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100 anni dalla “Messa sul Mondo” di Teilhard de Chardin (1923)

Dicembre 2023
Claudio Tagliapietra
docente incaricato di Teologia Fondamentale

«Poiché ancora una volta, o Signore, non più nelle foreste dell’Aisne ma nelle steppe dell’Asia, sono senza pane, senza vino, senza altare, mi eleverò al di sopra dei simboli sino alla pura maestà del Reale; e Ti offrirò, io, Tuo sacerdote, sull’altare della Terra totale, il lavoro e la pena del Mondo».[1]

Così inizia una lunga preghiera del paleontologo e pensatore gesuita Teilhard de Chardin, La Messa sul mondo, composta nel deserto di Ordos 100 anni fa, il 6 agosto del 1923, a quell’epoca Festa della Trasfigurazione del Signore. In questo giorno le tradizioni cristiane ricordano l’episodio dei discepoli che sul monte Tabor restano abbagliati al vedere Gesù splendere di una luce che rende le sue vesti bianche a tal punto che “nessun lavandaio sulla terra” potrebbe lavarle così bene (Mc 9,3). Dopo le parole del Padre che lo manifestano come Figlio prediletto, Gesù si avvicina loro e li “tocca” (Mt 17,7), invitandoli ad alzare senza paura lo sguardo su di lui. Ora sanno che la persona divina di Gesù è capace di intervenire in questo rapporto, di permettere al proprio corpo di manifestare la Gloria del Padre, la sua divina presenza. 

deserto
Chara-Ousso-Gol (Deserto di Ordos), 1923. Diritti: Archives de la Fondation Teilhard de Chardin. Colore: realizzato con cutout.pro

L’episodio sfida la comprensione che i discepoli finora avevano dei rapporti tra Dio e la materia creata: “Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto” (Lc 9,36). Le tante domande vengono custodite nel sacro silenzio del loro cuore. Teilhard si introduce in questo silenzio, annotando tra parentesi quadre la data di redazione di un’esperienza mistica. Quello che leggiamo nella Messa di Teilhard è il resoconto di un evento interiore nato da uno sguardo al panorama del Deserto di Ordos, una zona desertica montuosa nella parte meridionale della repubblica autonoma della Mongolia Interna, in Cina. Teilhard vi si trovava in quanto parte di una spedizione in quanto paleontologo, e non gli era possibile celebrare la Messa. 

Quando all’inizio del saggio egli scrive “ancora una volta”, il gesuita si riferisce a un’esperienza analoga vissuta 15 anni prima durante la Prima Guerra Mondiale. Anche nel saggio “Il sacerdote”, Teilhard aveva esordito con parole simili «Poiché non ho oggi, o Signore, io, il tuo sacerdote, né pane, né vino, né altare, stenderò le mani sulla totalità dell’Universo, e farò della sua immensità la materia del mio sacrificio».[2] I due scritti sono collegati da un sottile filo rosso, quasi a indicare un’esperienza eucaristica continuativa. Per Teilhard, ricorda l’allora cardinal Ratzinger, l’Ostia consacrata è «anticipazione della trasformazione della materia e della sua divinizzazione nella “pienezza” cristologica. L’eucaristia indica, per così dire, la direzione del movimento cosmico; essa anticipa il suo fine e allo stesso tempo spinge verso di esso».[3]

Teilhard per tanti anni ha continuato questo suo silenzioso e lungo canto al potere che l’uomo ha ricevuto da Dio di offrirgli il mondo che ha nelle sue mani. È proprio così, “L’Offerta”, che si intitola la prima sezione di questo saggio, in cui Teilhard inizia a descrivere la propria offerta del mondo, la Creazione, la sua prodigiosa divinizzazione, e il suo essere “risucchiato” nel cuore del mondo nella Comunione con Dio. Da questa Comunione sgorga la sua Preghiera, non qualcosa di solamente spirituale, perché ingloba in sé la materia del mondo. Questa “Messa” speciale ricorda a Teilhard il rapporto che Dio vuole avere con il mondo, con la materia, e che richiede che almeno l’uomo sia in grado di offrirgli quanto ha già ricevuto: “il lavoro e la pena del Mondo”, il mondo in cui vive e si muove, esiste (At 17,28). Da questa esperienza Teilhard trae l’occasione per rinnovare la propria convinzione: a questo Mondo, pane e vino di cui l’uomo si nutre e vive, che nella Messa diviene realmente e veramente Corpo di Cristo, Teilhard si vota integralmente “per viverne e per morirne”.[4]Quante persone da queste parole hanno tratto forza per poter offrire il loro lavoro e le proprie circostanze come preghiera.

Chi non ha grande familiarità con la fede può apprezzare la potenza del linguaggio poetico e mistico impiegato da Teilhard. Senza ignorare, però, che sin dall’antichità si pensava che i poeti avessero un misterioso rapporto con le forze divine (“Cantami o diva del Pelìde Achille”, scriveva Omero), e fossero forse gli unici a poter esprimere in parole il mistero che la prosa non può rendere. Lo stesso Giovanni Paolo II dedicava la sua Lettera agli Artisti «A quanti con appassionata dedizione cercano nuove “epifanie della bellezza per farne dono al mondo nella creazione artistica», includendovi i poeti: «Nessuno meglio di voi artisti, geniali costruttori di bellezza, può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all'alba della creazione, guardò all'opera delle sue mani. Una vibrazione di quel sentimento si è infinite volte riflessa negli sguardi con cui voi, come gli artisti di ogni tempo, avvinti dallo stupore per il potere arcano dei suoni e delle parole, dei colori e delle forme, avete ammirato l'opera del vostro estro, avvertendovi quasi l'eco di quel mistero della creazione a cui Dio, solo creatore di tutte le cose, ha voluto in qualche modo associarvi» (4.4.1999, n. 1). Questa lettera è costellata di riferimenti al lavoro poetico come porta verso Dio: “scintilla divina”, “vocazione artistica”. D’altra parte, non appena il giovane cristianesimo ha emesso i primi vagiti, ha dovuto necessariamente parlare in poesia: pensiamo ai tanti inni cristologici che si ritrovano negli scritti di Paolo di Tarso, e alla poesia sacra di «Ilario, Ambrogio, Prudenzio, Efrem il Siro, Gregorio di Nazianzo, Paolino di Nola» (ibid., n. 7), Gregorio Magno e i “canti”, e gli autori dei tanti inni della tradizione cristiana: «il “bello” si coniugava così col “vero “, perché anche attraverso le vie dell'arte gli animi fossero rapiti dal sensibile all'eterno» (ibid.). 

Pierre Teilhard de Chardin in India, 1935. Diritti: Photos Helmut de Terra.

Questo anniversario può portarci a riscoprire la potenza rivelatrice dell’opera poetica dei mistici. Chi legge La Messa di Teilhard si accorge di essere davanti alle parole di un mistico: tale è il registro della sua poetica con la quale esprime – per usare le parole di Giovanni Paolo II – l'eco del mistero cui Dio ha voluto associarlo. Questo è uno dei doni di Teilhard all’umanità: la sua scienza, la sua fede, la sua vita nel mistero di Dio poteva essere espressa solo in linguaggio poetico, ma non per questo non meno vero. Difficile e oscuro a volte, ma non per questo meno vero. 

L’opera di Teilhard ha nutrito l’interiorità delle ultime generazioni di teologi e pontefici (si ricordano parole di apprezzamento da parte di Paolo VI , Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Francesco). In particolare – nota lo studioso Thomas King – tra gli estimatori dellaMessa Teilhard troviamo Giovanni Paolo II.[5]. Nel 1995, in occasione del cinquantesimo anniversario di sacerdozio, il Pontefice utilizzò un testo della Messa di Teilhard per dire cosa significasse per lui la Messa: l'Eucaristia è «per offrire “sull'altare della terra intera il lavoro e la sofferenza del mondo”, secondo una bella espressione di Teilhard de Chardin».[6]Il testo sembra essere rimasto nel cuore del Santo Padre, ricorda King. Nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia (2003) egli descrive il “carattere cosmico” della Messa quasi ricalcando nella propria vita l’esperienza di Teilhard:

 «Quando penso all'Eucaristia, guardando alla mia vita di sacerdote, di Vescovo, di Successore di Pietro, mi viene spontaneo ricordare i tanti momenti e i tanti luoghi in cui mi è stato concesso di celebrarla. Ricordo la chiesa parrocchiale di Niegowić, dove svolsi il mio primo incarico pastorale, la collegiata di san Floriano a Cracovia, la cattedrale del Wawel, la basilica di san Pietro e le tante basiliche e chiese di Roma e del mondo intero. Ho potuto celebrare la Santa Messa in cappelle poste sui sentieri di montagna, sulle sponde dei laghi, sulle rive del mare; l'ho celebrata su altari costruiti negli stadi, nelle piazze delle città... Questo scenario così variegato delle mie Celebrazioni eucaristiche me ne fa sperimentare fortemente il carattere universale e, per così dire, cosmico. Sì, cosmico! Perché anche quando viene celebrata sul piccolo altare di una chiesa di campagna, l'Eucaristia è sempre celebrata, in certo senso, sull'altare del mondo. Essa unisce il cielo e la terra. Comprende e pervade tutto il creato» (Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, 8).

Il mio incontro con La Messa di Teilhard de Chardin è piuttosto recente e, confesso, analogo. In un Deserto, anche per me. Giovane sacerdote, anch’io. Era il giugno del 2021 e mi trovavo per alcuni giorni di ritiro presso l’isola/eremo di San Francesco del Deserto nella Laguna di Venezia. Stavo attraversando un periodo molto doloroso, la fase terminale della malattia di mia madre. Mentre pregavo in un ambiente di pace il tramonto sulla laguna, le parole iniziali della Messa di Teilhard furono come un fulmine che illuminò a giorno la mia interiorità, e che hanno reso forse più “cosmica” e più “ecclesiale”, più “mia”, la celebrazione della mia Messa quotidiana e il lavoro scientifico che svolgo.

    

Papa Francesco parla della "Messa sul Mondo" nel suo viaggio in  Mongolia (3 settembre 2023) 

La lettura integrale della "Messa sul Mondo" a cura di Matteo Pelle


[1] P. Teilhard de Chardin, “La Messa sul Mondo”, in Inno dell’Universo, Queriniana 1992, p. 9.

[2] P. Teilhard de Chardin, La vita cosmica. Scritti del tempo di guerra (1916-1919), Il Saggiatore, Milano 1971, p. 361.

[3] J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo, p. 25.

[4] Cf. La Messa sul mondo, cit., p. 23.

[5] Per uno studio storico sullaMessa di Teilhard, si legga Thomas M. King, Teilhard’s Mass: Approaches to “The Mass on the World”, Paulist Press, New York/Mahwah 2005.

[6] Giovanni Paolo II, Dono e Mistero, Lev, Citta del Vaticano 1996, p. 84.