uccisione medicalizzata di una persona senza il suo consenso, infatti, non va definita eutanasia, ma omicidio tout court, come nel caso di soggetti che non esprimono la propria volontà o la esprimono in senso contrario.

Atto di chi, in una situazione di sofferenza, intenzionalmente pone termine alla propria vita con l’aiuto di un’altra persona che provvede a fornire i mezzi materiali o le indicazioni utili, o entrambi, per il suicidio. Nel suicidio assistito dal medico è un sanitario che fornisce l’assistenza necessaria a commettere l’atto. Il suicidio assistito differisce, dunque, solo formalmente dall’eutanasia, poiché in entrambi i casi l’intenzione dell’atto e il suo effetto sono i medesimi, cioè la morte della persona.

Articolo presente in tutti i Simboli della fede. Basato sulla risurrezione dai morti di Gesù di Nazaret, vero Dio e vero uomo, il cristianesimo sostiene che “alla fine dei tempi” i corpi risorgeranno in una condizione trasfigurata, corrispondente ai cieli nuovi e alla terra nuova che subentreranno con il compimento della storia, fisica e morale, del cosmo intero. A causa della corruzione dei corpi e della dispersione della materia di cui il corpo umano è composto, a questa risurrezione si attribuisce la qualifica di “nuova creazione”.