Identità locale e apertura universale

Ogni essere umano, ma anche ogni Paese, ogni cultura, ogni popolo, possiede una propria identità, frutto della storia e della tradizione, consolidata dalla stessa vita. Eppure, questa identità non può venire issata come difesa contro l’altro, perché l’identità di ciascuno è parte di un’identità ancora più grande, che ci accomuna tutti, quella di essere tutti fratelli. È questo il titolo che papa Francesco ha voluto dare a un’importante enciclica pubblicata nel 2020, dedicata alla fraternità e all’amicizia sociale. «La fraternità universale e l’amicizia sociale all’interno di ogni società – afferma Francesco – sono due poli inseparabili e coessenziali. Separarli conduce a una deformazione e a una polarizzazione dannosa». I diversi Paesi del mondo devono pensare non solo come Paese, ma anche come famiglia umana: questa capacità è strategica, si afferma, e ciò si dimostra specialmente nei periodi critici. È vero, non c’è dialogo con l’altro senza identità personale; d è anche vero che non potrebbe esservi amore e rispetto per i popoli se non a partire dall’amore alla propria terra e alla propria cultura. Non ci si può incontrare con l’altro se non si possiede una identità nella quale ciascuno è saldo e radicato, perché è sulla base di questa identità culturale e sociale che si può accogliere l’altro e offrirgli qualcosa di autentico. Afferma papa Francesco: «una sana apertura non si pone mai in contrasto con l’identità. Infatti, arricchendosi con elementi di diversa provenienza, una cultura viva non ne realizza una copia o una mera ripetizione, bensì integra le novità secondo modalità proprie». Dal modo in cui sapremo armonizzare identità locale e apertura universale, ci segnala il Magistero della Chiesa, dipende buona parte del futuro dell’intera umanità.

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Papa Francesco a Lampedusa durante il suo primo viaggio da pontefice (2013)

30. Nel mondo attuale i sentimenti di appartenenza a una medesima umanità si indeboliscono, mentre il sogno di costruire insieme la giustizia e la pace sembra un’utopia di altri tempi. Vediamo come domina un’indifferenza di comodo, fredda e globalizzata, figlia di una profonda disillusione che si cela dietro l’inganno di una illusione: credere che possiamo essere onnipotenti e dimenticare che siamo tutti sulla stessa barca. Questo disinganno, che lascia indietro i grandi valori fraterni, conduce «a una sorta di cinismo. Questa è la tentazione che noi abbiamo davanti, se andiamo per questa strada della disillusione o della delusione. […] L’isolamento e la chiusura in se stessi o nei propri interessi non sono mai la via per ridare speranza e operare un rinnovamento, ma è la vicinanza, è la cultura dell’incontro. L’isolamento, no; vicinanza, sì. Cultura dello scontro, no; cultura dell’incontro, sì».[1]

31. In questo mondo che corre senza una rotta comune, si respira un’atmosfera in cui «la distanza fra l’ossessione per il proprio benessere e la felicità dell’umanità condivisa sembra allargarsi: sino a far pensare che fra il singolo e la comunità umana sia ormai in corso un vero e proprio scisma. […] Perché una cosa è sentirsi costretti a vivere insieme, altra cosa è apprezzare la ricchezza e la bellezza dei semi di vita comune che devono essere cercati e coltivati insieme».[2] La tecnologia fa progressi continui, ma «come sarebbe bello se alla crescita delle innovazioni scientifiche e tecnologiche corrispondesse anche una sempre maggiore equità e inclusione sociale! Come sarebbe bello se, mentre scopriamo nuovi pianeti lontani, riscoprissimo i bisogni del fratello e della sorella che mi orbitano attorno!».[3]

[…]

141. La vera qualità dei diversi Paesi del mondo si misura da questa capacità di pensare non solo come Paese, ma anche come famiglia umana, e questo si dimostra specialmente nei periodi critici. I nazionalismi chiusi manifestano in definitiva questa incapacità di gratuità, l’errata persuasione di potersi sviluppare a margine della rovina altrui e che chiudendosi agli altri saranno più protetti. L’immigrato è visto come un usurpatore che non offre nulla. Così, si arriva a pensare ingenuamente che i poveri sono pericolosi o inutili e che i potenti sono generosi benefattori. Solo una cultura sociale e politica che comprenda l’accoglienza gratuita potrà avere futuro.

142. Va ricordato che «tra la globalizzazione e la localizzazione si produce una tensione. Bisogna prestare attenzione alla dimensione globale per non cadere in una meschinità quotidiana. Al tempo stesso, non è opportuno perdere di vista ciò che è locale, che ci fa camminare con i piedi per terra. Le due cose unite impediscono di cadere in uno di questi due estremi: l’uno, che i cittadini vivano in un universalismo astratto e globalizzante, […]; l’altro, che diventino un museo folkloristico di "eremiti" localisti, condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini».[4] Bisogna guardare al globale, che ci riscatta dalla meschinità casalinga. Quando la casa non è più famiglia, ma è recinto, cella, il globale ci riscatta perché è come la causa finale che ci attira verso la pienezza. Al tempo stesso, bisogna assumere cordialmente la dimensione locale, perché possiede qualcosa che il globale non ha: essere lievito, arricchire, avviare dispositivi di sussidiarietà. Pertanto, la fraternità universale e l’amicizia sociale all’interno di ogni società sono due poli inseparabili e coessenziali. Separarli conduce a una deformazione e a una polarizzazione dannosa.

143. La soluzione non è un’apertura che rinuncia al proprio tesoro. Come non c’è dialogo con l’altro senza identità personale, così non c’è apertura tra popoli se non a partire dall’amore alla terra, al popolo, ai propri tratti culturali. Non mi incontro con l’altro se non possiedo un substrato nel quale sto saldo e radicato, perché su quella base posso accogliere il dono dell’altro e offrirgli qualcosa di autentico. È possibile accogliere chi è diverso e riconoscere il suo apporto originale solo se sono saldamente attaccato al mio popolo e alla sua cultura. Ciascuno ama e cura con speciale responsabilità la propria terra e si preoccupa per il proprio Paese, così come ciascuno deve amare e curare la propria casa perché non crolli, dato che non lo faranno i vicini. Anche il bene del mondo richiede che ognuno protegga e ami la propria terra. Viceversa, le conseguenze del disastro di un Paese si ripercuoteranno su tutto il pianeta. Ciò si fonda sul significato positivo del diritto di proprietà: custodisco e coltivo qualcosa che possiedo, in modo che possa essere un contributo al bene di tutti.

144. Inoltre, questo è un presupposto degli interscambi sani e arricchenti. L’esperienza di vivere in un certo luogo e in una certa cultura è la base che rende capaci di cogliere aspetti della realtà, che quanti non hanno tale esperienza non sono in grado di cogliere tanto facilmente. L’universale non dev’essere il dominio omogeneo, uniforme e standardizzato di un’unica forma culturale imperante, che alla fine perderà i colori del poliedro e risulterà disgustosa. È la tentazione che emerge dall’antico racconto della torre di Babele: la costruzione di una torre che arrivasse fino al cielo non esprimeva l’unità tra vari popoli capaci di comunicare secondo la propria diversità. Al contrario, era un tentativo fuorviante, nato dall’orgoglio e dall’ambizione umana, di creare un’unità diversa da quella voluta da Dio nel suo progetto provvidenziale per le nazioni (cfr Gen 11,1-9).

145. C’è una falsa apertura all’universale, che deriva dalla vuota superficialità di chi non è capace di penetrare fino in fondo nella propria patria, o di chi porta con sé un risentimento non risolto verso il proprio popolo. In ogni caso, «bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia. […] Non è né la sfera globale che annulla, né la parzialità isolata che rende sterili»[5], è il poliedro, dove, mentre ognuno è rispettato nel suo valore, «il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma».[6]

146. Ci sono narcisismi localistici che non esprimono un sano amore per il proprio popolo e la propria cultura. Nascondono uno spirito chiuso che, per una certa insicurezza e un certo timore verso l’altro, preferisce creare mura difensive per preservare sé stesso. Ma non è possibile essere locali in maniera sana senza una sincera e cordiale apertura all’universale, senza lasciarsi interpellare da ciò che succede altrove, senza lasciarsi arricchire da altre culture e senza solidarizzare con i drammi degli altri popoli. Tale localismo si rinchiude ossessivamente tra poche idee, usanze e sicurezze, incapace di ammirazione davanti alle molteplici possibilità e bellezze che il mondo intero offre e privo di una solidarietà autentica e generosa. Così, la vita locale non è più veramente recettiva, non si lascia più completare dall’altro; pertanto, si limita nelle proprie possibilità di sviluppo, diventa statica e si ammala. Perché, in realtà, ogni cultura sana è per natura aperta e accogliente, così che «una cultura senza valori universali non è una vera cultura».[7]

147. Riscontriamo che una persona, quanto minore ampiezza ha nella mente e nel cuore, tanto meno potrà interpretare la realtà vicina in cui è immersa. Senza il rapporto e il confronto con chi è diverso, è difficile avere una conoscenza chiara e completa di sé stessi e della propria terra, poiché le altre culture non sono nemici da cui bisogna difendersi, ma sono riflessi differenti della ricchezza inesauribile della vita umana. Guardando sé stessi dal punto di vista dell’altro, di chi è diverso, ciascuno può riconoscere meglio le peculiarità della propria persona e della propria cultura: le ricchezze, le possibilità e i limiti. L’esperienza che si realizza in un luogo si deve sviluppare “in contrasto” e “in sintonia” con le esperienze di altri che vivono in contesti culturali differenti.[8]

148. In realtà, una sana apertura non si pone mai in contrasto con l’identità. Infatti, arricchendosi con elementi di diversa provenienza, una cultura viva non ne realizza una copia o una mera ripetizione, bensì integra le novità secondo modalità proprie. Questo provoca la nascita di una nuova sintesi che alla fine va a beneficio di tutti, poiché la cultura in cui tali apporti prendono origine risulta poi a sua volta alimentata. Perciò ho esortato i popoli originari a custodire le loro radici e le loro culture ancestrali, ma ho voluto precisare che non era «mia intenzione proporre un indigenismo completamente chiuso, astorico, statico, che si sottragga a qualsiasi forma di meticciato», dal momento che «la propria identità culturale si approfondisce e si arricchisce nel dialogo con realtà differenti e il modo autentico di conservarla non è un isolamento che impoverisce».[9] Il mondo cresce e si riempie di nuova bellezza grazie a successive sintesi che si producono tra culture aperte, fuori da ogni imposizione culturale.

149. Per stimolare un rapporto sano tra l’amore alla patria e la partecipazione cordiale all’umanità intera, conviene ricordare che la società mondiale non è il risultato della somma dei vari Paesi, ma piuttosto è la comunione stessa che esiste tra essi, è la reciproca inclusione, precedente rispetto al sorgere di ogni gruppo particolare. In tale intreccio della comunione universale si integra ciascun gruppo umano e lì trova la propria bellezza. Dunque, ogni persona che nasce in un determinato contesto sa di appartenere a una famiglia più grande, senza la quale non è possibile avere una piena comprensione di sé.

150. Questo approccio, in definitiva, richiede di accettare con gioia che nessun popolo, nessuna cultura o persona può ottenere tutto da sé. Gli altri sono costitutivamente necessari per la costruzione di una vita piena. La consapevolezza del limite o della parzialità, lungi dall’essere una minaccia, diventa la chiave secondo la quale sognare ed elaborare un progetto comune. Perché «l’uomo è l’essere-limite che non ha limite».[10]

 

[1] Discorso al mondo della cultura, Cagliari, 22 settembre 2013, in L’Osservatore Romano, 23-24 settembre 2013, p. 7.
[2] Humana communitas. Lettera al Presidente della Pontificia Accademia per la Vita in occasione del XXV anniversario della sua istituzione, 6 gennaio 2019, L’Osservatore Romano, 16 gennaio 2019, pp. 6-7.
[3] Videomessaggio al TED2017 di Vancouver, 26 aprile 2017, in L’Osservatore Romano, 27 aprile 2017, p. 7.
[4] Esort. ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, n. 234
[5] Ibid., n. 235.
[6] Ibid.
[7] Giovanni Paolo II, Discorso ai rappresentanti del mondo della cultura argentina, Buenos Aires, 12 aprile 1987, 4, in L’Osservatore Romano, 14 aprile 1987, p. 7.

[8] CfrGiovanni Paolo II, Discorso ai Cardinali, 21 dicembre 1984, n. 4.
[9] Esort. ap. Querida Amazonia, 2 febbraio 2020, n. 37.
[10] Georg Simmel, Brücke und Tür. Essays des Philosophen zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft, Köhler-Verlag, Stuttgart 1957, p. 6 (ed. it. Ponte e porta, in Saggi di estetica, a cura di M. Cacciari, Liviana, Padova 1970, p. 8).

Francesco, Lettera enciclica Fratelli tutti sulla fraternità e l’amicizia sociale, 3 ottobre 2020, nn. 30-31, 141-150.