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Principia Mathematica

Alfred N. Whitehead, Bertrand Russell
Cambridge University Press, Cambridge 1910
pp. 502
ISBN:
9788845275869

A. N. Whitehead, B. Russell, Principia Mathematica, Cambridge University Press, Cambridge 1910-19221; 1925-19272

Introduzioni ai Principia Mathematica, Bompiani, Milano 2014


Importanza dei Principia

I Principia Mathematica di Alfred North Whitehead e Bertrand Russell possono considerarsi la più ampia, articolata e completa summa della logica matematica moderna. Furono pubblicati a Cambridge in una prima edizione in tre volumi nel 1910 (I volume), 1912 (II volume) e 1913 (III volume); in una seconda edizione nel 1925 (I volume) e 1927 (II e III volume); infine nel 1956 in una edizione abbreviata. Attualmente non disponiamo di una traduzione italiana integrale di essi, ma solo delle Introduzioni alle varie edizioni, che sono una vera e propria sintesi ragionata dei corposi volumi.

Essi sono il punto di approdo e la massima espressione di quello che viene chiamato in storiografia “programma logicista” o “logicismo”. Esso denota una impostazione di filosofia della logica di matrice “idealistica” secondo cui, in linee generali, i concetti e i relativi costrutti della logica: a) hanno validità universale, b) hanno potenza espressiva illimitata, c) sono meta-soggettivi, ossia totalmente indipendenti dai meccanismi psicologici di una mente individuale, d) riguardano leggi universali del pensiero/linguaggio, e) eccedono la stessa capacità di comprensione, f) sono a-temporali. Non si tratta di una posizione precisa e circoscritta, sostenuta in toto da qualche autore in particolare: è una impostazione di fondo di un certo ambito di ricerca che ha visto coinvolti numerosi logici, matematici, filosofi tra la metà dell’800 e i primi decenni del ‘900, pur avendo radici più antiche. Tale programma prevedeva la fondazione di tutta la scienza simbolica – la matematica per antonomasia – sulla logica. Così Russell: «La filosofia chiede: che significato ha la matematica? […] Ora la matematica può dare una risposta almeno fino al punto da ridurre il complesso delle sue proposizioni a certe nozioni fondamentali di logica. A questo punto la discussione deve essere ripresa dalla filosofia[1]

I concetti fondamentali della matematica devono potersi ridurre a concetti logici, a loro volta indefinibili.

Stando a quanto riporta il primo impianto dei Principia, ossia il volume di Russell intitolato The Principles of Mathematics, del 1903, queste nozioni indefinibili e irriducibili sono sei: 1. l’implicazione formale; 2. l’implicazione materiale; 3. la relazione fra un termine e la classe di cui è elemento (appartenenza); 4. la nozione di tale che; 5. la nozione di relazione; 6. la nozione di verità. Si voleva dimostrare che la matematica, per essere consistente e sicura non doveva far altro che fondarsi sulla logica. Da qui la denominazione “logica matematica”, che racchiude implicitamente tre specificazioni: 1) è una logica dalla matematica, nel senso che nasce dalle ricerche su di essa; 2) è una logica della matematica, ossia sottesa alle sue dimostrazioni e ai suoi concetti base; 3) è una logica per la matematica, ossia per una “fondazione” – in qualunque senso la si intenda – di essa.

I Principia sono riusciti nel loro scopo? Il programma “logicista” è stato attuato? È attuabile? Il dibattito è rimasto e rimane aperto; è stato vigoroso e intellettualmente produttivo negli anni a seguire le pubblicazioni, come vedremo sotto. Certamente i Principia hanno avuto dei meriti macroscopici nella storia del pensiero occidentale: 1) hanno sancito definitivamente l’ingresso della logica matematica moderna nel panorama culturale scientifico-filosofico europeo e americano (ora mondiale), riuscendo a trasmettere, anche grazie ad una semplificazione della notazione, la notevole potenza espressiva della logica. Di fatto, inaugurano la notazione moderna in uso ancora oggi. 2) Hanno mostrato quanto potere espressivo e deduttivo abbia un Sistema formale assiomatico, aprendo la strada a quella che sarebbe stata presto definita metalogica. 3) In terzo luogo, i Principia Mathematica hanno riaffermato chiare e interessanti connessioni tra la logica e due delle principali branche della filosofia tradizionale, ovvero la metafisica e l’epistemologia. 4) Sono stati la sorgente di una vasta gamma di nozioni contenutisticamente molto ricche (tra cui il concetto di funzione proposizionale e la teoria dei tipi), ma hanno anche posto le basi per la scoperta di cruciali risultati metateorici (tra cui i teoremi di Kurt Gödel, Alonzo Church, Alan Turing e altri), che a loro volta hanno iniziato una tradizione di lavoro tecnico comune in campi diversi tra loro, come la filosofia, la matematica, la linguistica, l’economia, l’informatica, la crittografia, l’intelligenza artificiale.

   

Genesi remota dell’opera

L’origine remota del programma filosofico dei Principia può essere fatta risalire alla giovanile Dissertatio de arte combinatoria (1666) di Leibniz e a tanti altri scritti in cui il filosofo e matematico tedesco ricerca un calculus philosophicus, una “arte universale” per pensare correttamente senza equivoci o errori, senza difetti di ragionamento.

Leibniz ha in mente una «analitica dei pensieri umani»[2], che chiamerà characteristica universalis, ossia un sistema di segni (caratteri), ognuno dei quali corrispondente a ognuna delle idee primitive che formano l'alfabeto dei pensieri umani, e che sia adatto a costruire, con delle semplici regole di calcolo (calculus ratiocinator), tutte le idee complesse (o pensieri strutturati) della nostra mente, in modo tale che a ogni pensiero falso corrisponda un errore di calcolo e a ogni pensiero vero una corretta applicazione delle regole

Dopo Leibniz, il passaggio propriamente decisivo che aprì la strada a quell’indagine che condusse poi alla formulazione dei Principia, fu il macro-evento culturale che viene racchiuso sotto il nome di “crisi dei fondamenti” della matematica e che ha la sua origine nella scoperta delle geometrie non-euclidee – le geometrie senza il famigerato V Postulato di Euclide delle parallele – ad opera di János Bolyai (1802-1860) e di Nikolaj Ivanovič Lobačevskij (1792-1856) e la conseguente nascita del metodo ipotetico-deduttivo, causa la loro assiomatizzazione, ad opera di Bernard Riemann (1826-1866). Tale rivoluzione non-euclidea rendeva impraticabile la credenza nella presunta apoditticità dei principi delle scienze matematiche che Renée Descartes (1596-1650), padre della geometria analitica, attraverso il suo “principio di evidenza” quale fondamento della verità, aveva inteso attribuirgli secoli prima. Lo stesso termine “assioma” iniziava a perdere ogni connotazione metafisica e apodittica, assumendo un carattere esclusivamente ipotetico, che non si oppone a “veritiero”, ovviamente, ma che non fa dipendere il suo carattere di “principio per inferenze valide” dalla sua verità incondizionatamente intesa. Bensì: se si pongono certi assiomi, allora si dimostrano certi teoremi.

E così la matematica, in “crisi” nei suoi assunti evidenti e apodittici oramai secolari, andava rifondata. Partirono indagini in ogni direzione, in ogni branca o settore di essa. Le ricerche di Richard Dedekind (1831-1916) Karl Weierstrass (1815-1897) e Georg Cantor (1845-1918), sull’infinito e sui numeri, contribuirono fortemente alla costruzione di un concetto puramente aritmetico del continuo geometrico (aritmetizzazione dell’analisi: all’intuizione assoluta dello ‘spazio’ si sostituisce una indagine sulla natura del numero). Un altro fondamentale filone di ricerca fu quello dell’algebrizzazione della logica, il cui pioniere fu George Boole (1815-1864), seguito da Augustus De Morgan (1806-1871), Ernst Schröder (1841-1902) con le sue Vorlesungen di algebra della logica, John Venn (1834-1923) e la Symbolic logic di Charles Sanders Peirce (1839-1914).

«Quanti sono a conoscenza dello stato attuale della teoria dell’algebra simbolica sono consapevoli che la validità dei processi di analisi non dipende dall’interpretazione dei simboli impiegati, ma soltanto dalle leggi della loro combinazione[3].»      

Si andava fissando quella che oggi chiaramente riconosciamo come distinzione tra sintassi (combinabilità dei segni tra loro secondo regole determinate) e semantica (rapporto dei segni con i significati e/o con gli oggetti cui si riferiscono), in senso rigoroso. L’intento di Boole, affascinato dal procedimento intellettuale del pensare, era di sviluppare una teoria matematica del pensiero.

Così matematica e logica avanzavano verso un destino di “fusione” che si compirà nei Principia (dove si intende mostrare che la matematica e la logica sono «identiche»[4]), attraverso un processo di formalizzazione, ossia: a) il linguaggio della matematica veniva interamente tradotto in linguaggio “simbolico”, prescindendo dai suoi “contenuti”. Essa iniziava a non configurarsi più come “scienza delle quantità”, discrete (numeri) o continue (figure geometriche), come nell’antichità, ma diveniva scienza delle relazioni, come la logica. Si interessava essenzialmente di relazioni sintattiche fra simboli: ad esempio l’espressione “ab” poteva ora essere interpretata sia “aritmeticamente” (come prodotto di due numeri), sia “geometricamente” (come equazione di una retta). b) Le varie teorie venivano assiomatizzate in un senso ipotetico, ossia ricondotte a pochi postulati da cui derivano, per coerenza di dimostrazione, le altre verità della teoria.

«Di fatto si riconobbe che la validità della deduzioni matematica non dipende in alcuna maniera dal particolare significato che può essere associato ai termini o alle espressioni contenute nei postulati[5].»   

Bisogna comunque dire che è grazie alla formalizzazione (simbolizzazione + assiomatizzazione) dei metodi logico-matematici d’indagine che la scienza moderna ha raggiunto, in questi due ultimi secoli, molti più risultati significativi di quanti ne avesse mai conseguiti a memoria d’uomo.

   

Genesi prossima dell’opera

Era il 16 giugno 1902. Russell aveva pubblicato già il primo volume de I principi della matematica ed era venuto a conoscenza, tardivamente, dei Grundgesetze der Arithmetik di Frege. In quel giorno inviava a Frege una lettera che dichiarava:

   

Stimatissimo collega,

da un anno e mezzo conosco i Suoi Grundgesetze der Arithmetik, ma solo ora mi è stato possibile trovare il tempo per lo studio approfondito che mi proponevo di dedicare alle Sue opere. Concordo completamente con Lei su tutti gli aspetti più importanti, in modo particolare sul rifiuto di ogni momento psicologico nella logica e sull’apprezzamento di una ideografia per i fondamenti della matematica e della logica formale, le quali invero sono appena distinguibili. Su molti singoli problemi trovo nelle Sue opere discussioni, distinzioni e definizioni che inutilmente si cercano in altri logici. Specialmente sulla funzione (cap. 9 della Sua Begriffsschrift), sono giunto, indipendentemente e fin nei particolari, alla medesima opinione.

Solo in un punto ho incontrato una difficoltà. Lei afferma che anche la funzione può costituire l'elemento indeterminato. Ne ero convinto anche io, ma ora questa opinione mi sembra dubbia a causa della seguente contraddizione. Sia  il predicato: essere un predicato che non può essere predicato di se stesso. Si può predicare  di se stesso? Da ogni risposta segue l'opposto. Bisogna dunque concludere che  non è un predicato. Allo stesso modo non esiste una classe (come totalità) di quelle classi che come totalità non appartengono a se stesse. Ne concludo che in determinate circostanze un insieme definibile non forma una totalità.

Sono in procinto di terminare un libro sui principi della matematica in cui vorrei trattare molto minutamente della Sua opera. Ho già i Suoi libri o li comprerò presto: Le sarei però molto grato se mi potesse inviare gli estratti dei Suoi articoli apparsi in diverse riviste. Nel caso Le fosse impossibile, andrò a procurarmeli in una biblioteca.


La trattazione esatta della logica sui problemi dei fondamenti, dove i simboli si dimostrano inadeguati, è rimasta molto indietro; in Lei trovo il meglio di quanto conosco del nostro tempo e per questa ragione mi permetto di esprimerLe il mio profondo rispetto. È veramente un peccato che Lei non abbia avuto modo di pubblicare il secondo volume dei Suoi Grundgesetze; ma è sperabile che ciò possa ancora avvenire.

SalutandoLa con la massima stima

Suo devotissimo

Bertrand Russell

 

[…] Ho scritto in proposito a Peano che non mi ha però risposto[6].

  

Questa lettera sancisce definitivamente la (seconda) crisi dei fondamenti della matematica e, in parte, la crisi del programma logicista di Frege, cui Russell tentò di rimediare con la sua nota teoria dei tipi. Il problema sorge da un assioma strutturale del sistema fregeano chiamato assioma di comprensione,

Ax(xAAx)

che dice: “un elemento appartiene ad una classe se e soltanto se soddisfa un predicato che definisce quella classe”. Un predicato, cioè, ‘comprende’ una totalità di oggetti che ne fanno la sua estensione, ma anche la sua connotazione. ‘Essere A’ non significa altro che appartenere alla classe degli oggetti di cui si predica A, e viceversa. Questo è l’assunto fondamentale di quella che oggi chiamiamo logica matematica “classica”[7], ossia il principio di estensionalità, che non distingue le diverse intensioni dei predicati. La contraddizione cui porta tale assioma si ottiene chiedendosi se un predicato, che svolge un ruolo funzionale, possa anche essere oggetto di se stesso come funzione (‘funzione’ e ‘oggetto’ sono i capisaldi del sistema fregeano). La risposta è negativa, secondo il ragionamento di Russell. Sia infatti W il predicato per “non appartenere a se stesso”, e W la classe i cui elementi non appartengono a se stessi[8]W appartiene o no a se stessa? Ecco che immediatamente si cade in un increscioso circolo vizioso contraddittorio: se W non deve appartenere a se stessa, allora deve appartenere a W, cioè a se stessa, per come è definita; ma se appartiene a se stessa, allora non deve appartenere a se stessa.

WWWW

Come è noto, la formulazione più antica è quella del paradosso di Epimenide che, da buon cittadino cretese, afferma: “tutti i cretesi sono mentitori”. È vera o falsa la sua affermazione? Sono due i punti cruciali che generano la contraddizione: 1) assumere la classe come unità determinata, come totalità chiusa, e dunque come valore del predicato; 2) considerare tutte le occorrenze di W nell’espressione qui sopra come se fossero “dello stesso livello”. E, ovviamente, assumere che, per il principio di comprensione, vi sia sempre equivalenza tra una classe e un predicato che la definisce. Non è così per tutti i predicati.

La teoria dei tipi è la risposta che diede Russell al problema. Lo sviluppo di essa fu complesso, una continua proposta di tentativi in articoli e pubblicazioni durante i primi dieci anni del ’900. L’idea di fondo è la seguente: si tratta di distinguere in una gerarchia di differenti ‘livelli’ gli argomenti da assegnare alle variabili della funzione che definisce la classe, in modo tale che non si producano non-sensi. Ecco un esempio informale: nella funzione proposizionale “x corre”, per ottenere una proposizione vera o falsa che sia, può essere sostituita solo con nomi (“locomotiva”, “Giovanni”, “mela”, etc.), o comunque con termini dello stesso livello, cioè della stessa categoria semantica (tipo), diversa e inferiore a quella dei verbi (“correre”). Infatti, “la locomotiva corre”, “Giovanni corre”, “la mela corre”, sono tutte proposizioni dotate di senso, anche se solo le prime due, in un contesto appropriato, hanno la possibilità di essere vere, mentre la terza è certamente falsa. Se invece sostituissimo x con un verbo (“parlare”, “bere”, etc.) otterremmo proposizioni né vere né false, semplicemente prive di senso: «parlare corre», «bere corre», etc. Questo perché il tipo dell’argomento che un predicato attende, non deve essere del suo stesso livello, ma di un livello inferiore. Si può dire che due termini appartengono alla medesima categoria semantica se e soltanto se, sostituiti alla stessa variabile, ottengono comunque proposizioni dotate di senso. E dunque una variabile può essere validamente sostituita solo da termini appartenenti ad una sola categoria semantica. Per ottenere proposizioni dotate di senso è indispensabile che il predicato appartenga ad un grado semantico più alto del suo argomento.

Dunque:

1) Tipo più basso, tipo 0: «qualsiasi oggetto che non sia un sistema di valori è un termine o individuo»[9].

- È sempre possibile sostituirlo, ad esempio in una proposizione, con un altro individuo, senza che la proposizione perda significato;

- gli oggetti della vita quotidiana sono individui;

- la classe come uno è un individuo (purché i suoi elementi siano individui).

2) Tipo successivo: consiste di ranges o classi di individui.

- se u è un sistema di valori (range) determinato da una funzione proposizionale φ(x), non-u consisterà di tutti gli oggetti per cui φ(x) è falsa.

3) Tipo successivo: consiste di classi di classi di individui (come le federazioni o le società).

Con questa teoria dei tipi cosiddetta semplice, la contraddizione del sistema fregeano sembrava superata. Eppure Russell constatò che «esiste almeno una contraddizione strettamente analoga ad essa che probabilmente non è risolvibile in base a questa teoria. La totalità di tutti gli oggetti logici o di tutte le proposizioni comporta, a quanto pare, una difficoltà logica fondamentale. Non sono riuscito ancora a scoprire quale possa essere la completa soluzione di tale difficoltà[10]  

Qui viene messo a fuoco il problema logico (e metafisico) di fondo dell’antinomia, che ingenera tecnicamente il circolo vizioso: il problema della totalità. «Dato un insieme qualsiasi di oggetti tale che, se supponessimo che avesse un totale, conterrebbe membri che presupporrebbero questo totale, allora un insieme siffatto non potrebbe avere un totale[11]», pena il circolo vizioso. Whitehead e Russell approdarono alla scrittura dei Principia anche per risolvere questo problema fondazionale cruciale che, come si nota, non è solo un problema tecnico-formale, ma una questione che ha radici profonde nei concetti di totalità e di finito/infinito.

 

I Principia

Nell’Introduzione alla prima edizione (1910) dei Principia sono evidenziati i tre scopi principali dell’opera: 1) enumerare, riducendole al minimo, tutte le idee e le proposizioni primitive (ossia non dimostrate) utilizzate effettivamente nel ragionamento matematico, ossia nelle dimostrazioni deduttive. I Principia e, in generale, l’indagine logica, sono infatti una ricerca sul corretto ragionamento deduttivo (estendibile eventualmente anche ad altri settori oltre la matematica), che superi e corregga le imperfezioni della lingua e l’influsso della psicologia sul ragionamento stesso. 2) Rendere questo processo deduttivo il più chiaro ed esplicito possibile, con l’ausilio del simbolismo, che in fase preliminare va introdotto e spiegato adeguatamente, perché non si ripresentino ambiguità. 3) Risolvere i paradossi noti delle classi.

Importante, dunque, il Capitolo I dell’Introduzione alla prima edizione, che si premura di dare una spiegazione perspicua, abbondante e “in prosa” delle idee e delle notazioni utilizzate, perché poi lo sviluppo corretto delle dimostrazioni e degli argomenti nel corpo del testo sia comprensibile e coerente nel simbolismo. Ecco quali sono.

1) Le variabili, ossia «qualsiasi simbolo il cui significato non sia determinato»[12] e i cui valori possono essere insiemi, proposizioni, classi relazioni… a seconda delle circostanze.

2) Le tre idee primitive non definite:

la contraddizione di qualcosa, o negazione;

la disgiunzione;

il segno di asserzione anteposto ad una formula o espressione: significa che ciò che lo segue viene asserito.

3) Tramite le idee primitive si possono definire altre funzioni di proposizioni, o connettivi:

a) la congiunzione;

b) l’implicazione materiale;

c) l’equivalenza

4) Funzioni primitive del calcolo proposizionale, ossia proposizioni che si utilizzano e che non vengono dimostrate

5) L’assioma di identificazione delle variabili reali: per stabilire se in due differenti funzioni di x, con x indeterminata, si possa identificare la x di una asserzione con la dell’altra.

6) Alcune proposizioni semplici.

7) Le funzioni proposizionali: asserti che contengono una variabile x e che diventano una proposizione vera e propria quando a x venga assegnato un significato fisso determinato.

8) La gamma dei valori (detta anche quantificazione):

9) Le regole di generalizzazione universale, esemplificazione universale; generalizzazione esistenziale.

10) Le implicazioni formali e le equivalenze tra formule.

11) L’identità e le sue proprietà (riflessività, simmetria e transitività); il principio di indiscernibilità degli identici: “se due individui sono identici, allora sono sostituibili indifferentemente nella medesima formula, salva veritate”.

12) La teoria delle classi, delle relazioni (con il tema russelliano delle descrizioni).

La logica che i Principia codificano e che, come abbiamo detto, viene oggi chiamata “classica”, è sostanzialmente caratterizzata da questo elenco di proprietà e principi esposti nell’Introduzione. Molti di tali principi rimandano indietro nella storia del pensiero (come è evidente per il principio del terzo escluso e di (non) contraddizione): essi sono assunti basilari di questo tipo di calcolo, che portano a dei precisi risultati teorici e meta-teorici. Essi costruiscono un certo tipo di logica, così come dalla negazione di essi si costruiscono altre logiche ugualmente consistenti.

I Principia terminano bruscamente, senza alcuna osservazione conclusiva o accenno a ciò che verrà in seguito. Era in progetto un Volume IV, ad opera di Whitehead, sulla geometria. Rimanevano da dimostrare ancora tanti settori, tanti sviluppi delle teorie proposte. Essi sono rimasti un progetto in corso, aperto, come la matematica stessa.

 

Reazioni e sviluppi notevoli

Un fattore decisivo per la notorietà e l’importanza dei Principia Mathematica fu certamente la loro menzione nel titolo di una dissertazione dottorale di un giovane logico di origini austriache, di nome Kurt Gödel (1906-1978) discussa a Vienna nel 1930 e che sarebbe stata poi pubblicata su una rivista tedesca nel 1931. Essa intitolava: “Sulle proposizioni formalmente indecidibili dei Principia Mathematica e di sistemi affini”. Il lavoro di Gödel muoveva da un assunto perfettamente consequenziale all’impianto e all’intenzione di fondo dei Principia, in quanto si chiedeva: può un sistema formale assiomatico e deduttivo come quello dei Principia, con ambizioni di assoluta coerenza e completezza, dimostrare ogni verità della matematica che intende fondare? E, inoltre, può garantire di certificare la sua coerenza, in quanto sistema di calcolo dotato di regole? Le domande erano legittime. È evidente, infatti, che gli assiomi che si pongono come punti di partenza veri per una (qualsiasi) teoria, sono limitati nel numero. Essi riescono a “racchiudere” tutte le conseguenze valide della teoria e dunque derivabili da essi? Detto in altri termini: il sistema è completo? Riesce a gestire il (meta)concetto di verità per enunciati della teoria dei numeri che il programma logicista vuole fondare, ossia riesce a derivare tutte le verità matematiche? La risposta a queste domande fu negativa. E l’apporto straordinario del logico viennese fu che riuscì a dimostrarlo non con ragionamenti e teoremi filosofici, o intuizioni metateoriche, ma nella logica stessa, con una dimostrazione formale estremamente rigorosa, tecnica e, per questo, definitiva. Egli giunse al suo teorema denominato “di incompletezza” rendendosi conto che la verità in teoria dei numeri non può essere definita in teoria dei numeri e dunque intravedendo la possibilità che in sistemi formali che appaiono forti nella loro potenza deduttiva, possano esistere proposizioni vere ma non dimostrabili in essi. L’impatto sullo sviluppo della logica matematica fu enorme. SI dimostrava che esistono proposizioni vere nella teoria dei numeri – Gödel conduceva la sua argomentazione esibendo una di tali proposizioni – che non possono essere decise sulla base degli assiomi e le regole della teoria, ossia non si possono né dimostrare né confutare. Il (meta)concetto di verità per la matematica non coincideva più con il (meta)concetto di dimostrabilità per la matematica. Non solo: anche il (meta)concetto di coerenza di un sistema risultava indecidibile nel sistema stesso. Questo risultato dava un netto arresto al programma “assolutista” di riduzione di tutta la matematica (e dunque della sua verità in toto) al controllo logico. La logica e il suo metodo assiomatico non potevano più candidarsi a base indiscussa, a punto di vista preferenziale, a condizione sufficiente della verità matematica. Non solo i Principia, ma tutti i “sistemi affini” ad essi, citati nel titolo. Ossia a tutti quei sistemi formali che includano in se stessi, oltre alle regole logiche “standard” (quelle relative a negazione, disgiunzione, generalizzazione e identità), una assiomatica per i numeri naturali.

Al di là dei risultati di Gödel, il dibattito sui Principia fu molto acceso da subito, e suscitò tante polemiche quanto studi e sviluppi nei suoi settori fondamentali e sui suoi assunti – logici o anche filosofici? Lo stesso Gödel è severo in questo giudizio:

«È da deplorare che questa prima presentazione completa e approfondita di una logica matematica e della derivazione della matematica da essa [sia] talmente carente di precisione formale nei fondamenti […] che presenta sotto questo aspetto un notevole passo indietro rispetto a Frege. Ciò che manca, soprattutto, è una precisa enunciazione della sintassi del formalismo. Le considerazioni sintattiche sono omesse anche nei casi in cui sono necessarie per la coerenza delle prove[13]

Nonostante molte reazioni al rigore della presentazione, i Principia diedero il via a fondamentali sudi di metalogica. L’attenzione era sui presupposti di cui Whitehead e Russell avevano bisogno per completare il loro progetto. Sebbene i Principia siano riusciti a fornire derivazioni dettagliate di molti dei principali teoremi dell’aritmetica finita e transfinita, della teoria degli insiemi e della teoria delle misure elementari, tre assiomi in particolare erano probabilmente di carattere non logico: gli assiomi dell’infinito, della riducibilità e l’assioma della scelta, che diventeranno oggetto di studi approfonditi, sia di carattere logico che filosofico, nei decenni successivi.

«Sia Whitehead che io eravamo delusi che Principia Mathematica fosse visto solo da un punto di vista filosofico. La gente era interessata a ciò che si diceva sulle contraddizioni e alla questione se la matematica ordinaria fosse stata validamente dedotta da premesse puramente logiche, ma non era interessata alle tecniche matematiche sviluppate nel corso del lavoro [...] Anche chi lavorava esattamente sulle stesse materie non ha ritenuto utile scoprire ciò che Principia Mathematica aveva da dire su di esse[14]

     

[1] B. Russell, I principi della matematica, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 36.

[2] Ibidem.

[3] G. Boole, L’analisi matematica della logica, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 5.

[4] B. Russell, I principi della matematica, I principi della matematica, cit., p. 14

[5] E. Nagel – J. R. Newman, La prova di Gödel, Bollati Boringhieri, Torino 19922, p. 22-23.

[6] G. Frege, Alle origini della nuova logica, a cura di C. Mangione, Bollati Boringhieri, Torino 20202, p. 183.

[7] Oggi riusciamo a classificare una serie di logiche “non-classiche”, che sorgono con la messa in discussione dei postulati fondamentali della logica classica. Tale logica ‘classica’ è proprio quella che viene sancita dai Principia.

[8] Non è un artificio intellettuale definire un tale predicato. Si ha a che fare con esso più di quanto non si pensi. Ad esempio, intuitivamente riteniamo che la classe degli uomini non sia un uomo, e dunque la classe non appartenga a se stessa. Così come intuitivamente riteniamo che la classe dei concetti sia un concetto, e dunque appartenga a se stessa.

[9] Ibidem.

[10] Ivi, p. 721.

[11] Introduzioni, p. 187.

[12] Introduzioni, p. 79.

[13] K. Gödel “Russell’s Mathematical Logic”, in The Philosophy of Bertrand Russell, Paul Arthur Schilpp (ed.), Tudor, New York 19513, p.126 (traduzione mia).

[14] B. Russell, My Philosophical Development, London: George Allen and Unwin, and New York: Simon and Schuster 1959, p.86 (traduzione mia).

   

Docente di Filosofia presso Istituto di Scienze Religiose Ecclesia Mater
2021