Lavoro

   “Che lavoro vuoi fare da grande?”. Quante volte, quando eri bambino, ti è stata rivolta questa domanda… E chissà quante diverse occupazioni avrai immaginato! Il calciatore, il medico, l’insegnante, lo scienziato, l’archeologo (l’influencer?). Quando pensi al lavoro, forse la prima cosa che ti viene in mente è la retribuzione economica che vi è associata: sono entrato “nel mondo del lavoro”, si dice di solito. Siamo d’accordo, perché il lavoro è la fonte essenziale di sostentamento di ogni persona, di ogni famiglia e di ogni società. Dal lavoro dipende la possibilitàmateriale di acquistare beni e servizi, e anche quella di mantenere altre persone,costruendo una vita per sé e per gli altri.

   Ma il lavoro, a ben vedere, non è soltanto questo. Sarebbe guardarlo in maniera puramente “strumentale”. In realtà nel lavoro – e qui penso soprattutto alla professione o all’attività specifica che deciderai presto di intraprendere – si gioca anche qualcos’altro. Il lavoro è il modo in cui entriamo come soggetti attivi nella società: passiamo dall’essere solo spettatori (sono altri a costruire case e automobili, offrire servizi professionali, pilotare aerei o insegnare all’università…) a diventare attori nel mondo che circonda. Mediante il lavoro, ognuno di noi è chiamato a dare un contributo alla società, a costruire qualcosa, non solo fuori di noi ma anche in noi stessi, realizzando qualcosa che desidera resistere al tempo: come i libri che si scrivono, o le imprese che si fondano, o le scoperte che si fanno. Lavoro, poi, vuol dire collaborazione. Non esistono, in senso stretto, lavori “solitari:” ognuno di noi, per lavorare, deve poggiarsi su altri che ci hanno preceduto e collaborare con colleghi che incontreremo lungo la strada.

   Visto in questa ottica, il lavoro non è semplicemente fonte di guadagno ma diventa servizio: alle persone che ho intorno, alla famiglia che ho formato, alla società, al mondo. Qui tocchiamo un ambito importante: quello dei fini del nostro lavoro. Per cosa e per chi lavoriamo… Buona parte della felicità di un essere umano dipende dal modo con cui egli affronta il lavoro, al quale di norma dedica ogni giorno parecchie ore. Un lavoro insoddisfacente, o peggio frustrante, è fonte di sofferenza, quando non di vera e propria alienazione… Non tutto, però, dipende dalle circostanze esterne: molto dipende da noi stessi. Si racconta che una volta un giornalista vide tre operai che spaccavano pietre, sul ciclo della strada, tutti allo stesso modo, e chiese loro cosa stessero facendo. Il primo gli rispose: sto spaccando pietre; il secondo: sto guadagnando il pane da portare a casa, per vivere; il terzo disse, sorridendo: io sto costruendo una cattedrale! In realtà tutti stavano costruendo una cattedrale, ma primi due lo avevano dimenticato. Ciò influiva anche sul loro modi di lavorare, sui loro sentimenti.

   Grazie al lavoro è il mondo intero a progredire: non solamente al livello culturale, scientifico, tecnologico, ma anche economico, sociale, politico. Lo sforzo fisico proprio del lavoro manuale è diverso, per sua natura, dall’impegno proprio, ad esempio, del lavoro intellettuale, ma entrambi concorrono alla stessa finalità, ovvero l’avanzamento della società. Si tratta di un principio che ritroviamo nell’art. 4 della Costituzione Italiana: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». La Costituzione parla non solo di “progresso materiale”, ma anche di “progresso spirituale” come prodotto del lavoro dei cittadini. A cosa può far riferimento questa “dimensione spirituale”, visto che la Costituzione non è un libro di filosofia o di teologia?

   Un modo di cogliere il modo in cui il lavoro contribuisce al progresso spirituale della società riguarda la sua intrinseca generatività: letteralmente, il lavoro trasforma il mondo, elabora nuove soluzioni, modifica i dati offerti dalla realtà. Nel lavoro l’essere umano scopre la propria creatività, la capacità di immaginare, di innovare. Il lavoro possiede pertanto una sua dignità. Questa, però, viene non di rado ignorata, talvolta perfino calpestata, quando il mercato del lavoro dimentica che il lavoratore è sempre una persona che, in quanto tale, non deve mai essere sfruttata, alienata, umiliata. Le battaglie relative ai diritti dei lavoratori, alle questioni salariali e contrattuali, vanno comprese proprio in questa visione che mette al centro la persona del lavoratore: egli non può mai essere considerato un semplice “ingranaggio”, un pezzo di una macchina più grande di lui.

   Il lavoro è uno dei luoghi più importanti dello sviluppo della nostra personalità. Noi siamo e saremo noi stessi anche grazie al lavoro che svolgeremo. Lo specifico lavoro che sceglieremo e poi realizzeremo contribuirà in modo determinante a formare la nostra mentalità, le nostre capacità, il nostro carattere: un ingegnere non è un poeta, un avvocato non è un medico. Mentalità che non dividono ma devono comporsi nel quadro della società e della famiglia.

   C’è ancora un elemento che può mostrarci la dimensione spirituale del lavoro umano. Chi riceve la Bibbia come testo sacro, vi legge che l’opera della creazione è stata per Dio un “lavoro”. Un lavoro rifinito, portato a termine bene. Un lavoro il cui frutto è buono e bello (il termine greco kalós, con cui si chiude la narrazione di ciascuno dei sei giorni della creazione, indica entrambi i concetti). La Bibbia afferma inoltre che Dio crea l’essere umano “a sua immagine” (Genesi 1,27) affidandogli la terra perché la custodisca e la coltivi. Con il suo lavoro, l’essere umano svolge un’attività analoga a quella che per Dio è creare, diviene suo collaboratore. Un creato, in certo modo, da portare a compimento. Questa visione “alta” del lavoro umano trasmessaci dalla tradizione ebraico-cristiana trova una sua forte espressione nel Nuovo Testamento: Colui che i cristiani credono essere Dio fattosi uomo, Gesù di Nazaret, ha lavorato diversi anni come carpentiere – tektón, dicono i vangeli (Marco 6,3), quasi un tecnico – ed era riconosciuto nella sua cittadina proprio a motivo della sua attività pubblica di lavoratore, come quella svolta da chi veniva ritenuto suo padre, Giuseppe.

   Ma cosa ci dicono ancora i due verbi che, nella Bibbia, qualificano il lavoro umano, affermando che Dio mise l’uomo in un giardino affinché “lo coltivasse e lo custodisse”? Essi descrivono il rapporto tra l’uomo e la materia. Ci dicono che il lavoro ha un aspetto di cura della materia (nella lingua latina “cultura” e “culto” hanno la stessa radice del verbo “coltivare”): dunque, è proprio dell’uomo che lavora “prendersi cura” delle cose. Inoltre, l’uomo non deve trattare il mondo, le persone, le relazioni, con l’idea di appropriarsene, di sfruttarle. Attraverso il lavoro egli deve invece fare in modo che tutte queste cose “fioriscano”, “fruttino”. Non siamo proprietari assoluti del mondo, ma lo condividiamo con altri: mediante il lavoro, “amministriamo” il mondo e di questa amministrazione siamo responsabili verso tutta l’umanità, in particolare verso le generazioni future che lo prenderanno in consegna dopo di noi. E dovremmo lasciarlo meglio di come lo abbiamo ricevuto.

   Queste riflessioni ci conducono verso due concetti finali: servizio e amore. Per quanto possano sembrare distanti dal rumore delle fabbriche, dalle pratiche da sbrigare o dalle costruzioni da progettare, questi due termini esprimono il senso più profondo del lavoro umano. Non lavoriamo solo per noi stessi, sebbene il lavoro faccia crescere anche ciascuno di noi. Se lavoriamo è, in fondo, per servire, e si può lavorare bene solo amando ciò che si fa. Ti auguro di sperimentarlo nella tua vita, e di sperimentarlo presto.