La verità del sapere, sia nella conoscenza del particolare che nella comprensione dell'universale, deriva non tanto dall'autorità che la afferma, in quanto può essere sempre messa in discussione, quanto piuttosto da una scienza che cerca i fondamenti stessi della gnoseologia. E, sotto questo punto di vista, i secoli del Medioevo presi in esame dall'autrice nel suo libro sono tra i più fecondi.
Si trattava, come scrive la Dreyer, di un duplice movimento in cui «nel loro sforzo di scoperta dei fondamenti ultimi degli oggetti presi in considerazione, la pura curiosità teoretica priva di secondi fini e il desiderio di sapere guidato dall'interesse all'orientamento finiscono per incontrarsi» (p. 10). Aspetto, questo, che l'autrice ritiene valido per ogni tipo di conoscenza, teologia inclusa, per cui «si potrà propriamente parlare di teologia come scienza solo quando la riflessione di fede non si limiterà a provare la certezza del proprio sapere adducendo delle ragioni, ma quando farà propri anche gli altri tratti del sapere scientifico» (p. 12).
L'inizio di questo "percorso" teologico può essere fatto risalire al IX secolo con la riforma carolingia, quando iniziarono le prime interpretazioni "divergenti" dei testi sacri che reclamavano per sé la stessa legittimità ermeneutica di quelle ritenuti ufficiali. È l'autorità ad essere messa in discussione, per cui «nel dibattito teologico si dimostra quindi necessario servirsi di un'istanza di verifica che possa distinguere l'argomento vero da quello falso. Si ritiene di trovare una tale istanza nella ragione naturale» (p. 14), quella ottenuta attraverso lo studio delle artes liberales.
«L'aspetto decisivo del modello formativo delle "artes" per la questione della scientificità della teologia è il metodo. Nella misura in cui le discipline delle "artes" sono per se stesse pensate come sapere che consiste in regole e norme ed è quindi metodico, la loro assunzione nell'ambito della riflessione cristiana fa sì che quest'ultima diventi a sua volta metodica e riceva un'impronta essenziale di scientificità» (p. 17). Con l'avvertenza però di non dimenticare che il contenuto che la ragione è chiamata a considerare è di natura religiosa, per cui deve avere la fede come substrato alle proprie indagini: è vero che la rivelazione divina ha avuto luogo attraverso il linguaggio umano e quindi deve essere interpretata attraverso le regole del linguaggio e della grammatica; ma, parimenti, si tratta pur sempre di un messaggio divino, per cui la ragione umana da sola non basta, perché deve essere supportata dalla fede.
Tuttavia la questione sul carattere metodologico della teologia nei confronti dei contenuti rivelati non può fermarsi qui, ma merita di essere approfondito soprattutto in riferimento all'espressione di s. Anselmo fides quaerens intellectum.
È su questa linea che la Dreyer procede nel suo lavoro, soffermandosi in particolare su quattro momenti storici dell'applicazione del metodo scientifico alla teologia. Il primo, dall'XI al XIII secolo, è caratterizzato dallo sviluppo della dialettica attraverso i testi della Logica vetus aristotelica. Il secondo è contrassegnato dall'assimilazione degli scritti logici e teologico-filosofici di Boezio e dai primi accenni di disputa sugli "universali". Il terzo «che determina in maniera decisiva l'autocostituzione della teologia come scienza, è la sistemazione di ciò che è oggetto dell'insegnamento, dell'apprendimento e della ricerca. Ciò riguarda da una parte il materiale testuale, dall'altra i suoi stessi contenuti» (p. 31), raccolti nelle Summae : una sistematizzazione che orienta, per sua natura, i teologi verso il metodo usato dalla geometria nel suo distinguere tra le premesse, assiomatiche, e le conclusioni, dimostrabili, per cui le argomentazioni preliminari precedono quelle che le seguono nel contenuto. Il quarto momento riguarda l'assimilazione dei testi scientifici greci, arabi ed ebraici tradotti in latino: non un utilizzo meccanico, quanto piuttosto un confronto tra un proprio modo di lavoro già sperimentato e quanto di nuovo poteva essere appreso nei metodi di indagine e di dimostrazione ora disponibili.
L'autrice dedica quindi un capitolo all'esame del rapporto tra teologia e dialettica, soffermandosi sulle figure di Abelardo e Pietro Lombardo; e un altro al confronto tra teologia e matematica, esaminando il pensiero di Gilberto Porretano, Teodorico di Chartes, Alano di Lilla e altri. Si tratta di due diverse impostazioni nell'affrontare il discorso sulla scientificità della teologia nel XII secolo: la prima, dialettica, consiste nel metodo di procedere basato sul confronto tra posizioni contrastanti su determinate "quaestiones" di carattere religioso per arrivare a conclusioni probabili; la seconda è una strada apodittica che, sull'esempio della geometria, porta a conclusioni inconfutabili attraverso il metodo deduttivo. «Solo la teologia può realizzare pienamente quello che è considerato l'ideale del metodo deduttivo, e cioè: dedurre da proposizioni (assolutamente) necessarie, che si riferiscono a una realtà immutabile, altre proposizioni a loro volta necessarie» (p. 112).
Perché, si chiede la Dreyer tirando le fila del suo discorso, una simile esigenza di rielaborazione scientifica della teologia proprio in questi secoli? I motivi sono molteplici, non ultimo quello dato dal fatto che «la pretesa (universale) di verità del messaggio cristiano venga messo in questione è inteso come una sfida e una sollecitazione ad approfondire e a rendere ragione. Lo si fa, appunto, con gli strumenti della scienza, che sono poi quelli della ragione naturale, dato che si ritiene che solo in essa si possa trovare una base comune con chi la pensa diversamente o ha una fede diversa» (p. 125).
Tuttavia questa riflessione ha anche un'altra valenza: dimostra come in realtà il reciproco riferimento dialettico fede-ragione non abbia avuto inizio in epoca moderna ma secoli prima, con pensatori di primo piano nella storia della filosofia e della teologia occidentale, spinti dalla sempre maggiore diffusione degli scritti aristotelici.
Sono sufficienti questi pochi accenni per far comprendere come la definizione di "secoli bui" data al Medioevo sia priva di fondamento, tanto che un altro studioso di questa epoca, Jacques Verger, parla di "rinascimento" del XII secolo, mettendo in rilievo soprattutto il senso della continuità storica, dell'eredità del passato mantenuta attraverso i traduttori delle opere classiche e arricchita da Magistri come Berengario di Tours, sant'Anselmo, Ugo di S. Vittore, Giovanni di Salisbury e dalle scuole di Chartres, di Parigi, Colonia, Bologna, Pavia, Salerno, solo per citare qualche nome.