Biologia

Anno di redazione
2002

I. L’oggetto della biologia ed i suoi aspetti interdisciplinari - II. Le origini della biologia moderna - III. La natura vivente: insufficienza della prospettiva riduzionista - IV. Biologia e informazione - V. L’enigma dell’origine della vita sulla terra - VI. Biologia e natura dell’essere umano.

I. L’oggetto della biologia ed i suoi aspetti interdisciplinari

Con il termine «biologia » (gr. bíos, vita e lógos, discorso) si indica l’insieme delle scienze naturali che si occupano degli esseri viventi. Questo campo del sapere, con il progredire delle conoscenze, è andato lentamente acquistando una sua sistemazione concettuale ed una propria specializzazione nella ricerca, secondo le caratteristiche molto particolari del fenomeno della vita. La vita, come fenomeno naturale, si presenta con una tipica complessità delle sue strutture, che emerge in modo imprevedibile dai suoi componenti atomici. La complessità non consiste solo nell’accrescersi delle dimensioni del sistema fisico e chimico che si organizza in forma vivente; ma implica, e richiede che vengano applicati nel suo studio, paradigmi interpretativi allargati ed appropriati. La moderna indagine scientifica biologica ha condiviso rigorosamente con le altre scienze della natura i canoni fondamentali del metodo sperimentale, ma si è modellata attorno ad alcune idee particolari, sorte e sviluppatesi nel proprio ambito. Si possono citare ad esempio le idee di organismo, di metabolismo, di regolazione, di evoluzione; ed ancora, in tempi più recenti, di informazione genetica. A seconda della specificità e dei “livelli” di struttura considerati — tra essi si possono menzionare il livello “molecolare”, quello “cellulare”, quello “organismico” e quello “ecosistemico” — le scienze biologiche si sono differenziate in numerose discipline, ormai ben caratterizzate e consolidate.

La biologia, va ricordato, non è tuttavia l’unico campo del sapere ad occuparsi della vita. Quest’ultima è oggetto anche della filosofia, che ne coglie degli aspetti che il formalismo e la riduttività del metodo sperimentale possono affrontare solo parzialmente. Quanto poi attiene alla vita umana è oggetto delle scienze dette appunto “umane”: alcune di esse pongono l’accento sull’uomo in quanto “vivente” e mantengono pertanto una certa relazione con il metodo delle scienze naturali.

Sotto il profilo interdisciplinare e dei rapporti con il pensiero filosofico e religioso, la biologia è stata ed è tuttora terreno di confronto e di dibattito, molto spesso con la mediazione della visione filosofica degli stessi protagonisti delle sue ricerche. Una volta compresa l’organizzazione delle strutture fondamentali della vita e descritte in modo sufficientemente accurato le principali attività di un organismo in termini di processi biochimici, si è fatta strada la domanda sulla praticabilità o meno di una “visione riduzionista del vivente”. In tempi recenti vi sono stati tentativi di offrire una interpretazione, attraverso le sole scienze biologiche, anche di aspetti della vita umana relativi ai valori, quali l’altruismo, o perfino l’amore, proponendone letture funzionaliste od evoluzionistiche, allo scopo di ricondurne l’intera fenomenologia in una logica di sopravvivenza della specie. Uno specifico terreno di dibattito è stato quello delle neuroscienze, in modo particolare il tema del rapporto mente-corpo.

Non senza una certa enfasi attribuitale dalla divulgazione scientifica, solleva un notevole interesse anche la discussione sull’origine della vita. In ambito etico, infine, la biologia è stata recentemente chiamata ad un confronto con la filosofia su alcune questioni riguardanti la ecologia, ma soprattutto la bioetica. La possibilità di intervento sul patrimonio genetico degli esseri viventi mediante la ingegneria genetica e le sperimentazioni sull’essere umano nelle prime fasi del suo sviluppo, sembrano oggi mostrare la necessità di accostare il dato scientifico ad una specifica concezione della vita, dell’essere vivente, e in particolare dell’essere umano.

    

II. Le origini della biologia moderna

Nelle culture più antiche lo studio degli esseri viventi rientrava in modelli del sapere caratterizzati, da un lato da interpretazioni inclini al mito e non di rado alla magia, dall’altro da esigenze e mentalità strettamente pratiche e tecniche, indirizzate specialmente all’agricoltura e alla medicina. Se nel primo caso si vedeva nella vita qualcosa che apparteneva alla sfera del divino, e quindi da trattare con venerazione, nel secondo si riconosceva in essa un dono da conservare e da accrescere. Nei secoli precedenti l’era cristiana, sembra difficile riferirsi a vere e proprie scienze biologiche, nel senso di scienze pure della vita, demarcabili cioè all’interno dei contesti più vasti della filosofia della natura e della stessa teologia (qui considerata nel suo senso più ampio). Ciò in certo modo vale anche nell’età classica greco-romana, purché si tenga conto che nella cultura ellenica era apparsa, ed era fiorita, quella razionalità dello scire per causas fondatrice di un nuovo tipo di conoscenza, cui vanno assegnati i caratteri di un sapere non solo filosofico, ma in qualche misura anche scientifico.

Pur nell’assenza di una autentica biologia scientifica, nell’antichità non mancano opere fondamentali di contenuto biologico, che hanno esercitato per secoli la loro influenza sulla cultura umana. Valga per tutte il grande Corpus Hippocraticum, una sessantina di opere in dialetto ionico, databili dalla metà del V a tutto il IV sec. a.C., che contengono le conoscenze medico-biologiche note come medicina di Ippocrate. Tra le figure rilevanti nella biologia antica, oltre a quella di Ippocrate, spicca quella di Aristotele (384-322 a.C.). Il grande filosofo fu anche, come è noto, un attento studioso della natura, che seppe accostarsi alle caratteristiche dei viventi con un metodo osservativo e sistematico che superava le impostazioni, principalmente deduttive, del pensiero presocratico e platonico. Interrogatosi per primo sul motivo delle differenze e sulle relazioni fra i vari esseri viventi, Aristotele si occupa di fornire loro un’accurata classificazione, le cui basi saranno destinate a durare assai a lungo. Egli dedica esplicitamente allo studio dei viventi una Storia degli animali, oltre ad altre tre opere specifiche come Le parti degli animali, Il moto degli animali e La generazione degli animali, giungendo a menzionarne circa seicento specie diverse, anche estranee alla geografia in cui operò, ma delle quali venne a conoscenza, assai probabilmente, grazie all’espansione ellenica realizzatasi con Alessandro Magno (356-323 a.C.), di cui Aristotele fu maestro e precettore. Fino a tempi abbastanza recenti, criterio fondamentale di ordinamento nella sconcertante diversità degli innumerevoli organismi viventi è stata la forma esterna (morfologia): piante ed animali venivano raggruppati in base alla maggiore o minore omogeneità delle loro strutture. Aristotele, tuttavia, incluse tra i criteri anche aspetti funzionali: come egli scrisse, «gli animali si possono differenziare secondo il modo di vita, le attività, il carattere e le parti». Nella sua classificazione degli animali, infatti, entrò largamente anche la descrizione dei loro ambienti di vita e dei loro comportamenti. Nel medioevo e nel rinascimento i criteri aristotelici erano ancora pienamente accettati. Ad essi erano ispirati i vari “erbari” e “bestiari” che descrivevano le molteplici forme della natura vivente, dividendola nei due grandi “regni” delle piante (botanica) e degli animali (zoologia), ai quali si aggiungeva il terzo regno, non vivente, dei minerali.

Nel passaggio fra rinascimento ed epoca moderna, allo svilupparsi di una mentalità sempre più genuinamente scientifica, nel senso contemporaneo del temine, si accompagna il rafforzarsi di una idea di fondo, quella della “regolarità della natura”, che vale anche, anzi soprattutto, per gli esseri viventi. Prima che la prospettiva dell’evoluzione, a partire da Lamarck, e poi con Wallace e Darwin, introduca nel XIX secolo nuove chiavi di lettura, la morfologia dei viventi viene interpretata in modo ordinato e armonico, secondo l’idea di gradini di una scala ascendente che, dagli organismi più semplici, conduce fino all’uomo. Da menzionare, sotto questo aspetto, gli scritti di Andrea Cesalpino (1519-1603), filosofo, fisiologo e botanico, che cercò di fondare razionalmente un “sistema della natura” rispondente alla “lunga catena dell’essere”, e, più tardi, la grande opera sistematica del naturalista svedese Carlo Linneo (1707-1778), che pubblicò nel 1735, a Leida, il suo Systema Naturae, sive regna tria Naturae systematice proposita per classes, ordines, genera et species. Linneo propose anche una nomenclatura razionale, in latino, che viene usata ancora oggi, con le dovute variazioni ed estensioni. Erano ormai evidenti le relazioni proprie e caratteristiche che legano tra loro tutti gli esseri viventi, e che li distinguono da quelli non viventi. Ma fino a tutto il Settecento non si poteva ancora parlare di una biologia scientifica, come settore del sapere ben definito e riconoscibile. Basti pensare che il termine non compariva ancora nell’ambito dell’insegnamento della medicina: nella Exortatio iniziale del Regimen Sanitatis della grande Scuola Medica di Salerno si poteva infatti leggere la devota e solenne dichiarazione Testatur Sapiens quod Deus Omnipotens fundavit Physicam (Il Sapiente attesta che è stato Dio Onnipotente a fondare la Physica) dove con il termine Physica si comprendevano tutte le discipline medico-biologiche, nonché le altre scienze naturali e la filosofia della natura. La parola «Biologia» comparirà per la prima volta sul finire del XVIII secolo nei lavori di Burdach e Bichat, per venire introdotta poi autorevolmente nel 1802 dal naturalista tedesco Gottfried Treviranus (1776-1837) nella sua opera Biologie oder Philosophie der lebenden Natur für Naturforscher und Aertze (Biologia, ovvero filosofia della natura vivente per naturalisti e medici). Ma la costituzione di vere scienze biologiche, metodologicamente fondate su canoni scientifici, si avrà solo verso la metà del secolo XIX.

Uno dei punti più significativi dello sviluppo della biologia nell’Ottocento fu l’elaborazione della “teoria cellulare”. Questa teoria afferma che tutti gli organismi viventi si compongono di «cellule», che ne costituiscono le unità fondamentali di struttura e di funzione. L’esistenza delle cellule era stata individuata grazie alla scoperta del microscopio ottico: con la teoria cellulare esse furono riconosciute come le strutture minime nella quali si manifesta il fenomeno della vita, presenti in tutti gli esseri che possono essere detti “viventi”. L’affermazione di questa teoria fu dovuta a scienziati che operarono in numerosi Laboratori centroeuropei e che fondarono la struttura portante della biologia sperimentale moderna. Fra essi spicca il nome di Rudolf Virchow (1821-1902), al quale si deve un basilare enunciato della biologia scientifica: Omnis cellula e cellula (ogni cellula nasce da una cellula). Fra l’altro, Virchow è stato anche autore di una Fisiologia patologica, un’opera che unificava, nella sua concezione delle scienze della vita, la sanità e la malattia.

L’Ottocento fu un secolo di grande sviluppo della biologia per molti aspetti: in quegli anni si affermò infatti anche la teoria della evoluzione biologica. Con essa si diede avvio ad un modo nuovo e profondamente innovativo di interpretare l’architettura degli esseri viventi e le ragioni della loro struttura. L’unità del mondo vivente ne viene rafforzata, chiarendo su quali basi si possa affermare che tutti i viventi sono imparentati tra loro. È noto che la teoria dell’evoluzione, indipendentemente dalla discussione sui meccanismi che ne sono responsabili — discussione tutt’oggi ancora aperta — suscitò sul piano interdisciplinare e culturale vivaci dibattiti filosofici e religiosi, specie nell’interpretazione che Charles Darwin (1809-1882) ne diede nella sua opera L’Origine delle specie per selezione naturale o la preservazione delle razze privilegiate nella lotta per la vita (1859).

Altri aspetti della biologia che nell’Ottocento, e poi per tutto il Novecento, ebbero grandi sviluppi furono quelli che riguardavano la trasmissione dei caratteri ereditari, in particolare al “livello molecolare”. Nel 1865 si ebbe la pubblicazione delle Ricerche su ibridi di piante da parte di Gregor Mendel (1822-1884), e nel 1868 la scoperta dell’acido deossiribonucleico (DNA) come componente cellulare ad opera di Johann F. Miescher (1844-1895); ma i due eventi furono del tutto scollegati. Mendel ignorava completamente le strutture cellulari e molecolari portatrici dei “fattori” ereditari, discreti e ricombinabili, che egli aveva riconosciuto in base alla trasmissione di caratteri biologici macroscopici, e che trattava come entità del tutto teoriche del suo grande modello. Miescher, d’altra parte, era un chimico che non aveva alcuna idea delle funzioni biologiche del suo acido nucleico. La confluenza tra genetica e biochimica avvenne quasi un secolo più tardi, quando già entrambe queste scienze biologiche si erano grandemente sviluppate. Il momento di svolta, e di incontro, al livello del campo di ricerche cui in generale viene dato il nome di «biologia molecolare», fu intorno al 1944, quando il DNA venne riconosciuto da O. Avery (1877-1955), e poi dalla intera comunità scientifica, come materiale genetico primario. Di esso, e della sua struttura come “biomolecola informazionale”, si parlerà ancora più avanti (vedi infra, IV). Aggiungiamo qui che nel 1953 James Watson e Francis Crick pubblicarono il loro famoso lavoro sulla doppia elica del DNA, nel quale viene proposto il modello strutturale e funzionale di questa macromolecola fondamentale per la biologia.

    

III. La natura vivente: insufficienza della prospettiva riduzionista

1. Azione del paradigma riduzionista. Fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, l’atteggiamento di molti filosofi e ricercatori di fronte alla natura vivente sembrava avviato all’assunzione di un riduzionismo severo ed assoluto per tutta la scienza: la fisica e l’elaborazione matematica dovevano costituire il modello generale di procedura per qualsiasi tipo di ricerca naturale, e l’intera scienza andava rigorosamente unificata su tale modello. Sebbene non fosse condiviso da tutti i biologi, il riduzionismo ha comunque potuto elaborare un suo programma teorico, molto diffuso. La sua applicazione, corrente e concreta, consisteva essenzialmente in questo: essendosi identificata una scala delle strutture viventi su diversi “livelli”, la spiegazione di ciascuna struttura andava posta esclusivamente — senza residui — nelle strutture dei livelli sottostanti, secondo un principio di causalità “verso l’alto” (bottom-up causality). Il mondo vivente — hanno sostenuto a lungo, ed in parte ancora sostengono, coloro che condividono tale visione — deve essere studiato e compreso riducendolo completamente alle sue “particelle fondamentali”: e la sua spiegazione deve seguire una linea di causalità dal microscopico al macroscopico, includendo ovviamente con gli esseri viventi anche gli esseri umani e tutto il loro mondo di relazioni.

Non può sfuggire che, con tale modo di procedere, ciò che chiamiamo “vivente” tende, come tale, a divenire irriconoscibile e a svanire. Essendo gli organismi viventi costituiti di atomi, ogni spiegazione dovrebbe essere ridotta esclusivamente a moti di particelle atomiche, descritti da un’equazione fisica generale: dal punto di vista causale, tutto il resto sarebbe ininfluente. All’osservazione che non possediamo alcuna equazione generale di questo tipo, chi condivide la filosofia riduzionista replica che è solo questione di tempo. A questo tipo di posizione filosofica Karl Popper (1902-1994) ha dato il nome di «materialismo promissorio» (promissory materialism), per mostrare che esso, in realtà, non è criticamente fondato nel presente ma si nutre di una fiducia riposta nel futuro (cfr. L’io e il suo cervello, Roma 1981, vol. I, p. 122). Il fatto che nel passaggio tra i vari ordini o livelli di fenomeni naturali non vengano messe in evidenza contraddizioni di fondo non vuol dire che tra essi vi sia una necessaria identità, né che la spiegazione di tutto il reale vada cercata in un’unica equazione della fisica: vuol dire solo che vi è compatibilità tra i modelli che li descrivono. Il riduzionismo, pertanto, dovrebbe essere considerato semplicemente come uno strumento pratico di indagine, da utilizzare fin tanto che esso “funziona”, soggetto alla dichiarazione di principio che debba valere per tutto, o non può più valere quando qualche manifestazione del reale ne resti esclusa. Applicarlo a tutti i costi allo studio della natura vivente, e ancor più allo studio della natura umana, è allo stato attuale delle conoscenze una pretesa ingiustificata: non costituisce una garanzia di scientificità, ma anzi può tramutarsi in un grave ostacolo alla ricerca.

Un riduzionismo assoluto ed autoreferenziale non è stato però, di fatto, il criterio esclusivo adottato dalla ricerca biologica nel cammino compiuto negli ultimi 150 anni. Un interessante esempio di ciò viene appunto da Rudolf Virchow: pur nel clima culturale di intransigente positivismo cui apparteneva, egli fu infatti molto attento a non smarrire, in una visione fisicalista chiusa in se stessa, l’oggetto proprio e principale della biologia, la sua “peculiarità”. Il termine tedesco da lui impiegato per designare questo carattere irriducibile della vita tra i fenomeni della natura è Besonderheit, che può appunto essere tradotto con «peculiarità». Con molto buon senso, le scienze biologiche non hanno mai seguito, in modo radicale, il programma teorico del riduzionismo. Anzi, appaiono sempre più distaccarsene, nel senso che non tendono ad unificarsi, in modo acritico, in un unico tipo di “indagine fisica microscopica”. Pur restando ancorate ai canoni del rigore scientifico, esse hanno difatti adottato, con fertile immaginazione creativa, analisi e procedimenti diversificati per i vari livelli e ordini dei fenomeni della vita. Il pluralismo delle scienze biologiche è attualmente un dato consolidato e irrinunciabile della ricerca.

2. La complessità della natura vivente. In una visione correttamente non-riduzionista, la natura vivente si presenta quindi con una sua “peculiarità” ineliminabile: essa possiede un’intrinseca ed essenziale “complessità”. Già il numero dei componenti di un sistema biologico — siano essi le cellule di un organismo multicellulare o le molecole di una singola cellula — pone problemi di enorme difficoltà nella descrizione di puro ordine fisico. Un modello fisico a n corpi non è più trattabile con i procedimenti scientifici applicabili ad un modello a 2 corpi. Ma un organismo vivente non è complesso solo nel senso che è costituito da numerosissimi componenti: si è già detto che esso si presenta come una realtà analizzabile a più livelli. La “multilivellarità” è una caratteristica innegabile con la quale la natura vivente si presenta alla nostra indagine scientifica.

Questo modo di affrontare il problema è stato elaborato e descritto con grande lucidità dallo scienziato e pensatore ungherese Michael Polanyi (1891-1976). Adottando una concezione nettamente non riduzionista, egli paragona gli organismi viventi alle macchine, ma ricorda al tempo stesso che una macchina è, per definizione, un oggetto “a due livelli”. «La macchina nel suo insieme opera sotto il controllo di due princìpi distinti. Quello superiore è il principio del progetto della macchina e questo imbriglia quello inferiore, che consiste nei processi fisico-chimici su cui la macchina si basa» (Polanyi, 1988, p. 266). Passando poi dalle macchine agli esseri viventi, egli fa notare che gli animali si muovono in modo simile alle macchine, hanno organi interni che funzionano come parti di macchine, e che la vita è mantenuta da una integrazione di funzioni, proprio come l’operazione della macchina risulta dalla integrazione delle sue parti funzionali. Afferma quindi che «in questa luce l’organismo sembra essere, come una macchina, un sistema che funziona secondo due princìpi differenti: la sua struttura serve come condizione al contorno che vincola i processi chimico-fisici mediante cui i suoi organi svolgono le loro funzioni. Così, può essere chiamato un sistema sotto controllo duale» (ibidem, p. 267). Si può dire che gli esseri viventi comprendono non soltanto due, ma una sequenza di livelli, con le proprie condizioni al contorno. Nel caso di una macchina, il disegno è fatto dall’uomo che costruisce la macchina, e può essere relativamente semplice; nel caso di un organismo vivente il disegno è estremamente complesso e la sua origine resta, per la biologia, un problema.

Qualcuno potrebbe osservare che, descritta in questi termini, la natura vivente non diviene più comprensibile, ma, piuttosto, sempre più inafferrabile. Si dovrebbe però rispondere che non si può ottenere chiarezza e semplicità riducendo arbitrariamente le dimensioni del problema. Il noto aforisma di Newton natura enim simplex est (la natura è semplice) può risultare illusorio se applicato allo studio scientifico degli organismi viventi. Il riconoscimento di moduli unitari di struttura e di funzione al loro interno, specie al livello molecolare, è certamente un elemento importantissimo di descrizione e di analisi, ma non risolve il problema dell’integrazione, da cui dipende la peculiarità della vita: gli esseri viventi sono senza dubbio, da questo punto di vista, realtà non semplici, ma stratificate e complesse.

Le dimensioni ancora largamente ignote e la complessità della natura, non solo di quella vivente, si vanno manifestando con evidenza crescente mano a mano che l’uomo approfondisce la sua indagine scientifica. Devono perciò estendersi ed approfondirsi di pari passo anche i criteri e gli strumenti che egli impiega per tale descrizione. Uno studioso di epistemologia ha fatto notare che sono attualmente di uso corrente, nella rappresentazione scientifica dei fenomeni, quattro alternative classi di paradigmi, non riducibili l’una all’altra (cfr. V. Tonini, Dall’epistemologia all’ermeneutica, “Civiltà delle Macchine” 27 (1979), p. 31). Queste classi vengono coniugate nella costruzione dei vari modelli scientifici ed i ricercatori che operano nei diversi settori sono abituati, in modo quasi inconscio, a ricorrere all’una o all’altra nel programmare la loro indagine e nell’elaborare i loro risultati.

Esiste anzitutto un paradigma “determinista”, definito come applicabile a processi lineari continui, per i quali si ammette la scomposizione e la ricomposizione delle cause e degli effetti: è il paradigma più comune ed immediato, quello della scienza antica. Esiste poi un paradigma “probabilista”, definito come applicabile a processi ad andamento stocastico, che seguono le leggi dei grandi numeri: è indispensabile per le scienze moderne, ed è oggi largamente penetrato anche nel modo di pensare comune. Esiste poi un paradigma “indeterminista”, applicabile a sistemi che ammettono la non commutazione degli operatori, indispensabile per la fisica delle particelle elementari; le sue possibilità di estensione a livelli più complessi sono però incerte, e non esiste in pratica un suo impiego, al di là di quello strettamente scientifico, nella rappresentazione quotidiana del mondo. Esiste infine il paradigma “informazionale”, applicabile a processi regolati da retroazioni e da elaborazioni di informazione interna. È il paradigma caratteristico del mondo vivente, ma anche dei prodotti della cultura umana contenenti informazione.

    

IV. Biologia e informazione

Nella rappresentazione scientifica della natura vivente, nei suoi diversi livelli, vengono abitualmente impiegati più paradigmi. Così un fenomeno biologico può essere correttamente descritto con un modello deterministico o con uno probabilistico, a seconda dei casi. Nei modelli deterministici o probabilistici l’analogia con fenomeni puramente chimici o fisici è più stretta, e l’oggetto biologico viene trattato effettivamente “come se” fosse un qualsiasi altro oggetto di una natura indifferenziata. Ciò vale sia a livelli macroscopici — ad esempio, un arto può essere visto come una leva, la circolazione del sangue come un sistema idrodinamico — sia a livelli microscopici e molecolari — ad esempio nello studio delle reazioni chimiche intracellulari, o del trasporto di sostanze attraverso le membrane. Ovviamente il sistema biologico è sempre molto complesso, molto più di quanto non lo sia il sistema costituito da un grave in caduta libera o da un pendolo; ma esistono anche sistemi non biologici complessi, come una fiamma o un temporale. La complessità biologica ha tuttavia una sua peculiarità, la Besonderheit messa in evidenza da Virchow e oggi pienamente accettata dalla cultura contemporanea. Questa peculiarità viene specificata in più modi, ma il termine più accettato e diffuso per indicarla è attualmente quello di «informazione»: la matrice fondamentale di quello stato che definiamo «vita» viene individuata e condensata in una specifica informazione posseduta dall’organismo vivente. Il paradigma informazionale diviene così indispensabile alla completa interpretazione scientifica del fenomeno biologico. Pur facendo molta attenzione alle diversità di significato e di contesto, non può sfuggire la suggestiva vicinanza lessicale esistente, in rapporto allo studio della vita, tra la moderna parola “informazione” e la più antica e classica parola “forma”.

Il termine «informazione» è giunto in biologia dalla teoria della comunicazione. C.E. Shannon, N. Wiener, e dopo di loro molti altri, hanno razionalizzato e matematizzato l’argomento, fino a farne una teoria importantissima per molte scienze e per le loro relative applicazioni. Non è facile descrivere verbalmente che cosa si intenda per informazione, con una definizione comprensibile e completa. Sintetizzando molto si può forse dire che essa esprime una “differenza”: in un mondo che fosse tutto eguale ed indifferenziato non potrebbe parlarsi di informazione. Il biologo C.H. Waddington la definisce «quantità di varietà o di specificità» di un sistema (cfr. Waddington, Le idee fondamentali della biologia, in “Evoluzione di un evoluzionista”, Roma 1979, p. 300). Con questi termini viene messo in evidenza che l’esistenza di un contenuto di informazione richiede la variabilità di un sistema tra più possibili stati, e quindi una “incertezza”, ma al tempo stesso anche una “scelta” che identifichi uno specifico stato tra i vari possibili. Mediante le formalizzazioni ed elaborazioni matematiche, il messaggio informativo può essere descritto con un modello quantitativo e può essere misurato. Si può così valutare il contenuto di informazione di una molecola proteica o di una cellula batterica, e confrontarlo con quello di un manifesto o di una sinfonia.

In campo biologico, la valutazione dell’informazione può riguardare ciascuno dei livelli ai quali i fenomeni possono essere analizzati: si può così considerare il livello di biomolecola, quello di cellula, di organismo, di ecosistema, e magari di tutta la biosfera. Va precisato che la biomolecola , considerata isolatamente, non risponde ai requisiti richiesti per essere detta vivente. Come si è detto, a proposito della teoria cellulare, la struttura minima che può essere detta vivente è la cellula: ma va ricordato che il concetto di informazione non è direttamente ed esclusivamente inerente allo stato di vita/non vita: appartiene alla teoria della comunicazione, ed è piuttosto inerente allo stato di ordine/non ordine. Il contenuto di informazione resta comunque un criterio largamente accettato anche per la misura dell’organizzazione biologica ed è entrato tra i concetti base della biologia moderna. Il suo uso viene pure esteso, per convenzione, alle molecole prodotte dagli organismi viventi, in particolare alle cosiddette macromolecole, delle quali alcune, appartenenti alle classi delle proteine e degli acidi nucleici, vengono esplicitamente indicate come «biomolecole informazionali».

La macromolecola informazionale per eccellenza è un acido nucleico, il DNA (acido deossiribonucleico). Le sue caratteristiche come struttura portatrice del messaggio biologico sono state descritte, come già detto, da J. Watson e F. Crick nel loro famoso lavoro del 1953 sul modello della doppia elica. La frase cruciale che ne mette in luce le proprietà specificamente “informazionali” è brevissima e lapidaria: «La sequenza di basi su una singola catena non appare soggetta ad alcuna restrizione». Con essa si fa un’affermazione fondamentale per la moderna rappresentazione scientifica della natura vivente secondo il paradigma informazionale. Si asserisce che la struttura del DNA è idonea alla funzione di codificazione dell’informazione ad esso attribuita. Non essendovi restrizioni, i quattro diversi tipi di nucleotidi costituenti, che si legano l’uno dopo l’altro nella lunghissima sequenza della catena, possono alternarsi senza alcun vincolo predeterminato. Ne risulta una probabilità in partenza pressoché eguale che ad un certo nucleotide, nella catena, possa seguire uno qualsiasi dei quattro tipi. Questo requisito è indispensabile perché possa parlarsi di struttura portatrice di informazione. Se infatti la struttura fosse vincolata, ed ogni costituente determinasse il proprio successore, tutte le catene di DNA, per quanto lunghe, sarebbero “senza differenze”. Questo è il caso che si riscontra in tante molecole chimiche ordinarie o nei cristalli, che possiedono un’unica struttura che assicura il massimo di stabilità e che, pertanto, non portano informazione. Una catena di DNA assume invece la sua particolare sequenza, tra le tante in partenza equiprobabili, non su base deterministica o probabilistica, ma in base a una “scelta”. Tale scelta non si autoproduce e non è prodotta dall’ambiente: è di origine biologica, ed è il contenuto della trasmissione ereditaria. Alla luce di questo stato di cose, l’interpretazione contemporanea del già citato enunciato di Virchow, omnis cellula e cellula, è che ogni cellula vivente, per esistere, deve ricevere da un’altra cellula non materia ed energia, che ricava dall’ambiente, ma una specifica informazione. Su questa interpretazione è costruito tutto l’edificio della biologia contemporanea. E non si tratta solo di un dato astratto, ma di uno strumento concettuale di larghe ed attualissime applicazioni.

Il paradigma informazionale appare dunque indispensabile alla completa interpretazione scientifica del fenomeno biologico. Ciò modifica i quadri di riferimento cui conviene far ricorso, escludendo sempre più da essi quello riduzionista. Appare dunque ingiustificato il tentativo di applicare il criterio della causalità “verso l’alto” alla spiegazione di tutti i fenomeni della vita, a tutti i livelli e senza eccezione: nella descrizione di processi negli organismi viventi anche il criterio della causalità “verso il basso” (top-down causality) può essere legittimamente assunto. E tale criterio conduce a quadri di riferimento non riduzionistici, ma olistici.

Un esempio di interpretazione informazionale a livello biomolecolare può essere il seguente. Nel loro trattato Biologia molecolare della cellula, Watson e gli altri autori scrivono: «La conformazione di una proteina determina la sua chimica […]. La superficie di ogni molecola proteica ha una reattività chimica unica, che dipende non solo da quali catene laterali di aminoacidi sono esposte, ma anche dal loro reciproco esatto orientamento» (Alberts et al., Molecular biology of the cell, New York 19943, p. 129). Ecco come il paradigma informazionale si coniuga agli altri paradigmi nell’interpretazione completa di questo fenomeno biochimico. La semplice chimica degli aminoacidi, liberi o legati, non basta a comprendere il modo di funzionare di una macromolecola proteica: bisogna conoscere anche la conformazione della proteina. Il termine «conformazione» indica la posizione nello spazio tridimensionale di tutti gli atomi che compongono la molecola: come la parola stessa suggerisce, conformazione significa “forma della molecola nello spazio”. Si sa tuttavia che la conformazione di una proteina, così come si trova mentre essa funziona nella cellula, non è il risultato di eventi fortuiti, ma è sostanzialmente determinata dalla sequenza, ossia dall’ordine di allineamento degli aminoacidi da cui è composta. Tale sequenza non è un dato intrinseco e prestabilito della struttura proteica: gli stessi aminoacidi potrebbero legarsi chimicamente tra loro con ordini di allineamento diversissimi. Nella cellula, essa dipende da strutture regolative che ne dirigono la formazione al momento della sintesi della proteina; e, risalendo a monte in un sistema di concatenazioni causali, dipende da una struttura di regolazione iniziale specifica. Tale struttura regolativa primaria della cellula è appunto la biomolecola informazionale del DNA, e precisamente la successione dei nucleotidi nella catena. Dalla sequenza dei nucleotidi del DNA si esprime il flusso di informazione, che determina la sequenza degli aminoacidi nella catena della proteina, e ne causa quindi la conformazione. Non vi è flusso di materia o di energia dal DNA alla proteina, ma solo “flusso di informazione”, e cioè la “comunicazione di un messaggio”. Tale messaggio proviene dal patrimonio ereditario della specie, e procede pertanto secondo una causalità “verso il basso”.

Si giunge così a comprendere come la reattività chimica di una proteina, che deriva dalla sua conformazione, dipenda in definitiva dalla informazione peculiare, specificamente biologica, contenuta nella cellula nella quale la proteina si è formata. È la struttura regolativa specificamente biologica a vincolare, secondo un modello olistico, i processi chimici che si svolgono entro la cellula, mentre essa funziona. In cosa consista il significato peculiare dell’informazione biologica, che passa da cellula a cellula e da organismo ad organismo nella lunga catena delle generazioni viventi, è una questione in fondo ancora aperta, malgrado gli immensi e rapidi progressi fatti dalle scienze biologiche, specie a livello molecolare. Va detto che finora, più che della interpretazione dell’informazione, la biologia si è occupata in modo intensivo dei meccanismi della sua trasmissione cellulare ed ereditaria. Il paradigma informazionale, pur essendo accettato come caratterizzante ed indispensabile per la conoscenza biologica moderna, ha connotati ancora largamente sconosciuti.

    

V. L’enigma dell’origine della vita sulla terra

Connotati ancora largamente sconosciuti ha pure la questione di come sia per la prima volta comparsa sulla terra, in mezzo a materia non vivente, una struttura contenente informazione genetica, capace di replicarsi. Si tenga presente che, avendo il pensiero biologico attuale fatta propria l’idea di evoluzione, la domanda si pone solo relativamente ad un primo evento iniziale, dal quale possono essere partite, ed essersi ramificate, le sequenze delle generazioni successive. La domanda resta comunque, allo stato attuale, senza una risposta convincente.

Le numerose ipotesi formulate si collocano fra due diverse visioni. La prima è una visione di indole determinista e meccanicista, in cui la vita è riducibile a leggi perfettamente quantificate e ad eventi predicibili. Recenti acquisizioni scientifiche e filosofiche, specie quelle in merito al ruolo dei fenomeni impredicibili e complessi, mostrano attualmente la sua insufficienza. La seconda è una concezione di tipo “vitalista”, nella quale si ipotizza che i fenomeni biologici siano guidati da una sorta di “psiche”, che assicurerebbe la ragione della differenza qualitativa tra la vita e la materia non vivente. In certa continuità con il vitalismo, altri intendono introdurre, anche a livello scientifico, la presenza di elementi spirituali o di finalismi estrinseci, che oltrepassano quelle idee di teleonomia e di auto-organizzazione che l’indagine scientifica può certamente recepire nel suo studio sugli esseri viventi, ma il cui ulteriore rimando all’idea di “progetto” o di “disegno intelligente” (intelligent design), sarebbe compito della filosofia della natura e non più della biologia.

In merito ad un confronto col pensiero filosofico o teologico, è presente in molti l’idea, enfatizzata da certa divulgazione scientifica, che una volta trovata una formulazione scientifica soddisfacente per spiegare l’origine della vita, sarebbe allora unicamente la scienza, e non altri, a possedere i perché “ultimi” della sua comparsa sulla terra. In realtà, l’eventuale riproduzione in laboratorio di un organismo vivente, ove ciò fosse di fatto realizzato, non obbligherebbe a vedere la vita come un prodotto del cieco caso, né implicherebbe la negazione di un’intenzionalità creatrice. I tre livelli, scientifico, filosofico e teologico, rispondono a domande diverse. Allo stato attuale, comunque, l’origine della vita e la sua emergenza sulla materia restano, nell’ambito delle scienze biologiche, un enigma ancora aperto.

Dal punto di vista storico può essere interessante ricordare che fino a solo un paio di secoli fa era attiva la discussione sulla “generazione spontanea”, ovvero la possibilità che forme di vita si sviluppassero da materia non più vivente. Era infatti opinione comune che la vita potesse generarsi sia attraverso il seme della propria specie, sia mediante la trasformazione di composti chimici in putrefazione; in quest’ultimo caso, ancora parecchi autori medievali ritenevano che ciò si potesse realizzare grazie all’energia proveniente dal sole o da altri corpi celesti. Si deve a Francesco Redi (1626-1698) il primo suggerimento che i vermi prodottisi nella putrefazione della carne erano in realtà larve di mosche previamente depositate da mosche adulte; e a Lazzaro Spallanzani (1729-1799) la dimostrazione che brodi di cottura, isolati dal contatto con l’aria, non generavano, come si credeva, organismi viventi. La questione fu però radicalmente risolta solo più tardi, grazie alle ricerche sui processi di fermentazione di Louis Pasteur (1822-1895) che dimostrò come anche per i microrganismi valga pienamente l’enunciato di Virchow: omnis cellula e cellula.

Sebbene tale problematica si collochi su un piano diverso da quello dell’origine della vita sulla terra — in quest’ultimo caso, infatti, non si avrebbe a che fare con una generazione spontanea in tempi brevi, come negli esperimenti dei secoli scorsi, ma con un tentativo di ricostruire teoricamente o sperimentalmente quanto lentamente avvenuto nelle trasformazioni dell’ambiente terrestre primordiale — menzionarla può servire a ricordare che, da un punto di vista filosofico, la produzione di esseri viventi da sostanze materiali inerti non pareva suscitare uno speciale problema.

Alcuni ricercatori hanno provato ad ottenere direttamente in laboratorio la sintesi, a partire da materiali chimici molto semplici, di composti organici complessi, in vista della “costruzione” di un piccolo organismo vivente. Partendo dai lavori iniziali di A. Oparin (1924) e poi di S. Miller e H. Urey (1953), essi hanno tentato di ricostruire teoricamente, e quindi di riprodurre in laboratorio, la composizione di un ambiente terrestre primordiale, e la relativa chimica disponibile, nel periodo di tempo che intercorse fra 4,6 miliardi (epoca di formazione della terra) e 3,4 miliardi di anni fa (corrispondente all’età dei più antichi microfossili). All’ambiente così ricostruito venivano fornite opportune forme di energia — ad es. raggi UV, raggi X, scariche elettriche o, più recentemente, rapide ed intense escursioni termiche. Sebbene il quadro teorico delle condizioni iniziali del pianeta ed i modelli del suo sviluppo siano divenuti nel tempo, col procedere degli studi, sempre più coerenti ed attendibili, anche grazie ad un approccio multidisciplinare — chimico, biologico, ma ora anche astrofisico —, sotto l’aspetto sperimentale non vi sono stati, per gli ultimi 50 anni, risultati qualitativamente diversi. Sono stati sintetizzati alcuni fra i costituenti degli acidi nucleici e delle proteine, ma la struttura di tali composti organici è ancor ben lontana da quella di un organismo vivente capace di replicarsi. Vi sono stati progressi nella comprensione dei possibili habitat dove la vita possa essersi sviluppata — non solo l’acqua marina, ma anche rocce (grafite e pirite), microgocce in sospensione ricoperte da opportune membrane protettive, sorgenti vulcaniche terrestri o sottomarine, o altro —, ma dei prodotti di sintesi finora ottenuti nessuno è di natura biologica. Su questo argomento ecco come ha voluto esprimersi uno degli scopritori della doppia elica del DNA, Francis Crick: «Un uomo onesto, munito di tutte le conoscenze attuali, può solo affermare che per ora, in un certo senso, l’origine della vita appare quasi un miracolo, tante sono le condizioni che hanno dovuto essere soddisfatte perché si realizzasse» (Life itself. Its Origin and Nature, London-Sidney 1982, p. 88). Si noti che Crick è personalmente lontano dal voler suggerire interventi “soprannaturali” diretti in merito all’origine della vita sulla terra. Con serietà di ricercatore, sostiene soltanto che, di fronte agli enigmi non risolti, lo studioso della natura deve anche sapere coraggiosamente pronunciare il suo ignoramus. L’origine della vita risulta essere una questione scientificamente non risolta, che va riproposta come problema aperto.

    

VI. Biologia e natura dell’essere umano

Questione ancora più aperta, dal punto di vista scientifico biologico, è poi la peculiare natura dell’essere umano. Nella specie umana la complessità biologica si apre, infatti, a nuovi e tipici livelli di realtà mentali e spirituali, che trascendono il mondo fisico, e quello biologico non umano. Le qualità psichiche dell’essere umano, e la cultura che egli è stato in grado di creare, sono dati evidenti di una esistenza che non si compie esclusivamente a livello delle realtà fisiche. Più che mai, a proposito della specie umana, il riduzionismo mostra tutta la sua insufficienza, che appare per essa immediatamente, e con ogni evidenza, mutilante.

Nella complessità dell’essere umano è stato riconosciuto un insieme di facoltà alle quali viene dato il nome di «mente». Nella terminologia di stampo anglosassone, oggi la più diffusa ed accettata, la parola mente (mind) viene usata per riferirsi anzitutto a qualcosa che ha una sua descrizione empirica, cosa sulla quale vi è un largo consenso. Essa viene intesa come un insieme di proprietà — che di fatto vanno distinte dalle proprietà fisiche dell’organismo — tra le quali spicca la “consapevolezza”, o “esperienza soggettiva”. Ad una analisi più fine ed approfondita, ancor più tipicamente umana risulta essere la “consapevolezza di sé”, o “auto-coscienza”. Parlare di mente significa allora proporre una descrizione della natura vivente, e dell’essere umano, che non può più essere interamente oggettiva, ma che riconosce come dato ineliminabile la presenza di un “soggetto”.

Qualcuno potrebbe sostenere che, accettando di includere quest’ultimo tipo di considerazioni, si esca irrimediabilmente dai confini del metodo scientifico. Occorre invece intendersi sui confini della scienza, adoperando un supplemento di intelligenza critica per evitare ogni scrupolo metodologico ingiustificato. Il problema della demarcazione tra scienza e non scienza per ciò che riguarda la complessità umana, includente la sfera psichica, è stato affrontato da John C. Eccles (1903-1997). Da uomo di scienza, senza proporre soluzioni sistematiche, egli offre la testimonianza del suo modo di procedere: «I miei problemi sorgono dal tentativo di rendere conto della mia esistenza personale, con tutte le mie più intime e personali esperienze. Questo mi dà il vantaggio di un approccio privilegiato nei confronti di quella che è unicamente la mia esperienza, cioè un’esperienza che non può, neppure minimamente, essere condivisa direttamente da altri […]. Le conoscenze acquisite però mi mettono in una posizione vantaggiosa quando estendo il mio sguardo alle altre individualità. Si tratta di una partita giocata tra due epistemologie, una soggettiva e una oggettiva. Le mie esperienze soggettive acquistano uno status oggettivo quando vengono contrapposte alle esperienze degli altri» (Il Mistero Uomo, Milano 1981, p. 19).

Parlare di epistemologia soggettiva può apparire a qualcuno infondato e rischioso. Ma le dimensioni da indagare sono così poco conosciute che i metodi di indagine vanno potenziati ed integrati in modo adeguato: salvando ovviamente sempre il rigore della scientificità, la ricerca può inoltrarsi anche su terreni come questi, ancora largamente da esplorare. Può poi accadere che, ad un dato momento, l’indagine giunga a questioni per le quali la capacità esplicativa delle scienze non è più sufficiente. Proseguendo nella descrizione del mondo mentale, al centro dell’esperienza umana, si trova che la complessità diviene “unità”. L’essere umano, nella inalienabile interiorità di questo suo centro di osservazione e di decisione, raggiunge il livello di una esistenza consapevole di sé e veramente unica, nella quale hanno radici la libertà e la responsabilità del suo agire. A questo punto è davvero difficile intravedere procedimenti scientifici attraverso i quali si possa arrivare alla comprensione e alla spiegazione: e si coglie la presenza di un mistero.

  

Bibliografia

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