Apriamo la Sacra Scrittura: bellezza

Salmo 45 (44)

Chi è “il più bello tra i figli dell’uomo” di cui parla questo salmo, descritto come saggio e prode condottiero dall’aspetto avvenente? La struttura del salmo,composto probabilmente per le nozze di un re, è quella di un inno in onore di uno sposo di grande dignità. La tradizione giudea lo applica alle nozze del Re-Messia con Israele suo popolo, mentre la tradizione cristiana vede in esso il Cristo, sposo della Chiesa. Le tre letture non si escludono, ma ammettono una progressiva inclusione di significati. Gli attributi del “più bello dei figli dell’uomo” non riguardano solo la ricchezza dell’armamento e le virtù che lo rendono grande in guerra, ma fanno riferimento ad una statura morale: egli “cavalca per la causa della verità, della mitezza e della giustizia”, “ama la giustizia e detesta la malvagità”. La sua condizione è quella di un Unto di Dio, un suo consacrato. La seconda parte del Salmo (vv. 11-18) sposta l’attenzione sulla sposa, la regina, di cui si loda la bellezza, che l’incontro con lo sposo sembra onorare e promuovere da un’umile condizione verso una situazione di maggiore dignità. È la condizione creaturale del popolo di Israele e, nel Nuovo Testamento, della Chiesa, condotta in sposa al Cristo. Le ancelle che accompagnano la sposa sono le diverse e tante nazioni che, attraverso il popolo di Israele, e nel Nuovo Testamento attraverso la Chiesa, sono partecipano anch’esse della benedizione divina, vengono evangelizzate e condotte a Dio.

Al maestro del coro. Su "I gigli". Dei figli di Core. Maskil. Canto d'amore.

Liete parole mi sgorgano dal cuore:
io proclamo al re il mio poema,
la mia lingua è come stilo di scriba veloce.

Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo,
sulle tue labbra è diffusa la grazia,
perciò Dio ti ha benedetto per sempre.

O prode, cingiti al fianco la spada,
tua gloria e tuo vanto,
e avanza trionfante.

Cavalca per la causa della verità,
della mitezza e della giustizia.
La tua destra ti mostri prodigi.

Le tue frecce sono acute -
sotto di te cadono i popoli -,
colpiscono al cuore i nemici del re.

Il tuo trono, o Dio, dura per sempre;
scettro di rettitudine è il tuo scettro regale.

Ami la giustizia e la malvagità detesti:
Dio, il tuo Dio, ti ha consacrato
con olio di letizia, a preferenza dei tuoi compagni.

Di mirra, àloe e cassia
profumano tutte le tue vesti;
da palazzi d'avorio ti rallegri
il suono di strumenti a corda.

Figlie di re fra le tue predilette;
alla tua destra sta la regina, in ori di Ofir.

Ascolta, figlia, guarda, porgi l'orecchio:
dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre;

il re è invaghito della tua bellezza.
È lui il tuo signore: rendigli omaggio.

Gli abitanti di Tiro portano doni,
i più ricchi del popolo cercano il tuo favore.

Entra la figlia del re: è tutta splendore,
tessuto d'oro è il suo vestito.

È condotta al re in broccati preziosi;
dietro a lei le vergini, sue compagne,
a te sono presentate;

condotte in gioia ed esultanza,
sono presentate nel palazzo del re.

Ai tuoi padri succederanno i tuoi figli;
li farai prìncipi di tutta la terra.

Il tuo nome voglio far ricordare per tutte le generazioni;
così i popoli ti loderanno in eterno, per sempre.


Sapienza 13,1-9

Scritto in lingua greca, il libro della Sapienza espone i caratteri della Sophia, la sapienza divina che presiede l’ordine della creazione e si manifesta agli uomini nel dono della saggezza e nella bellezza del creato. La pagina che presentiamo è forse l’esempio più noto di un testo biblico che manifesta come dalla considerazione delle realtà create è possibile ascendere al loro Creatore, come si ascende dagli affetti alle cause. In questa linea ascendente un ruolo del tutto particolare lo riveste la bellezza, in modo speciale la bellezza del cielo e degli astri. Questa bellezza ha fatto cadere molti popoli nell’idolatria, ed è ciò che il testo sacro rimprovera. Questi non avrebbero dovuto fermarsi alla bellezza delle creature, adorandole, ma risalire al loro Creatore, perché Autore stesso della bellezza. L’itinerario di ascesa è indicato con la parola greca analoghia, che indica proporzione, rapporto, quasi ad indicare che la deduzione di un Creatore a partire dalle creature è possibile per via filosofico-razionale. Il giudizio nei confronti di chi adora le creature, però, sembra possedere una sfumatura. Coloro che non cedono ad una esplicita scelta idolatrica, ma studiano la natura e sono affascinati dalla sua bellezza godono di una scusante: «Tuttavia per costoro leggero è il rimprovero, perché essi facilmente s'ingannano cercando Dio e volendolo trovare.Vivendo in mezzo alle sue opere, ricercano con cura e si lasciano prendere dall'apparenza perché le cose viste sono belle». È il caso dei ricercatori e degli studiosi, che convergono sul fatto che le realtà naturali sono veramente belle. Ma non bisogna fermarsi ad esse: essi, come tutti, debbono sapersi interrogare anche sulla causa di questa bellezza.

Davvero vani per natura tutti gli uomini
che vivevano nell'ignoranza di Dio,
e dai beni visibili non furono capaci di riconoscere colui che è,
né, esaminandone le opere, riconobbero l'artefice.
Ma o il fuoco o il vento o l'aria veloce,
la volta stellata o l'acqua impetuosa o le luci del cielo
essi considerarono come dèi, reggitori del mondo.
Se, affascinati dalla loro bellezza, li hanno presi per dèi,
pensino quanto è superiore il loro sovrano,
perché li ha creati colui che è principio e autore della bellezza.
Se sono colpiti da stupore per la loro potenza ed energia,
pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati.
Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature
per analogia si contempla il loro autore.
Tuttavia per costoro leggero è il rimprovero,
perché essi facilmente s'ingannano
cercando Dio e volendolo trovare.
Vivendo in mezzo alle sue opere, ricercano con cura
e si lasciano prendere dall'apparenza
perché le cose viste sono belle.
Neppure costoro però sono scusabili,
perché, se sono riusciti a conoscere tanto
da poter esplorare il mondo,
come mai non ne hanno trovato più facilmente il sovrano?


Giuditta 8,4-8e 10,7.12-19

Nell’esporre la vicenda di Giuditta, vedova saggia che libera la città di Betulia, in Israele, dall’assedio di Oloferne, alleato di Nabucodonosor, il testo biblico indugia sulla sua bellezza, impiegata strategicamente per condurre a termine la sua missione. Donna umile e timorata di Dio, Giuditta cura la sua figura e il suo aspetto, facendolo tornare bello e avvenente, per ingannare Oloferne, che guidava l’assedio contro Betulia. La sua bellezza le consente di uscire indisturbata e dirigersi verso l’accampamento nemico chiedendo di conferire con il re e offrirgli collaborazione. Trascorsi alcuni giorni in cui si fa apprezzare per la sua discrezione, e abituati i nemici a vederla uscire a metà della notte per andare a pregare il suo Dio, Giuditta accetta un invito a pranzo da Oloferne, ben conoscendo l’attrazione che il re provava verso di lei. Giuditta gestisce al meglio l’incontro, lasciando che il re ecceda nel bere e nel cibo. Poi, quando restano soli e Oloferne giace ubriaco sul suo letto, Giuditta sfodera la scimitarra di Oloferne e gli taglia la testa, uscendo poi di notte dall’accampamento nemico, come era solita fare. La bellezza di Giuditta, come quella di Ester, viene messa al servizio della liberazione del suo popolo dal potere dei nemici. Al tempo stesso, il testo sacro sembra voler mostrare che la bellezza, in quanto tale, non cessa di possedere una certa ambiguità e può essere fonte di inganno, come in questo caso, seppure a fin di bene.

Giuditta era rimasta nella sua casa in stato di vedovanza ed erano passati già tre anni e quattro mesi. Si era fatta preparare una tenda sul terrazzo della sua casa, si era cinta i fianchi di sacco e portava le vesti della sua vedovanza. Da quando era vedova digiunava tutti i giorni, eccetto le vigilie dei sabati e i sabati, le vigilie dei noviluni e i noviluni, le feste e i giorni di gioia per Israele. Era bella d'aspetto e molto avvenente nella persona; inoltre suo marito Manasse le aveva lasciato oro e argento, schiavi e schiave, armenti e terreni che ora continuava ad amministrare. Né alcuno poteva dire una parola maligna a suo riguardo, perché aveva grande timore di Dio.

Allora uscirono verso la porta della città di Betùlia e trovarono lì presenti Ozia e gli anziani della città, Cabrì e Carmì. 

La fermarono e la interrogarono: "Di quale popolo sei, da dove vieni e dove vai?". Rispose: "Sono figlia degli Ebrei e fuggo da loro, perché stanno per esservi consegnati per essere divorati. Io quindi vengo alla presenza di Oloferne, comandante supremo dei vostri eserciti, per dargli delle informazioni sicure e mettergli sotto gli occhi la strada per cui potrà passare e impadronirsi di tutti questi monti senza che perisca uno solo dei suoi uomini". Quegli uomini, quando sentirono queste parole e considerarono l'aspetto di lei, che appariva loro come un miracolo di bellezza, le dissero: "Hai messo in salvo la tua vita, affrettandoti a scendere alla presenza del nostro signore. Vieni dunque alla tenda di lui; alcuni di noi ti accompagneranno, finché non ti abbiano affidato alle sue mani. Quando poi sarai alla sua presenza, non temere in cuor tuo, ma riferisci a lui quanto ci hai detto ed egli ti tratterà bene".
Scelsero pertanto cento uomini tra loro, i quali si affiancarono a lei e alla sua ancella e le condussero alla tenda di Oloferne. In tutto il campo ci fu un grande accorrere, essendosi sparsa la voce del suo arrivo tra gli attendamenti. Una volta sopraggiunti, la circondarono in massa mentre era fuori della tenda di Oloferne, in attesa di essere annunciata a lui. 19Erano ammirati della sua bellezza e ammirati degli Israeliti a causa di lei e si dicevano l'un l'altro: "Chi disprezzerà un popolo che possiede tali donne? Sarà bene non lasciarne sopravvivere neppure uno, perché se fossero risparmiati sarebbero capaci di ingannare tutto il mondo".


Siracide 43, 9-18 e 27-33

È frequente trovare nei libri sapienziali delle pagine che lodano Dio attraverso la bellezza del creato. Ne parlano molti Salmi, vari capitoli del Libro di Giobbe, parti significative dei libri dei Proverbi e della Sapienza. Il libro del Siracide contiene un breve trattato che espone la gloria di Dio nella natura (Sir 42,15 - 43,1-33) e poi, a seguire, nella storia (capp. 44-50). I versetti che proponiamo provengono dalla prima parte di questo trattato. Il testo sacro esprime un’interessante consapevolezza, quella che la sapienza creatrice è superiore ad ogni analisi e lode umana, la trascende. L’espressione “Egli è il tutto” (v. 27), non avvalla una prospettiva panteista ma vuole solo indicare che la sapienza divina abbraccia l’intero cosmo, nulla resta fuori l’influenza causale ed esemplare di Dio. Descrivere le opere del Signore sarebbe un processo infinito (cf. vv. 27 e 30). Di fatto – osserva l’Autore del testo –, la conoscenza umana può osservare e raggiungere solo una piccola parte di quanto esiste ed è uscito dalle mani di Dio: «Vi sono molte cose più grandi di queste: noi contempliamo solo una parte delle sue opere» (v. 32).

Bellezza del cielo è la gloria degli astri,
ornamento che brilla nelle altezze del Signore.
Stanno agli ordini di colui che è santo, secondo il suo decreto,
non abbandonano le loro postazioni di guardia.
Osserva l'arcobaleno e benedici colui che lo ha fatto:
quanto è bello nel suo splendore!
Avvolge il cielo con un cerchio di gloria,
lo hanno teso le mani dell'Altissimo.

Con il suo comando fa cadere la neve
e fa guizzare i fulmini secondo il suo giudizio:
14per esso si aprono i tesori celesti
e le nubi volano via come uccelli.
Con la sua potenza egli condensa le nuvole
e si sminuzzano i chicchi di grandine.
Il rumore del suo tuono fa tremare la terra,
16e al suo apparire sussultano i monti;
secondo il suo volere soffia lo scirocco,
così anche l'uragano del settentrione e il turbine dei venti.
Egli sparge la neve come uccelli che discendono,
come locusta che si posa è la sua caduta.
L'occhio ammira la bellezza del suo candore
e il cuore stupisce nel vederla fioccare.


Matteo 17,1-8

L’episodio della Trasfigurazione di Gesù di Nazaret, riportato dai tre vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca) e richiamato da un suo testimone oculare nella Seconda Lettera di Pietro (cf. 2Pt 1,17-18), presenta tratti comuni al linguaggio religioso di tutti i tempi. Di fronte alla manifestazione del divino, l’essere umano sperimenta sempre una duplice reazione di timore e di attrazione. Il divino si manifesta all’uomo come tremendum et fascinans. Essere vicini a Dio spaventa, ma è bello. I discepoli «caddero con la faccia a terra furono presi da gran timore», ma al tempo stesso, per bocca di Pietro affermano: «Signore, è per noi bello essere qui!». La bellezza di Dio e dello stare con Dio ritorna nelle pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento. Il Dio di Israele non si vede, ma si sperimentano gli effetti della sua presenza. Dio fatto uomo, il Figlio inviato dal Padre, ha il volto bello della sua vera umanità, un volto che la tradizione e l’arte cristianehanno presentato lungo i secoli. Bellezza in occasioni nascosta, come nel volto sofferente di Gesù durante la passione. Resta comunque il dato, per il senso religioso di tutti i tempi, che il divino possiede una dimensione estetica intrinseca, rivelatrice in qualche modo dell’essenza di Dio. Esiste pertanto una “teologia della bellezza”, che viene sviluppata in ambito classico parlando del pulchrumcome trascendentale che conduce a Dio (Tommaso d’Aquino), e in ambito contemporaneo, parlando della bellezza come forma e figura della rivelazione divina (Hans Urs von Baltahsar).

 
Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: "Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia". Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: "Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo". All'udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: "Alzatevi e non temete". Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.