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Cosa possiamo sperare? Pensieri di inizio d’anno

Gennaio 2024
Giuseppe Tanzella-Nitti
Ordinario di Teologia Fondamentale, Pontificia Università della Santa Croce

L’inizio di un Nuovo Anno genera pensieri, forse fa fare dei bilanci e sempre suscita qualche interrogativo. C’è una parola che vorremmo poter pronunciare ad ogni inizio di Anno Nuovo, una parola in certo modo sacra: speranza. È un parola che ci qualifica come umani, perché tutti vorremmo poter sperare. Lo sentiamo come un desiderio insopprimibile. Eppure, incontriamo delle resistenze. Speranza, infatti, è una parola troppo vicina ad altri termini che temiamo: illusione, utopia, frustrazione. Termini che ci ricordano le nostre delusioni e l’esperienza di tanti fallimenti. 

Uno sguardo alla situazione internazionale e al pezzo di storia che ci tocca vivere ci porterebbe a ridimensionare ogni aspirazione alla speranza. Conflitti bellici, atti terroristici, violenze domestiche; e ancora un’economia che sembra incentrata solo sulla ricerca di profitto e la produzione di beni di consumo. Insieme a tutto ciò, la difficoltà delle nuove generazioni di poter esprimere il meglio di sé stesse, perché troppo condizionate dalla società consumistica e narcisistica che abbiamo preparato per loro, facendo che i giovani divenissero, come ha scritto un autore contemporaneo, “pesci sani obbligati a nuotare in un mare inquinato”.

La fine del primo quarto del XXI secolo, che avremo interamente trascorso alla fine di questo anno nuovo, però, qualcuno osserverebbe, reca con sé anche degli elementi positivi. Mai come prima d’ora è cresciuta la sensibilità per la custodia della natura e per la sostenibilità dell’ambiente in cui viviamo e operiamo. Pur con tutte le incertezze del caso, e con le differenze palesi fra dichiarazioni di intenti e consenso politico, fra programmazioni e operare pratico, la difesa del pianeta è ormai considerata da tutti una priorità, con un coinvolgimento che rappresenta ormai un punto di non ritorno. Anche la necessità di favorire atteggiamenti inclusivi, che integrino le differenze e sappiano dare a tutti pari opportunità, che ci vedano capaci di assorbire flussi migratori e assicurare dignità e sicurezza a rifugiati e migranti, va considerata come una priorità condivisa, almeno in linea di principio, dalla maggior parte dei nostri contemporanei.

Qualcuno potrebbe aggiungere al bilancio positivo anche lo sviluppo del progresso tecnico-scientifico, che sta notevolmente migliorando la qualità della nostra vita. Grazie alle applicazioni dell’intelligenza artificiale il progresso ci promette oggi di risolvere problemi inabbordabili solo fino a pochi anni fa a motivo della loro complessità ed estensione. Altri, come logico, osserverebbero che sia gli sviluppi della scienza, sia le nuove sensibilità verso la solidarietà o l’ambiente, restano delle acquisizioni fragili, orientamenti che l’egoismo umano è sempre capace di sovvertire e ricondurre forzosamente entro i propri fini.

Tutto ciò rende attuale, allora, la domanda che Immanuel Kant (1724-1804) si poneva in una pagina della sua Critica della Ragion Pura: “Cosa ho il diritto di sperare?” È davvero umano vivere di speranza, oltre il rischio delle delusioni e delle illusioni? Come si ricorderà, è questa la terza delle domande che il filosofo di Königsberg — di cui proprio il 2024 saluterà il 300° anniversario della nascita – indirizzava nel cap. II della “Dottrina Trascendentale del Metodo”, che chiude la prima delle sue Critiche. «Ogni interesse della mia ragione (tanto speculativo quanto pratico) – egli scriveva – si concentra nelle tre domande seguenti: Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa ho diritto di sperare? (Critica della ragion pura, cap. II, sez. II, Laterza, Roma-Bari 2000, 495). La prima domanda indirizzava verso la scienza, la seconda verso l’etica, la terza verso la metafisica.

Nelle prime ore di un nuovo anno torniamo a chiedercelo: Cosa possiamo, davvero, sperare? Quale spazio abbiamo oggi per la speranza, dopo una storia che ci ha insegnato ad essere sobri in ottimismo, mostrandoci tutti gli errori e gli orrori di cui il genere umano è purtroppo capace? Non sarà il caso di prendere le distanze da ogni aspettativa? Un post ironico che circolava sui social  tempo fa mostrava il ritratto di un umano avvertendo: “Diciamoci la verità: Homo sapiens ci ha deluso”. A chi o a cosa dovremmo allora dirigere la nostra speranza?

Kant riprende nella Critica del Giudizio  la terza domanda da lui posta nella Critica della Ragion Pura. All’interrogativo “Cosa mi è lecito sperare?” egli risponde: “Mi è lecito sperare che esista Dio” (cf. Critica del giudizio, § 87 e Nota generale alla teleologia). Dalla sua prospettiva idealista, il filosofo prussiano riconosce che la vita non varrebbe la pena di essere vissuta, né alcuna etica meriterebbe di essere rispettata, se non vi fosse la speranza di un Dio garante della giustizia, di fronte al quale bene e male conservano una distinzione radicale. Egli vi giunge dal basso, come gli impone il suo interrogativo categorico, postulando questa idea di Dio come l’unica in grado di soddisfare quanto l’essere umano cerca, appunto, dal basso. Una rivelazione di Dio nella storia non è, in questo contesto, contemplata, ed ogni pretesa di rivelazione dovrà essere misurata, come per Fichte, solo su quanto l’essere umano legge nella propria coscienza.

Per Kant, è questo un “diritto” che nessuno potrebbe mai toglierci: sperare che la storia degli uomini, la storia del cosmo (la Critica del giudizio  ospiterà anche una riflessione sulla teleologia nella natura), la storia di ciascuno di noi, sia nelle mani di un Dio. Questo gradino della speranza è il più basilare di tutti, il primo da scalare; è un gradino alla portata di tutti, un gradino conforme alla nostra umanità, che anzi lo postula.

Chi volesse proseguire questa prospettiva dal basso, ancorata all’esperienza della nostra coscienza e all’osservazione della realtà può già mettersi in cammino. Il diritto di sperare ci spinge a operare secondo verità e ricercando il bene, cominciando dalle cose che abbiamo a portata di mano; prima dei problemi globali, di fronte ai quali ci scopriamo impotenti, ciascuno può sforzarsi di influire positivamente nell’ambiente in cui si muove. È il piccolo bene realizzato nel quotidiano, di cui tutti abbiamo bisogno e che ci incoraggia, incoraggiando gli altri. È il sorriso che non costa nulla, ma fa ricchi molti. O, per dirla con Oscar Wilde, è riconoscersi ancora tutti nel fango ma sempre capaci, se vogliamo, di guardare le stelle. Possiamo comunicare speranza confidando nel valore del buon esempio, apprezzandolo negli altri e cercando di offrire ad essi il nostro. Possiamo, forse dobbiamo, avere speranza nella razionalità dell’essere umano, nella sua capacità di ergersi con la ragione e la cultura al di sopra della natura e della vita istintiva. Possiamo sperare che egli sappia affidare la soluzione dei conflitti alla ragione, al dialogo, non alla violenza sull’altro e alla legge del più forte. Possiamo ancora sperare che la verità, cercata con sincerità e senza pregiudizi, ci accomuna, non divide. Questo ci è lecito sperare, come umani, e segna la nostra specificità.

A questo itinerario, chi condivide la fede cristiana può aggiungere però ancora qualcosa. Può mostrare che questa speranza, così intensamente desiderata dal basso, non è speranza illusoria, ma speranza ragionevole, perché ancorata dall’alto. La fiducia nella razionalità dell’essere umano, nella sua capacità di dialogo, il suo ritenerlo ancora in grado di separare la verità dall’errore, il bene dal male, hanno fondamento nel suo essere immagine e somiglianza di Dio. Vuole ricordarlo al mondo quel Bambino che i cristiani mettono in questi giorni al centro del presepe, in quei pochi luoghi ove si continua a fare. Chi crede che il Logos si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi, crede che la nostra natura umana è adatta per essere assunta da Dio, quel Dio in cui ci è lecito sperare. Il Natale ci parla della nostra condizione di esseri creati a immagine e somiglianza di un Creatore che ci ama al punto da venirci incontro e mettersi nei nostri panni. Qui si fonda la speranza che l’essere umano sia davvero capace di verità, di bontà e di amore, ben oltre l’egoismo e l’odio. È quel tenue, ormai quasi sussurrato sentimento di calore umano e di bontà che il Natale continua a suscitare, ormai quasi solo inconsciamente, in coloro che non hanno avuto il coraggio di cancellarne la data. Non è un caso che il 25 di dicembre, intenzionalmente posto vicino alla vittoria del sole sul buio della notte, sia anche vicino all’inizio di ogni nuovo anno. È lecito sperare. È lecito sperare che esista un Dio. È lecito annunciare, come fanno i cristiani, che questo Dio, fondamento della nostra speranza, ci sia venuto incontro nella storia, oltre il mito.