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Galileo ritrovato. La lettera a Castelli del 21 dicembre 1613

Michele Camerota, Salvatore Ricciardo, Franco Giudice

Morcelliana,
Brescia 2019
pp. 81
Anno di edizione originale: 2019
ISBN: 9788837232757

Questo piccolo volume nasce dal ritrovamento di una copia autografa di Galileo della lettera che lo scienziato pisano inviò al benedettino P. Benedetto Castelli, già suo studente, il 21 dicembre 1613, conosciuta come una delle “lettere copernicane”. Con questo nome vengono raccolte le lettere che Galileo scrisse per giustificare la compatibilità fra il sistema eliocentrico e le sacre Scritture. Il testo è stato trovato da Salvatore Ricciardo il 2 agosto del 2018 presso la Biblioteca della Royal Society, la prestigiosa accademia scientifica fondata a Londra nel 1660 che ebbe fra i suoi promotori Robert Boyle ed ospitò, fra gli altri, Newton, Locke, Faraday. Il ritrovamento è avvenuto all’interno di un’indagine in cui i firmatari cercavano documenti sulla ricezione del pensiero di Galileo nell’Inghilterra del Seicento. L’importanza del documento deriva dal fatto che esso contiene cancellature e note che risalgono certamente al suo autore, nonché la firma autografa di Galileo, la cui autenticità è stata comprovata confrontandola con altri manoscritti. 

Il volume di Camerota, Giudice e Ricciardo ricostruisce l’itinerario che ha potuto condurre questa versione della Lettera negli archivi della Royal Society e avanza ipotesi su come, lungo quasi 400 anni, tale manoscritto sia rimasto sconosciuto fra i “testimoni” impiegati da Antonio Favaro per editare il testo presentato nell’Edizione Nazionale delle Opere dello scienziato pisano. In sostanza, il testo e i contenuti esegetico-scientifici della lettera a Benedetto Castelli erano ben noti (il visitatore di questo portale può leggerla integralmente a questa pagina), ma mancavano all’appello le note e le correzioni autografe riportate da Galileo, emerse nel ritrovamento del 2018. Sappiamo adesso che la Lettera a Castelli conosce due versioni, la prima inviata e fatta circolare a partire dal 21 dicembre 1613; la seconda, rivista da Galileo nei primi mesi del 1615. La versione a tutti nota era la seconda, ma si ignorava che la lettera avesse conosciuto una versione precedente, quella scoperta, appunto, nella quale emergono le correzioni apportate dallo scienziato. Qual è il fine e quale il tenore di tali correzioni? La prima versione possedeva toni bruschi ed espressioni esegeticamente poco corrette, che sarebbero state facile preda degli oppositori di Galileo. Aggettivi dispregiativi vengono omessi e i toni generali sfumati. La tabella pubblicata dagli AA. in Appendice alle pp. 75-79 mostra i vari interventi, che condussero al textus receptus presentato nell’Edizione Nazionale di Antonio Favaro. Galileo, cosciente delle reazioni che il suo scritto, in realtà privato, stava causando o poteva causare fra i suoi avversari, si affrettò a prepararne una versione corretta, addolcita e teologicamente più conciliante. Il volume di Camerota, Giudice e Ricciardo ha il merito di aver ricostruito questa storia, anche se resta da solo insufficiente per affrontare l’intera questione galileiana, perché limitato all’esame di questo unico documento. Per una visione d’insieme il lettore interessato dovrà rivolgersi, come è facile comprendere, anche ad altri testi.

Può essere curioso segnalare che l’opinione pubblica sembra aver recepito questo nuovo testimone come prova di una certa “furbizia” di Galileo, che smussa toni e aggettivi per evitare guai peggiori. In realtà, le correzioni apportate rendono il testo più preciso e oggettivo e non esprimono compromessi o cedimenti, né indicano strategie politiche. Non sembra averlo compreso l’articolo apparso sulla rivista Nature subito dopo il ritrovamento per darne notizia al grande pubblico, che titolava: Discovery of Galileo’s long-lost letter shows he edited his heretical ideas to fool the Inquisition. In realtà, Galileo non si propose di raggirare l’Inquisizione e la dizione impiegata dall’articolista è storicamente inesatta. In una dichiarazione preparata da alcuni consultori del Sant’Uffizio, datata 24 febbraio 1616, si diceva in effetti che “l’immobilità del sole era ritenuta formalmente eretica e la mobilità della terra “almeno erronea nella fede”. Tuttavia, il plenum della Congregazione del Santo Uffizio, presieduto dal Papa Paolo V, non convalidò mai tale giudizio, in quanto non possediamo alcun atto pubblico che lo formalizzasse. Esso resta solo il risultato del parere richiesto ai consultori. Le decisioni storicamente accertate di Paolo V furono semplicemente due: un’ammonizione personale di Galileo comminatagli attraverso il cardinale Bellarmino, che ingiunse allo scienziato di insegnare l’eliocentrismo solo ex suppositione e non come situazione fisica realmente dimostrata; e inoltre l’introduzione nell’Indice dei libri proibiti di alcuni testi che sostenevano il copernicanesimo, fra cui il De Revolutionibus orbium coelestium dello stesso Copernico. Sulla storia del Decreto del 1616 e i commenti alle vicende che lo determinarono, il lettore potrà consultare lo “Speciale” pubblicato su questo Portale in occasione del IV Centenario del Decreto.