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Meccanica

Anno di redazione: 
2002
Alberto Strumia

I. La meccanica come studio del moto - II. Il moto come concetto filosofico-teologico. 1. L'approccio fisico. 2. L'approccio metafisico. 3. L'approccio matematico. 4. Il mutamento negli enti non corporei: aspetti filosofico-teologici. - III. L'indagine scientifica del moto. 1. La meccanica newtoniana. 2. La meccanica relativistica. 3. La meccanica quantistica. 4. Instabilità e caos deterministico. - IV. Meccanicismo e riduzionismo. 1. Che cos'è il meccanicismo. 2. Meccanicismo e struttura dell'universo. 3. Riduzionismo e matematica. - V. Meccanica e causalità. 1. Causalità meccanica. 2. Causalità formale matematica. 3. Causalità filosofica. - VI. Meccanica e finalismo. 1. Il finalismo nella formulazione delle leggi. 2. Il principio antropico. 3. Osservazioni conclusive.

I. La meccanica come studio del moto

Il termine «meccanica» (gr. mechané, macchina, mechanikós, ingegnere; lat. mechanica) denota quel ramo della fisica che si occupa dello studio del «moto», o «movimento», dei corpi materiali (cfr. ad es. Goldstein, 1971, p. 1). Nel mondo greco antico, sotto l’influsso del pensiero platonico, lo si impiegò spesso con un’enfasi piuttosto negativa, se non dispregiativa, in quanto la meccanica, intesa come “arte” sperimentale (téchne), più che come scienza teorica, comportava una manualità di tipo materiale che si opponeva all’elevarsi del pensiero al “mondo delle idee” (cfr. Koyré, 1969). È noto che, «benché sia stato considerato uno dei più grandi geni di tutti i tempi della meccanica, Archimede (287-212 a.C.) aveva un sincero disprezzo per le sue invenzioni pratiche» (Bell, 1990, p. 28). Nonostante questo, i suoi metodi di ricerca furono giudicati magistrali, secoli più tardi, da Galileo (1564-1642) che lo considerò come maestro (cfr. Koyré, 1976, p. 71), e alcuni suoi risultati, come il famoso principio — secondo il quale un corpo pesante immerso in un fluido riceve una spinta verso l’alto pari al peso del volume di fluido spostato — sono tuttora riconosciuti validi. Per quanto riguarda la meccanica degli antichi, poi, nell’ambito di quella che noi oggi chiamiamo «meccanica celeste», in quanto legata all’astronomia, sappiamo anche come i Babilonesi, intorno ai secoli VIII-VII a.C. fossero già in grado di prevedere le eclissi lunari (cfr. Daumas, 1969, p. 181).

A differenza della matematica pura, ove i nuovi risultati si sono aggiunti nel tempo a quelli già acquisiti, senza modificarli sostanzialmente, ma al più conducendo a ripensarne la formulazione, la meccanica ha invece subìto, nel corso dei secoli, un’evoluzione che l’ha portata alla messa a punto di nuove teorie che hanno richiesto, più di una volta, mutamenti radicali di concezione rispetto a quelle che le hanno precedute. Basti pensare anche solo ai recenti passaggi dalla meccanica newtoniana a quella relativistica e alla meccanica quantistica. Se rimane vero che una nuova teoria deve poter riprodurre, in prima approssimazione, i risultati della teoria che viene da questa superata, è pure vero che essa comporta, contemporaneamente, una revisione concettuale di portata più o meno ampia. Alcuni autori hanno ritenuto addirittura che tali mutamenti di concezione siano accompagnati dall’insorgere di nuove metafisiche “incommensurabili” con quelle che le hanno precedute (cfr. ad. es. P. Feyerabend, Contro il metodo, Milano 1990, p. 39ss). Certamente, comunque, anche al di là del problema della “discontinuità”, o della “continuità”, nella razionalità scientifica — problema questo che ha fatto discutere un po’ tutti gli epistemologi contemporanei (per una breve rassegna cfr. Strumia, 1992, parte IV) — il problema del moto si è rivelato, fin dalle origini, di grande interesse filosofico, oltre che scientifico.

Cercheremo, perciò, di analizzare, per quanto possibile, la questione da entrambi i punti di vista — filosofico e scientifico — e di considerarne le interrelazioni. Può essere utile, inoltre, tenere presente una certa complementarità tra la presente voce e quanto da noi esposto nella voce materia: se in quella si esamina principalmente il problema della “struttura” e degli “elementi costitutivi” dei corpi, in questa si considera prioritariamente il problema della loro “evoluzione” nel tempo e dei loro “mutamenti”; in quella l’indagine sulla struttura della materia pone l’accento su ciò che “permane” in un corpo durante il suo mutamento, garantendogli un’identità, in questa l’indagine sul moto lo pone piuttosto su ciò che “cambia”, sul modo in cui avviene tale cambiamento e sulle cause del mutamento.

  

II. Il moto come concetto filosofico-teologico

Dal punto di vista filosofico, il problema del moto si ricollega, anzitutto, al classico problema del “divenire”: come è possibile che avvenga il mutamento, in qualunque forma esso si manifesti? Fin dall’antichità la ricerca di una spiegazione della coesistenza di qualcosa che permane (un fisico di oggi direbbe un «invariante») e di qualcosa che muta, nel medesimo soggetto, è stata fonte di numerosi paradossi la soluzione dei quali ha costituito una grande sfida, sia per la fisica che per la matematica e per la filosofia. In questa sezione cercheremo di prendere in considerazione la diversificazione “qualitativa”, diciamo meglio “metafisica”, tra i diversi modi di accostare l’indagine sul moto e di indicare anche quegli aspetti che riguardano più direttamente la filosofia e la teologia.

1. L’approccio fisico. I filosofi ionici (VI-V sec. a.C.) — come Talete, Anassimene, Anassimandro, ecc. — che vennero poi chiamati anche “fisici”, in quanto studiosi della natura (gr. physis), si posero il problema di ricercare quali fossero gli “elementi costitutivi” del mondo che cade sotto i nostri sensi. Sembra, per quanto possiamo ricavare dalle informazioni che ci rimangono e da quanto riportano i pensatori a loro successivi, che essi fossero preoccupati maggiormente di individuare il principio costitutivo unitario di tutto il mondo sensibile. «Per tutti questi pensatori, pur facendo una diversa scelta del principio, non è dubbio che la materia sia qualitativamente unica, perché tutte le specie diverse si vedono trasformarsi l’una nell’altra nel grande osservatorio geografico e meteorologico del mondo. L’unità risulta per loro da un principio razionale di permanenza implicitamente accettato, per cui l’ultima natura delle cose persiste invariata attraverso l’apparenza dei cambiamenti» (Enriques e De Santillana, 1973, p. 15). Il cambiamento e il moto sono considerati come dati “primitivi”, riscontrabili nell’esperienza e che non necessitano di una spiegazione, mentre ciò che va spiegato è il permanere delle cose, al di là del mutamento e del movimento che le anima. Con Eraclito (530-470 a.C.) il punto di vista si capovolge e il mutamento stesso viene assunto come principio fondamentale dell’universo, mentre il permanere delle cose viene considerato come apparente. Il moto, tuttavia, non è spiegato nel senso propriamente “fisico” del termine, ma descritto come una continua transizione tra opposti, senza una comprensione in termini causali. Democrito (460-360 a.C.), che formulò la teoria atomica della materia — rifacendosi a un’idea di Leucippo (V sec. a.C.) — introduce l’esistenza del vuoto e concepisce il moto come spostamento degli atomi attraverso di esso.

2. L’approccio metafisico. Con Parmenide (V sec. a.C.) avviene il passaggio vero e proprio dall’approccio fisico all’approccio metafisico. La domanda con cui il problema della comprensione della realtà viene affrontato, adesso, non è più: «quali sono gli elementi costitutivi?», ma «come è possibile il cambiamento nelle cose?», il divenire, e a questa domanda si cerca una risposta in termini di “princìpi”, non accontentandosi di constatare il divenire e il moto come un dato di fatto. «Egli vorrebbe spiegare il processo, o il divenire del mondo, come effetto di cause che debbono dar ragione degli avvenimenti» (Enriques e De Santillana, p. 46), ma ammettendo un unico principio costitutivo della realtà — l’essere indifferenziato e sempre identico a se stesso — non può concepire la realtà del moto, del cambiamento, in quanto non può esservi alcun passaggio da un modo di essere ad un altro modo di essere di una medesima cosa. L’ente di Parmenide, infatti, è “univoco”, possiede un solo modo di essere e, quindi, è del tutto immobile e immutabile non potendo che rimanere identico a se stesso, non avendo qualcosa di altro da sé in cui mutarsi. Bisognerà attendere Aristotele (384-322 a.C.) per avere una teoria metafisica in cui sia comprensibile la possibilità del moto, senza contraddizioni logiche. E questa teoria dovrà essere inseparabilmente collegata con una teoria della natura dei corpi materiali («ilemorfismo»), per rendere comprensibile anche quel particolare tipo di moto che è il loro “moto locale”. Per poter divenire (e in particolare perché i corpi possano muoversi), l’essere deve essere strutturato secondo certi princìpi costitutivi, la negazione dei quali rende incomprensibile, perché contraddittoria, la coesistenza di essere e divenire, il divenire dell’essere e, quindi, il moto.

Con Parmenide il moto non è concepibile a causa dell’univocità dell’essere, con Eraclito viene descritto al prezzo di introdurre la contraddizione dovuta all’esistenza di un non-essere, il nulla (o “vuoto-di-essere”) al quale si attribuiscono i caratteri propri dell’essere. Con Aristotele la spiegazione del moto si ha nella teoria della “potenza” e dell’“atto”, che consente di introdurre modi differenziati di essere, intermedi tra l’essere, nel senso di Parmenide, e il non-essere, o “vuoto” di Eraclito e Democrito. La questione viene affrontata da Aristotele nel libro III della Fisica: «C’è qualcosa che è solo in atto, e qualcosa che è in potenza e in atto: e tale distinzione va applicata all’essenza determinata, alla quantità, alla qualità e, parimenti, alle altre categorie dell’essere» (Fisica, III, 1, 25). L’idea fondamentale che sta alla base sia della spiegazione della natura delle cose, che del moto è, dunque, la diversificazione dell’ente secondo una pluralità di modi di essere, per cui l’ente si dice e si attua in molti modi. In tale maniera il moto è concepito come l’atto con cui un ente passa da un modo di essere (nel quale si trova in atto) ad un altro modo di essere (rispetto al quale è in potenza): «L’atto di ciò che è in potenza, in quanto tale, è il movimento» (III, 1, 10). L’inciso «in quanto tale» — che Aristotele enfatizza («Io insisto sull’espressione “in quanto tale”»: III, 1, 30) — denota il fatto che il modo di essere “finale” del soggetto che si muove non è compiutamente attuato (se c’è moto), e se fosse completamente attuato non ci sarebbe moto, così come se non fosse attuato per nulla.

È interessante osservare due cose: a) una simile definizione è talmente ampia da identificare il moto con qualunque tipo di divenire, o cambiamento: il mutamento di un soggetto in un altro soggetto (mutazione “sostanziale”, come ad esempio nel caso di una reazione chimica), il cambiamento delle qualità, o proprietà di un soggetto (mutazione accidentale secondo la qualità, come nel caso di un cambiamento di temperatura, o di colore di uno stesso corpo), il cambiamento nella quantità di un soggetto (mutazione accidentale secondo la quantità, come nella crescita di un vivente), il cambiamento di posizione di un corpo rispetto ad un altro (mutazione accidentale secondo il luogo, o moto locale); b) in questa definizione non è coinvolto il concetto di tempo. Contrariamente a quanto siamo abituati a pensare i concetti di tempo e di spazio non sono primitivi, come vuole la concezione newtoniana dello spazio e del tempo “assoluti”, ma sono derivati. Aristotele, infatti, deriva il concetto di tempo da quello di moto (come “numero” associato ad una “relazione d’ordine” che caratterizza il moto, cfr. Fisica IV, 11, 30) e quello di spazio da quello di contatto tra i corpi. Una visione più vicina a quella della relatività generale di Einstein (1879-1955) che a quella di Newton (1643-1727): infatti «per Einstein come per Aristotele sono il tempo e lo spazio ad essere nell’universo e non viceversa» (Koyré, 1971, p. 269).

Osserviamo che, come accade di regola nella fisica aristotelica, sono questi princìpi metafisici che la fondano ad essere ancor oggi interessanti e utili dal punto di vista epistemologico. Mentre nella parte più propriamente fisico-meccanica (nel senso moderno dei termini), là dove Aristotele cerca una spiegazione della costituzione dei corpi (teoria dei quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco), o dei processi fisici, o meccanici attraverso i quali il moto avviene (distinzione tra moto naturale e moto violento, azione motrice dell’aria, ecc.), la sua fisica risulta evidentemente troppo qualitativa e insufficiente, quando non errata, dal punto di vista della scienza quantitativa moderna (cfr. Sanguineti, 1992).

3. L’approccio matematico. L’approccio matematico all’universo venne intrapreso da Pitagora (VI sec. a.C.) e dai suoi seguaci. In luogo degli “atomi”, introdotti più tardi da di Democrito, in questo caso, compaiono i “punti” che ci riportano ad una descrizione geometrica dello spazio fisico. I pitagorici non avevano la preoccupazione di descrivere l’aspetto ponderabile della natura e neppure quello dinamico, quanto quella di coglierne l’ordine e l’armonia, la “musicalità”, attraverso i rapporti numerici. In questo senso essi compirono un passaggio da una descrizione materialista ad una descrizione astratta, o ideale del cosmo. E, dal momento che i pitagorici conoscevano la corrispondenza tra i punti di una retta e i numeri, la descrizione era nel contempo geometrica e aritmetica, o come si suol dire “aritmo-geometrica”. La crisi dei numeri “irrazionali”, però, non fu pienamente superata che secoli più tardi e questa impostazione matematizzante, che aveva fondato l’intero sistema di vita e di pensiero dei pitagorici, entrò in crisi e si bloccò per molto tempo. La geometria analitica cartesiana la riprenderà, in un certo senso, in chiave moderna. Per quanto riguarda il problema del movimento, bisogna dire che, dai pitagorici, il moto sembra essere visto più come uno “stato” che come un cambiamento, soprattutto se ci si riferisce alla perfezione dei moti celesti. La loro visione è prevalentemente geometrica piuttosto che dinamica. Anche se l’accostamento è senz’altro arbitrario, a noi tutto questo può far venire in mente, in qualche modo, la struttura spazio-temporale unificata della teoria della relatività, in cui anche il tempo viene rappresentato secondo una visione statica e puramente geometrica.

L’indagine sul moto ha posto un problema di grande rilievo, per la storia della matematica, quale è il problema del “continuo” e, insieme con questo il problema dell’infinito con i suoi paradossi. Come osservava già Aristotele: «Sembra che il movimento faccia parte dei continui; e l’infinito si manifesta in primo luogo nel continuo. Perciò, a chi definisce il continuo capita di servirsi spesso del concetto di infinito, perché è continuo ciò che è divisibile all’infinito» (Fisica III, 1, 15). I primi celebri paradossi, inerenti al problema del moto, che emergono là dove entrano in gioco la necessità di “attraversare l’infinito” e “l’infinita divisibilità” del continuo, sono legati al nome di Zenone (495-435 a.C.). Discepolo di Parmenide, egli ne spinse all’estremo i princìpi, deducendone la contraddittorietà e, quindi, l’impossibilità concettuale e metafisica del moto. Secondo il “paradosso della dicotomia” «il movimento è impossibile, perché, prima che il mobile abbia raggiunto il punto di arrivo della sua traiettoria, dovrà aver percorso la metà della distanza, e così di seguito, all’infinito; il che vuol dire, in termini moderni, che il movimento suppone la somma, o sintesi, di un numero infinito di elementi» (Koyré, 1971, p. 10). Nel “paradosso di Achille e la tartaruga”, «il movimento è impossibile, perché un corridore più veloce non potrà mai raggiungerne uno più lento. Infatti, se quest’ultimo, all’inizio del movimento, ha un vantaggio sul corridore più veloce, questo, prima di raggiungerlo, deve arrivare nel punto in cui si trovava quello più lento all’inizio del moto. Il vantaggio, sarà così diminuito, ma non si annullerà mai. In termini moderni questo vuol dire: 1° che ogni corpo deve attraversare un numero infinito di punti […]; 2° poiché ad ogni punto della traiettoria di Achille corrisponde un punto della traiettoria della tartaruga che gli sta davanti, e viceversa, il loro numero deve essere necessariamente lo stesso. È, quindi, impossibile che il cammino percorso da Achille sia maggiore di quello percorso dalla tartaruga nello stesso intervallo di tempo» (ibidem, pp. 10-11). Il “paradosso della freccia” si presenta in maniera diversa, ma giunge alla stessa conclusione: l’impossibilità del moto. «La freccia che vola è immobile, in ogni istante e in ogni punto della sua traiettoria. In effetti se, secondo l’ipotesi finitista, si ammette che ogni intervallo di tempo sia composto di elementi indivisibili (punti e istanti), allora la freccia, deve essere necessariamente a riposo in ogni punto e in ogni istante. Infatti, in istanti e punti indivisibili il moto non può avere luogo» (ibidem). Infine il “paradosso dello stadio”: «Tre linee di uguale lunghezza, composte dello stesso numero di elementi indivisibili si trovano in uno stadio: una è immobile, le altre due si muovono parallelamente alla prima, ma in verso opposto l’una rispetto all’altra. In questo caso — secondo l’ipotesi finitista — “la metà deve essere uguale al tutto”, come dice Zenone. Perché, in un determinato istante, supposto indivisibile, un solo e medesimo elemento spaziale deve passare davanti sia a uno che a due elementi spaziali e, di conseguenza, essere uguale contemporaneamente a uno e a due elementi» (ibidem).

Questi e altri paradossi insorgono per due ragioni: la prima è che si considerano le infinite parti (punti o istanti) di una linea o di un intervallo di tempo, come se fossero “attualmente” esistenti nella linea, o nell’intervallo di tempo, mentre, in realtà, esse lo sono solo “potenzialmente” e, quindi, non c’è nessun “infinito attuale” da attraversare (cosa che sarebbe impossibile fare). La seconda è che si considerano i punti, e gli istanti — frutto dell’operazione di divisione infinita — come se fossero indivisibili, mentre, nella teoria moderna del continuo, l’operazione di divisione (di lunghezze e durate) produce solo elementi dello stesso “genere” di quelli dai quali si è partiti (cioè ancora lunghezze e durate), quindi elementi ancora divisibili, pur se di dimensioni piccole a piacere. In sostanza, i paradossi nascono dalla identificazione di ciò che oggi i matematici chiamano «infinitesimi» con elementi privi di dimensione e quindi, non omogenei con le grandezze da dividere da cui si è partiti. Se, in alternativa all’approccio del continuo, si affrontasse il problema del moto con un approccio “discreto”, allora il moto, come passaggio continuo e graduale da una posizione all’altra, non sarebbe neppure pensabile e bisognerebbe concepirlo, piuttosto, in termini di “salti”, discontinui e istantanei, da uno stato del sistema mobile a ad un altro, come avviene nelle transizioni dei livelli atomici secondo l’odierna meccanica quantistica.

4. Il mutamento negli enti non corporei: aspetti filosofico-teologici. Occupandosi del moto dei corpi materiali la meccanica studia, tra tutti i tipi di movimento, quello che viene solitamente definito come “moto locale”, in quanto è caratterizzabile mediante il cambiamento delle posizioni e delle distanze tra i corpi, o le parti di uno stesso corpo. Tuttavia, come si è rilevato, il moto e il divenire sono nozioni molto più ampie di quella di “moto locale”, che costituisce un caso particolare. Di questa maggiore ampiezza si sono occupate la filosofia e la teologia. Tali discipline, infatti, hanno a che fare anche con enti non corporei e si sono preoccupate di indagare il mutamento di tali enti. Una simile indagine, evidentemente, non può essere condotta mediante la sperimentazione diretta e osservativa, ma sulla base dei princìpi della logica e della metafisica, per quanto riguarda la filosofia, e facendo riferimento ai contenuti della Rivelazione, per quanto riguarda la teologia.

Basandosi sull’analisi aristotelica del moto (vedi supra, II.2), Tommaso d’Aquino aveva rilevato come il moto può verificarsi, in un ente immateriale, solo a condizione che questo sia diversificato in se stesso e, quindi, non del tutto semplice. Di conseguenza non si può parlare di “moto” in Dio (cfr. Summa theologiae, I, q. 9), essere semplicissimo (cfr. ibidem, q. 3), Atto Puro, nel quale tutto coincide con il suo stesso Essere e nel quale non c’è nulla da raggiungere che in Lui non sia attuato perfettamente. Mentre si può parlare, in senso analogico, di un moto negli angeli (cfr. ibidem, q. 53) o anche nell’anima umana, pure quando separata dal corpo. Questi, infatti, pur essendo di natura immateriale (spirituale), presentano un certo grado di composizione, essendo dotate di facoltà distinte dall’essenza (“potenze”), mediante le quali agiscono, mutando il loro stato e la loro azione su altri esseri. Il moto, in questi enti consiste in questo mutamento da uno stato ad un altro e nel loro agire ora su un ente da essi distinto, ora su un altro. Poiché questi esseri immateriali (angeli e anime separate) possono esercitare un’azione su altri esseri, si può parlare, in senso analogico, non solo di un moto interno ad essi legato all’esercizio delle loro facoltà conoscitive e volitive, ma anche di un moto locale in quanto di un ente immateriale si può dire che è là dove agisce. E, poiché Dio è presente in ogni luogo, in quanto agisce su ogni essere creandolo e conservandolo in esistenza, non gli si può attribuire in alcun modo neppure un moto locale.

  

III. L’indagine scientifica del moto

La scienza moderna, che si fonda sul metodo galileiano, abbandona l’approccio metafisico per riprendere, rifondandoli e in un certo senso unificandoli, sia l’approccio “fisico” dei filosofi ionici che quello “matematico” dei pitagorici. Lo scopo di questa sezione non è tanto quello di riproporre una descrizione completa delle diverse teorie scientifiche del moto, quanto quello di mettere in rilievo i principali mutamenti di concezione nella meccanica, che i passaggi da un paradigma all’altro hanno comportato (per il concetto, ormai classico, di «paradigma», cfr. Kuhn, 1969).

1. La meccanica newtoniana. La meccanica newtoniana si è formata attraverso un graduale abbandono dei concetti qualitativi della meccanica aristotelica, che si rivelò essere non corretta, per sostituirli con un approccio quantitativo-relazionale di tipo archimedeo, cioè matematizzato. Questa sostituzione degli aspetti descrittivi della fisica di Aristotele fu accompagnata anche da un abbandono della sua teoria dei fondamenti, non più compresa correttamente soprattutto a causa di una graduale perdita di comprensione della nozione di analogia — la cui teorizzazione e applicazione ebbe il suo culmine con Tommaso d’Aquino — che in essa giocò un ruolo fondamentale. E l’abbandono della metafisica di Aristotele vide un graduale, ma deciso, spostamento del pensiero scientifico in formazione verso il platonismo (cfr. Koyré, Introduzione a Platone, 1973, pp. 160 e ss.). Alla luce delle acquisizioni della scienza di questi ultimi decenni, sembrerebbe di poter dire che, se l’abbandono della meccanica aristotelica ha portato un indiscutibile guadagno per la scienza, l’abbandono della metafisica aristotelica è stato, almeno in parte, una perdita, in ordine alla teoria dei fondamenti. Al giorno d’oggi, le scienze — soprattutto quelle della complessità — sembrano mostrare, però, una nuova apertura verso un certo recupero della metafisica aristotelica e tomistica, dalle quali possono venire indicazioni decisive in ordine al superamento del riduzionismo nelle scienze.

Ma, al tempo di Galileo, di fronte ad un aristotelismo ormai corrotto, «il concetto di forma che è alla base della dottrina ilemorfica e di tutta la fisica aristotelica era stato frainteso dalla scolastica della decadenza: la “forma” che nel pensiero genuino di Aristotele e di Tommaso d'Aquino è una realtà incompleta e parziale, un ens quo, veniva, invece descritta come una sostanza completa, un ens quod, implicando così una sequela di contraddizioni» (Masi, 1957, p. 85). L’approccio quantitativo alla meccanica fu possibile solamente imboccando la strada della semplificazione astrattiva. Questa richiedeva di isolare il più possibile, tra i tanti fattori che occorrono durante il moto, uno solo di essi, ritenuto rilevante, astraendo dagli altri rendendoli trascurabili. Basti pensare, a questo proposito, al paziente lavoro di Galileo per ridurre al minimo gli effetti dell’attrito sulle sue misurazioni. La matematizzazione della meccanica (e più in generale di tutta la scienza), già sostenuta nel XIII secolo da Ruggero Bacone, come la strada giusta da imboccare seguì due vie: a) dal punto di vista sperimentale comportò il grande passaggio dal «mondo del pressappoco all’universo della precisione» (cfr. Koyré, 1969), con la graduale messa a punto di strumenti e metodi di misura sempre più accurati: nel campo dell’astronomia è ben noto l’esempio offerto dalle accurate misurazioni di Tycho Brahe (1546-1601), alle quali il discepolo Keplero (1571-1630) prestò la massima fiducia, fino a rimettere in discussione tutta la sua precedente elaborazione teorica (cfr. Koyré, 1969, pp. 128ss); b) dal punto di vista teorico comportò l’unificazione della meccanica celeste e di quella terrestre, sulla base di una teoria unitaria della materia che ammetteva un unico tipo di “materia” alla base della costituzione sia dei corpi celesti che di quelli della sfera sublunare. Questo orientamento teorico comportò il duplice lavoro di messa a punto di una “cinematica” (ciò di una descrizione geometrica e analitica di come il moto, di fatto avviene) e di una “dinamica” (cioè di una indagine sulle cause del moto) che funzionasse altrettanto bene per i moti dei pianeti e per i moti dei corpi al suolo.

Concettualmente i principali passaggi compiuti furono, per quanto riguarda la cinematica celeste: a) l’acquisizione del punto di vista eliocentrico che semplificava la descrizione dei moti planetari, con Copernico (1473-1543); b) il passaggio dalla circonferenza all’ellisse per descrivere i moti planetari e, più in generale le tre leggi di Keplero. Per quanto riguarda la cinematica terrestre: a) la determinazione della legge della caduta dei gravi (Galileo); b) il principio d’inerzia ricavato tramite gli esperimenti con i piani inclinati (sempre con Galileo), che costituirà il raccordo con la successiva dinamica newtoniana. Dal punto di vista della dinamica, saranno le leggi di Newton a consentire l’unificazione vera e propria tra il mondo terrestre e quello astronomico.

Tutti gli sviluppi successivi della meccanica razionale del XIX secolo non saranno altro che potenziamenti del paradigma newtoniano, dovuti allo sviluppo di strumenti dell’analisi matematica e della geometria sempre più avanzati. La meccanica di Lagrange (1736-1813), di Eulero (1707-1783) e di Hamilton (1805-1865) porteranno a successive formulazioni della meccanica newtoniana, equivalenti sotto opportune condizioni analitiche, che ne estendono l’applicazione a sistemi meccanici sempre più strutturati (dalla meccanica del punto materiale a quella del corpo rigido, dei sistemi olonomi e anolonomi a più gradi di libertà, a quella dei continui deformabili solidi e fluidi, ai campi di forze di qualsivoglia natura). Si giungerà, così, a tre formulazioni analitiche della stessa meccanica newtoniana, equivalenti sotto opportune condizioni: a) la formulazione in termini di equazioni differenziali (equazioni di Lagrange ed equazioni di Hamilton); b) la formulazione variazionale (con il principio di minima azione di Hamilton e il principio di Maupertuis); c) la teoria di Hamilton-Jacobi che interpreta il moto in termini di un’opportuna trasformazione canonica (cioè di una trasformazione che lascia invarianti le equazioni di Hamilton). Gli strumenti matematici comuni a tutte queste formulazioni generalizzate della meccanica di Newton saranno comunque il calcolo differenziale e integrale. L’identificazione di costanti del moto (integrali primi e invarianti) e di leggi di conservazione legate a simmetrie (teorema di Noether) consentirà di ottenere una comprensione dei risultati sempre più interessante e significativa sia dal punto di vista matematico che fisico.

Tuttavia, l’abbandono della vecchia metafisica, pur avvenuto ormai da qualche secolo, si farà sentire, in ritardo ma inesorabilmente, anzitutto con l’insorgere degli effetti di un errore insanato, all’interno della meccanica newtoniana, legato alla concezione dello spazio e del tempo assoluti, concepiti come “primitivi” e quindi antecedenti alla stessa nozione di moto, o addirittura — nell’interpretazione filosofica di Kant — come strutture a priori facenti parte dello stesso soggetto conoscente.

2. La meccanica relativistica. L’incompatibilità tra la meccanica newtoniana e l’elettromagnetismo rivelerà questa inesattezza, in maniera irriducibile, nel celebre esperimento di Michelson-Morley (1887), dal quale emerse il fatto che la velocità della luce nel vuoto è la stessa rispetto a qualunque osservatore. Com’è noto, assumendo come postulato questo risultato e combinandolo con il “principio di relatività” — già formulato da Galileo per la sola meccanica ed esteso da Einstein all’intera fisica — che assume che le leggi fisiche siano invarianti per traslazioni uniformi del sistema di riferimento, Einstein dedusse la teoria della relatività speciale. E tra i risultati concettualmente più rivoluzionari di questa teoria troviamo le trasformazioni di Lorentz con la loro corretta interpretazione, in base alle quali i concetti di spazio e di tempo non possono più essere trattati come assoluti. La teoria della relatività generale spingerà il principio di relatività fino in fondo, richiedendo che l’invarianza delle leggi fisiche (covarianza) sia valida non solo per traslazioni uniformi del riferimento, ma rispetto a qualunque tipo di trasformazione regolare delle coordinate. Si tratta di una sorta di “principio di oggettività” che rimuove ogni soggettivismo, ogni dipendenza dall’osservatore, delle leggi fondamentali della fisica. Paradossalmente una teoria che è nata con il nome di teoria della “relatività” (nome che ha indotto erroneamente qualcuno a considerarla come apertura al soggettivismo nella scienza) è una teoria degli invarianti, una teoria della formulazione oggettiva delle leggi della meccanica e della fisica.

3. La meccanica quantistica. La meccanica quantistica porta contributi completamente nuovi e impensabili dal punto di vista newtoniano, la cui interpretazione filosofica ha posto e continua a porre non pochi problemi. I diversi paradossi — quali ad esempio quello del “gatto di Schrödinger” e quello di Einstein-Podolski-Rosen, legati alla dualità delle rappresentazioni, ondulatoria e corpuscolare, che di ogni oggetto fisico occorre dare, alla “non località” e alla conseguente apparente “acausalità” di certi comportamenti dei sistemi microscopici — sono apparsi difficilmente risolubili. Dal punto di vista della scuola di Copenhagen, essi vengono risolti solamente rinunciando ad una comprensione nei termini del realismo classico e interpretati piuttosto nell’ottica dell’idealismo filosofico. In alternativa, l’interpretazione di Bohm (cfr. Selleri, 1987, pp. 69-72; De Broglie, Schrödinger e Heisenberg, 1991, pp. 232ss), che introducendo il “potenziale quantistico” riconduce la meccanica quantistica in termini assolutamente “classici” e deterministici, è stata ritenuta spesso troppo artificiosa e non ha avuto particolare seguito. Solo recentemente essa è stata ripresa da diversi ricercatori. Ciò che sembrerebbe occorrere, per dare un supporto fisico adeguato a questa interpretazione, è una spiegazione della natura del potenziale quantistico in termini di forze fisiche: una teoria di campo da cui anche questo potenziale potesse essere dedotto. Una delle possibili direzioni di indagine sembrerebbe essere quella di una teoria di campo non lineare e unificata della quale la meccanica quantistica attuale sarebbe un’approssimazione. Dal punto di vista filosofico i paradossi quantistici, che evidenziano la “non separabilità” delle parti di un sistema, ripropongono il classico problema del rapporto tra le parti e il tutto e della non riducibilità del tutto alla somma delle parti.

4. Instabilità e caos deterministico. Se l’incompatibilità tra meccanica newtoniana ed elettromagnetismo di Maxwell (1831-1879) ha mostrato l’inadeguatezza della concezione assoluta dello spazio e del tempo, riavvicinando, con le teorie della relatività, i fondamenti della fisica matematizzata alle concezioni aristoteliche, prima ancora della nascita della relatività einsteiniana e della meccanica quantistica, la meccanica newtoniana si è scontrata con un altro grande problema, che ha mostrato contemporaneamente i limiti degli strumenti matematici, fino ad allora impiegati nella descrizione della natura, e i limiti del metodo riduzionista (vedi infra, IV) che, fino a quel momento aveva caratterizzato la scienza. Si tratta del problema della “stabilità” delle soluzioni delle equazioni differenziali e della loro sensibilità alle piccole variazioni delle condizioni iniziali. Questo problema, affrontato sistematicamente per la prima volta da Poincaré (1854-1912), è alla base degli studi recenti sul cosiddetto «caos deterministico». In termini qualitativi possiamo dire che una soluzione di un sistema differenziale — che dal punto di vista meccanico rappresenta una descrizione del moto di un sistema fisico — viene considerata “stabile” se, variando di poco le sue condizioni iniziali, risulta modificata di poco in ogni istante successivo del tempo. Diversamente viene detta “instabile”. È evidente che solo i sistemi che presentano soluzioni stabili risultano matematicamente “predicibili” e che, quindi, la forte sensibilità alla variazione delle condizioni iniziali rende inutilizzabile la descrizione matematica, in termini di equazioni differenziali di un sistema meccanico, o più in generale fisico. Infatti, a causa dell’instabilità un errore piccolo inizialmente può divenire così grande, dopo un certo tempo, da rendere privo di significato il tentativo di descrivere il moto. D’altra parte i sistemi in cui si presentano soluzioni stabili risultano essere una ristretta classe tra tutti i sistemi con i quali ci si trova ad operare nella descrizione del moto. Questa situazione ha aperto diverse nuove strade di indagine.

Dal punto di vista della matematica si è compreso come l’analisi “locale” risulta insufficiente e si richiede, per quanto possibile un analisi di tipo “globale” che viene condotta con l’ausilio della “topologia”, ramo della matematica che analizza la struttura insiemistica e geometrica delle parti di un tutto nelle relazione tra loro e con il tutto e le proprietà irriducibili del tutto nel suo insieme. Di conseguenza, dal punto di vista epistemologico e metodologico si è compreso che, se non si vuole rimanere bloccati nell’indagine scientifica, occorre superare la visione riduzionistica. Anche questo viene a rappresentare un passo di riavvicinamento alla concezione aristotelica del rapporto tra il tutto e le parti.

  

IV. Meccanicismo e riduzionismo

1. Che cos'è il meccanicismo. Con il termine «meccanicismo» si designa quella corrente filosofica — che si sviluppò prima della formulazione delle leggi dell’elettromagnetismo da parte di Maxwell — i cui sostenitori ritenevano che tutto l’universo poteva essere descritto e spiegato mediante le sole azioni meccaniche di “contatto” tra i corpi materiali. Questo meccanicismo “forte” si trovò già in difficoltà di fronte alla stessa meccanica newtoniana, che introduceva, con la “forza gravitazionale”, un’azione “a distanza”. I meccanicisti — soprattutto i cartesiani, che aspiravano all’ideale di una scienza interamente ricondotta alla geometria — guardarono con sospetto la stessa nozione di forza, «temendo di scorgere in questo concetto un residuo delle aborrite qualità occulte» (Masi, p. 87, cfr. anche Koyré, 1972, p. 62). In seguito al successo indiscusso della meccanica di Newton e delle sue applicazioni ai moti planetari, si finì con l’accettare anche il concetto di forza, cercando di interpretarlo come un’azione, in qualche modo a contatto, se pure indiretto, realizzata mediante “effluvi” di particelle che i corpi interagenti si scambiano. Questa idea fu ripresa da una concezione che fu già di Pierre Gassendi (1592-1655) e ottenne l’effetto di far sviluppare, un po’ alla volta, un meccanicismo più “debole”, che accoglieva al suo interno anche la “forza” e l’azione a distanza.

In tal modo il meccanicismo divenne, più semplicemente, quella filosofia della scienza che ritiene che tutto l’universo possa essere descritto e spiegato mediante le sole leggi della meccanica newtoniana. È celebre, a testimonianza di questa posizione, l’affermazione di Pierre-Simon de Laplace (1749-1827): «Un’intelligenza che, in un dato istante, conoscesse tutte le forze che animano la natura e la situazione corrispondente degli enti che la compongono e fosse così vasta da poter sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe con una sola formula i movimenti dei corpi più grandi dell’universo e quelli dell’atomo più leggero: per essa niente sarebbe incerto e l’avvenire, come il passato, sarebbero presenti ai suoi occhi» (Theorie analytique des probabilités, Paris 1920, p. VII). Le ripercussioni di una simile concezione sulla filosofia e sulla teologia sono evidenti. Essa si fondava ormai su una metafisica della pura quantità e relazione e non possedeva più i concetti fondamentali di una metafisica dell’ente. Se i meccanicisti dell’epoca non se ne accorsero subito fu solo perché le loro convinzioni religiose supplirono fideisticamente all’insufficienza della base razionale della loro metafisica. L’azione creatrice di Dio si riduceva all’avvio iniziale della macchina del mondo e non era più considerato necessario alcun suo intervento per conservare nell’esistenza (come causa essendi) le cose create. «Quanto più completo è il successo con cui Newton riesce a spiegare i fenomeni naturali a partire dalle operazioni di forze naturali che ubbidiscono a leggi fisse e immutabili, tanto più difficile diventa per lui trovare per il creatore del mondo una funzione anche come conservatore dell’universo materiale. Egli fa un debole tentativo di dimostrare l’indispensabilità della sua costante collaborazione al fine di prevenire e riparare i disturbi e le irregolarità che si verificano nel meccanismo del mondo, ma così facendo non fa che esporsi alla derisione di Leibniz, che gli chiede se il creatore onnipotente non abbia prodotto un meccanismo imperfetto. La meccanizzazione dell’immagine del mondo portava con irresistibile coerenza alla concezione di Dio come di un ingegnere a riposo, e di qui alla sua completa eliminazione non v’era che un passo» (Dijksterhuis, 1971, parte IV, p. 330). E a questa eliminazione non tardò a giungere: «“Non ho bisogno di quest’ipotesi”, rispose Laplace a Napoleone che gli chiedeva quale posto occupasse Dio nel suo sistema» (Koyré, 1972, p. 23).

Dal punto di vista del metodo scientifico, il meccanicismo è il primo esempio eclatante di riduzionismo. Esso assume, infatti, che tutto l’universo sia una grande macchina, governata dalle leggi di Newton e, di conseguenza, che tutta la fisica, o addirittura tutta la scienza, sia riconducibile ad una serie di applicazioni della meccanica. Dopo che la fisica ebbe operato con successo la riduzione della termodinamica alla meccanica, mediante la teoria cinetica dei gas e la meccanica statistica, il meccanicismo ricevette una sorta di conferma. Seguendo questa linea riduzionista si è cercato, successivamente, di interpretare anche la chimica come un capitolo della fisica, e le stesse scienze biologiche in termini meccanici, includendo in tale visione meccanicista non solo i moti di “accrescimento” e “corruzione” dei corpi organici e viventi, ma anche gli stessi processi cognitivi.

2. Meccanicismo e struttura dell’universo. Dal punto di vista della “struttura” dell’universo il supporto del meccanicismo non poteva essere che il materialismo, in quanto la meccanica suppone necessariamente dei corpi materiali di cui governa il movimento. Ridurre tutto a meccanica voleva dire ridurre tutto a materia; in questa direzione una conferma veniva dal successo della teoria atomico-molecolare. Ma la vera crisi del meccanicismo si ebbe, verso la metà del XIX secolo con l’elettromagnetismo di Maxwell, teoria che si dimostrò del tutto refrattaria ad essere ricondotta alla meccanica. Questa irriducibilità dimostrò di essere così radicale da far nascere, in opposizione al meccanicismo, una corrente di pensiero che operava nella direzione opposta, l’energetismo, che proponeva di interpretare la stessa materia come una forma concentrata di energia del campo.

Alla luce della fisica odierna questa irriducibilità dell’elettromagnetismo alla meccanica risulta comprensibile per due ragioni: l’una è dovuta all’incompatibilità della meccanica newtoniana con l’invarianza delle equazioni di Maxwell per trasformazioni galileiane; e sarà la teoria della relatività speciale di Einstein a correggere la meccanica per risolvere questo problema. L’altra ragione è legata alla diversa natura della materia rispetto alla radiazione. E questo, alla luce della meccanica quantistica, è legato all’irriducibilità del comportamento delle particelle che veicolano la materia («fermioni») con il loro carattere di impenetrabilità (legato al principio di esclusione di Pauli), e delle particelle che veicolano il campo elettromagnetico (i fotoni, che sono «bosoni») che non godono di tale impenetrabilità. La fine del meccanicismo non significava, però la fine immediata del riduzionismo. La fisica classica, all’inizio del XX secolo, disponeva di due sintesi parallele e coesistenti: quella newtoniana per la meccanica — che si estendeva anche alla termodinamica, attraverso la meccanica statistica — e quella maxwelliana per l’elettromagnetismo, che furono rese compatibili con la correzione einsteiniana della meccanica. Nel Novecento la meccanica e l’elettrodinamica quantistica riformularono radicalmente tutta la fisica, rendendola adeguata all’indagine dell’atomo e del microcosmo in genere, ma continuarono a legittimare il metodo riduzionista. Solo a partire della seconda metà del secolo, con la graduale ripresa degli studi di meccanica non lineare iniziati da Poincaré e poi abbandonati per diversi decenni, il riduzionismo è stato fortemente messo in crisi ed è iniziata contemporaneamente, un po’ in tutte le scienze, quell’indagine che va sotto il nome di studio della complessità.

3. Riduzionismo e matematica. Dal punto di vista matematico il riduzionismo sembrerebbe intrinsecamente legato all’utilizzo del calcolo differenziale e del calcolo integrale: questi due strumenti, infatti sono riduzionistici nella loro stessa metodologia. Il calcolo differenziale è, per sua natura, un calcolo “locale”. Esso definisce le sue grandezze e opera con quantità infinitesime che variano nell’intorno di un punto, prescindendo da ciò che succede al di fuori di tale intorno. Dunque prende in esame una parte infinitesima di un tutto. Dal punto di vista geometrico ciò significa che approssima, localmente, una curva con la sua tangente, una superficie con il piano tangente, ecc. L’operazione di integrazione di un’equazione differenziale chiama in causa il calcolo integrale: quest’ultimo consiste nell’effettuare, con un processo al limite, la “somma” di infiniti elementi infinitesimi (integrale). In questo modo tale calcolo ricostruisce il tutto sulla base di infinite informazioni di carattere locale, come somma di parti. Dal punto di vista geometrico ciò significa la ricostruzione di una curva mediante la conoscenza delle tangenti in ogni suo punto. Probabilmente lo studio della complessità richiede di esaminare anche proprietà del “tutto” che non sono ricostruibili in questo modo, cioè proprietà “globali” che non sono deducibili da informazioni di carattere “locale”. Ma questo è un problema ancora del tutto aperto.

  

V.  Meccanica e causalità

Un altro problema a cavallo tra la scienza e la filosofia, di grande rilievo nell’interpretazione delle teorie scientifiche in genere, e meccaniche in particolare, è il problema della “causalità”. Ad esso si connette strettamente anche quello del determinismo/indeterminismo, divenuto di grande rilievo con l’avvento della meccanica quantistica. Spesso parole identiche non vengono impiegate con lo stesso significato in ambito scientifico e in ambito filosofico e vengono trasportate da una disciplina all’altra senza troppa attenzione. Termini come «causa» e «causalità» possono essere vittime di un tale indebito trattamento. Come ebbe a osservare Schrödinger (1887-1961), il padre della formulazione ondulatoria della meccanica quantistica, «con la grandiosa evoluzione manifestatasi in tutti i campi della fisica negli ultimi anni, il così detto problema della causalità sta assumendo un interesse sempre maggiore. Lo si sta discutendo perfino nelle riviste scientifiche tecniche, anzi addirittura nella stampa quotidiana. Non vorrei dar per certo, solo perché mi servo di tale frase, che l’oggetto della discussione sia proprio il problema della causalità nella sua accezione filosofica. Ma la discussione ha ricevuto questo nome e naviga sotto questa bandiera» (Schrödinger, 1931, tr. it. 1987, p. 20).

Sembra perciò necessaria una chiarificazione, per quanto possibile, sull’uso del termine: per fissare le idee chiameremo «causalità meccanica» il concetto di causalità come viene utilizzato dai fisici nell’interpretazione delle teorie, per distinguerlo dalla «causalità filosofica», e cercheremo di individuarne le connessioni e le differenze.

1. Causalità meccanica. La parola «causa» non viene utilizzata in senso tecnico dal linguaggio scientifico (cfr. Nagel, 1968, p. 81), in particolare nell’ambito della meccanica, quanto piuttosto trova il suo impiego usuale nel paradigma filosofico in base al quale si interpreta una teoria scientifica. Essa viene assunta dal linguaggio comune e viene applicata senza un’eccessiva indagine epistemologica. Spesso si parla di “principio di causalità”, intendendo che nell’ambito sperimentale si riscontrano delle regolari associazioni tra la presenza di certi fenomeni ed altri che seguono i precedenti, in un tempo più o meno immediatamente successivo. Si interpretano così i primi come cause dei secondi. In questo caso si dice che il principio di causalità non può essere violato in quanto l’esperienza mostra che non può essere invertito l’ordine della successione temporale in cui compaiono i due tipi di fenomeni.

La causalità meccanica nell'ambito della meccanica newtoniana. Un primo aspetto in cui essa compare è nel considerare la forza come “causa dell’accelerazione”. Nell’ambito dell’interpretazione meccanicista della meccanica newtoniana si tende ad identificare la forza con la causa delle accelerazioni, tramite il secondo principio della dinamica. Il paradigma newtoniano mantiene separate tuttavia la “legge del moto”, cioè la relazione causale che lega la forza all’accelerazione e la “legge di forza”, che descrive il comportamento della forza specifica che agisce su un certo corpo, come per esempio la legge di gravitazione universale di Newton. Essa non fornisce una spiegazione causale della gravitazione, cioè non si preoccupa di caratterizzare la natura della gravità, ma solo una descrizione del variare della forza di gravità, in base alle masse e alla distanza dei corpi interagenti. Questa situazione fu criticata da Einstein, che con la relatività generale fornì una descrizione unificata della legge del moto e della legge della forza gravitazionale, conglobata nella geometria dello spazio-tempo, offrendo in questo modo anche una spiegazione della natura della gravità, in termini di curvatura dello spazio-tempo.

Un secondo aspetto riguarda la causa dell’inerzia. Il paradigma newtoniano non si pone neppure il problema di assegnare una causa dell’inerzia dei corpi, cioè del moto in assenza di forze: in altri termini, si assume come legge il fatto che un corpo, in assenza di forze, si mantiene in quiete, o si muove di moto rettilineo e uniforme rispetto a un osservatore inerziale. Non si fornisce alcuna spiegazione causale di questo fatto, ma si tende a dire che il moto rettilineo e uniforme non ha alcuna causa. La fisica antica aveva assegnato al moto, anche rettilineo e uniforme, una causain quanto il moto, essendo il divenire di un ente, necessitava di una causa adeguata che lo mantenesse in esistenza. Anche la meccanica medioevale e rinascimentale avevano cercato di dare una risposta in senso meccanico a questa domanda, ad esempio, con la teoria dell’impetus (cfr. Dijksterhuis, 1971, parte II, p. 111ss).

Il problema è stato ripreso, in termini moderni da Mach (1838-1916) il quale riteneva insufficiente una meccanica che non desse una spiegazione causale dell’inerzia e proponeva che tale spiegazione fosse di carattere globale (olistico) e non si potesse evidenziare appena con una teoria locale (riduzionistica). Secondo il “principio di Mach” l’inerzia doveva essere un effetto dell’interazione tra tutti i corpi presenti nell’universo, anche se egli non era in grado di descrivere quantitativamente tale interazione (cfr. Sciama, 1965, pp. 78-105 e anche Nagel, 1968, cap. VIII, §1). Il programma di lavoro dello scienziato che si occupa di meccanica «è l’istituzione di un principio dal quale derivino “insieme” i moti accelerati e i moti inerziali» (Mach, 1977, p. 258). La relatività generale riprenderà, in un certo senso, l’idea di Mach attraverso il “principio di equivalenza”, che stabilisce l’indistinguibilità, locale, tra un campo gravitazionale e un campo di forze apparenti dovute alla non inerzialità del sistema di riferimento, riconducendo entrambi alla curvatura dello spazio-tempo. «Einstein aveva sperato che il principio di Mach risultasse una conseguenza delle sue equazioni» (K. Gödel, Opere, vol. I, Torino 1999, p. 27). Tuttavia, poiché tale teoria utilizza la geometria differenziale, che si fonda su una descrizione locale dello spazio-tempo, essa non traduce esaurientemente il principio di Mach che rappresenta piuttosto una richiesta di tipo olistico (o globale) che potrebbe non essere ricostruibile riduzionisticamente.

La causalità meccanica nell'ambito della meccanica relativistica. Il paradigma filosofico della teoria della relatività di Einstein, sia nella forma ristretta che in quella generale, mantiene in comune con la meccanica newtoniana e la fisica dell’elettromagnetismo, che nel contempo si era sviluppata, l’idea che la causalità richiede la priorità temporale del “fenomeno causa” rispetto al “fenomeno effetto”, e aggiunge il principio secondo il quale la velocità della luce, essendo invariante rispetto ad ogni osservatore, è la massima velocità alla quale un segnale si può propagare. Quindi qualsiasi campo di forze non può propagarsi a velocità superiore e non sono possibili, perciò, interazioni istantanee tra due corpi distanti. Combinando questa richiesta con la priorità temporale ne viene, di conseguenza, che in una teoria, che rispetti il principio di causalità e le leggi della relatività, un fenomeno non può essere causa di un altro fenomeno, che avviene ad una certa distanza “prima” che il segnale, che viaggia al massimo alla velocità della luce, abbia percorso la distanza che separa i luoghi dove avvengono i fenomeni considerati. È questa legge di natura fisica che viene abitualmente chiamata, dai fisici che si occupano di relatività, «principio di causalità»: essa impedisce l’azione istantanea a distanza che era invece ritenuta possibile nella meccanica newtoniana, nella quale si ammetteva, implicitamente, che il segnale (o effluvio) potesse viaggiare a velocità infinita. La causalità viene così a richiedere la “località”, cioè il fatto che l’interazione avviene non a distanza, ma nel luogo dove è presente un segnale (campo). Teorie che violano questo principio vengono dette “non locali”, o “acausali”, e vengono ritenute accettabili solo nell’approssimazione non relativistica.

La causalità meccanica nell'ambito della meccanica quantistica. In questo terzo ambito, il modo di intendere la causalità dipende dal paradigma interpretativo che si adotta. Se viene adottato il “paradigma di Copenhagen” si presuppone che il principio di causalità, in senso newtoniano, non sia valido e che il nesso causa-effetto, a livello microscopico non sia deterministico, ma solo probabile, nel senso che da una certa causa segue una distribuzione probabilistica di effetti. Inoltre, nella meccanica quantistica la causalità viene violata anche nel senso di una violazione della non località, in quanto si manifestano effetti istantanei a distanza nei sistemi non separabili. Se viene adottato un paradigma realista — come quello della teoria di Bohm — si presuppone che il principio di causalità sia valido in senso classico e che la meccanica quantistica, non vada interpretata come una meccanica indeterministica, ma sia in grado, mediante l’introduzione del “potenziale quantistico”, di identificare le traiettorie delle particelle in senso classico, che rimangono, tuttavia non osservabili deterministicamente.

La causalità meccanica nell'ambito della meccanica non lineare. Nella meccanica non lineare, in presenza di instabilità delle soluzioni, l’evoluzione nel tempo di una soluzione delle equazioni differenziali che governano un sistema, non è determinabile senza amplificazione dell’errore sulle condizioni iniziali. Questo si può interpretare nel senso di una impossibilità dello strumento matematico di descrivere univocamente sia le cause che gli effetti di un dato processo che si ritiene essere causale in natura. La descrizione della causa viene codificata mediante una legge, espressa da un’equazione differenziale, unitamente a delle condizioni iniziali, la cui conoscenza è indispensabile per determinare una sola soluzione del problema. La soluzione descrive l’evoluzione nel tempo del fenomeno e consente quindi l’identificazione dell’effetto. Tuttavia se la soluzione è instabile un piccolo errore nell’assegnazione delle condizioni iniziali comporta un grande errore nella determinazione dell’evoluzione del sistema. Poiché non è praticamente possibile conoscere le condizioni iniziali con precisione infinita (occorrerebbe conoscere numeri con infinite cifre decimali e fare i calcoli con tutte le cifre) non si può, di fatto, determinare, dopo un tempo sufficientemente grande, l’effetto. La causalità in questo caso non è violata, in quanto il sistema è deterministico, ma non si possiedono, per principio, gli strumenti adeguati per descriverla matematicamente.

2. Causalità formale matematica. La concezione empiristica della causalità, che mette in risalto la regolare correlazione di due fenomeni che si presentano consecutivamente nell’esperienza, costituisce solo una parte delle spiegazione scientifica, che si ritrova nella filosofia di David Hume (1711-1776), ma non esprime a pieno la causalità come la scienza galileiana stessa implicitamente la intende. Così non sembra si possa concludere che, dal punto di vista empirico, la constatazione di correlazioni sia sufficiente a stabilire una completa equivalenza fra la causalità meccanica e la “causalità efficiente” della filosofia (cfr. Artigas e Sanguineti, 1989, p. 223). A questo scopo occorre mostrare che esiste una struttura ontologica adeguata a rendere conto in termini causali di tali correlazioni osservate: questo si può ottenere solo completando l’analisi in termini metafisici. Ma la scienza galileiana è una “scienza media”, materialmente “fisica”, empirica, e formalmente “matematica”, e non formalmente “metafisica”. Per cui sul versante matematico la spiegazione viene fornita mediante la causalità formale, che consente di condurre la dimostrazione a partire da definizioni essenziali degli enti matematici. Si pensi al modo di procedere della fisica matematica: essa non si cura direttamente dell’aspetto sperimentale, ma assume come presupposti assiomatici le leggi fisiche matematicamente formulate e le definizioni degli enti con cui opera e da queste deduce formalmente, come teoremi, quei risultati che la fisica sperimentale controlla e la tecnologia applica.

3. Causalità filosofica. È noto come la scienza aristotelica, basandosi sulla metafisica, includesse nel suo metodo esplicativo l’impiego delle quattro cause: materiale, formale, efficiente e finale. Tommaso d'Aquino elaborò, poi, anche la distinzione tra «causa principale» e «causa strumentale», che egli utilizzò soprattutto in teologia, sia per spiegare il tema dell’ispirazione della Sacra Scrittura e del suo Autore principale, sia per mostrare l'azione salvifica dell’umanità di Cristo e dei sacramenti della Chiesa.

Per poter essere compresa in maniera non equivoca (dal momento che nel linguaggio moderno le stesse parole vengono impiegate con significati diversi dall’uso antico) la dottrina delle quattro cause richiede che si tengano presenti le due teorie metafisiche ad essa presupposte e cioè la teoria “ilemorfica” e la teoria della “potenza-atto” (vedi supra, II.2). Ora le due cause, materiale e formale, si collocano al livello di questi due princìpi. La «causa materiale» è ciò che fornisce il costitutivo base di un oggetto fisico rendendolo passibile di assumere una “forma”, o un’altra; la «causa formale» è ciò che fa assumere all’oggetto quella forma che lo caratterizza ora, anziché un’altra. Per quanto riguarda le altre due cause: la «causa efficiente» è quella che fa sì che un oggetto fisico, che ora è caratterizzato da questa “forma” e da queste proprietà, poi assuma quest’altra forma e/o queste altre proprietà, ed è quindi responsabile del mutamento e perciò anche del moto locale. La «causa finale», poi, si trova dalla parte dello stato finale da raggiungere al termine di un certo moto.

Nell’ottica della causa finale lo scopo del mutamento viene interpretato come inscritto nella legge stessa che lo governa. In questa prospettiva è la causa finale la più importante, e da essa le altre cause si trovano in qualche modo a dipendere. Il fine da raggiungere determina la costituzione materiale di un oggetto fisico, le sue caratteristiche essenziali (forma) ed esige una causa efficiente adeguata per compiere il mutamento da un certo stato iniziale verso quello finale da raggiungere. La meccanica newtoniana e quella successiva hanno abbandonato il linguaggio aristotelico, e là dove hanno continuato ad utilizzarlo ne hanno cambiato l’interpretazione, per cui la scienza vera e propria non fa uso di un termine come quello di «causa», che esula dal linguaggio matematico. Tuttavia, nell’interpretazione meccanicista che di questa teoria si è data, si era soliti ritenere che, in natura, non sono necessarie altre cause che quelle efficienti per spiegare il moto (locale) dei corpi. Infatti trattando il moto come uno “stato”, analogo alla quiete, si è ritenuto che fosse sufficiente assegnare una causa che fa passare un corpo da uno “stato di moto” ad un altro stato di moto, ovvero una causa delle accelerazioni. Poiché le cause che fanno mutare lo stato di un corpo sono quelle efficienti, la conseguenza è immediata: questa causa efficiente, grazie al secondo principio della dinamica (F = m a), non può che essere la “forza”, nel senso newtoniano del termine. In realtà la fisica, e a maggior ragione le altre scienze, sono sempre andate ben oltre lo schema meccanicistico, dimostrando in questo modo di ricorrere tacitamente anche alle altre tre cause.

La causa materiale. La ricerca della causa materiale è presente nelle scienze fisiche ogniqualvolta si ricercano i costituenti elementari dell’universo fisico, siano essi materia o radiazione. Ciò che, tuttavia, ha finora differenziato radicalmente l’impostazione della fisica moderna da quella della metafisica aristotelica, in questa ricerca, è il fatto che la fisica moderna ha ricercato delle particelle elementari come “cose”, cioè come entità omogenee agli oggetti fisici da esse composte. L’approccio riduzionistico è qui evidente: il tutto è stato finora pensato come somma di parti. La metafisica aristotelica, invece, ricercava dei costitutivi fondamentali di livelli differenti, disomogenei rispetto ai corpi e disomogenei tra loro, come lo erano “materia” e “forma”. Ciò che è interessante, a questo punto, è il fatto che la complessità sembra introdurre proprio la necessità di livelli differenziati nei costituenti degli oggetti fisici, chimici, biologici, ecc. Va notato che anche la fisica aristotelica si serviva di componenti omogenei alle cose, come i quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco), che in fondo giocavano un ruolo non del tutto dissimile da quello degli elementi chimici della nostra tavola periodica, ma introduceva anche princìpi più fondamentali, di livelli diversi come materia e forma, per spiegare la stessa possibilità di esistenza dei componenti di livello più basso. La nostra fisica non è arrivata a questo punto, ma è da esso meno lontana di quanto non lo fosse il meccanicismo quando, seguendo le idee della complessità, ipotizza livelli differenziati e non omogenei di esistenza negli oggetti complessi. Ecco che, allora, per continuare a sviluppare una fisica matematizzata, occorrerà una matematica capace di trattare in qualche modo anche questa gerarchizzazione di livelli.

La causa formale. La causa formale rientra in gioco nella fisica e quindi nella meccanica, tacitamente, per il fatto che la fisica moderna è una “fisica matematica”, e cioè si serve, per descrivere e spiegare gli oggetti dell’esperienza, di definizioni e dimostrazioni matematiche (anziché metafisiche). Ora, dalla “definizione” (connotazione logica della forma) di un oggetto matematico, che in una teoria scientifica rappresenta un oggetto fisico, identificandone le proprietà quantitative e relazionali, la teoria fisica (in particolare la meccanica) deduce il comportamento dell’oggetto.

La causa efficiente. La causa efficiente, che gioca più allo scoperto nell’epistemologia meccanicista, è quella che determina i cambiamenti di stato, che altro non sono che mutazioni accidentali, o sostanziali dell’oggetto in questione. Tuttavia la concezione corrente nell’interpretazione delle teorie scientifiche è riduttiva in quanto, essendo condizionata dalla concezione empiristica, lega la causalità sia alla regolare concomitanza di due fenomeni l’uno dei quali viene interpretato come causa e l’altro come effetto, sia alla loro collocazione in una successione temporale, per cui la causa precede l’effetto. Da un punto di vista metafisico ciò non è sempre vero. E questo sia perché possono presentarsi delle regolari successioni temporali che non hanno alcun nesso causale tra loro, sia perché una causa può essere sovratemporale e causare un intero ente con il suo tempo senza essere coinvolta nel suo tempo. Per quanto riguarda invece la causa finale, essa sembrerebbe ancora del tutto esclusa dalla scienza e dalla meccanica, ma non è sempre così. A questo problema intendiamo dedicare la prossima sezione.

  

VI. Meccanica e finalismo

Tra le diverse problematiche nuove che stanno emergendo nell’ambito delle scienze odierne — che, in realtà, nuove del tutto non sono perché si ricollegano a questioni molto antiche in filosofia, ma sono comunque nuove quanto al contesto e al modo in cui emergono oggi — l’interrogativo sulla possibilità di una spiegazione “finalistica” dei dati dell’esperienza all’interno una teoria scientifica è certamente uno dei più filosofici, e quindi delicati da affrontare, nell’ottica della metodologia delle scienze. Non sembra si possa sostenere che la causalità finale non è mai stata presente nelle scienze moderne. Si dovrebbe dire piuttosto il contrario: il problema consisterà, allora, nell’identificare i modi in cui essa è “legittimamente” presente, insieme alle altre cause. A livello dell’analisi delle scienze, essa può essere riconosciuta come “finalità immanente”, o finalità di “basso livello”: non si tratta, né sarebbe pensabile, di inserire nella fisica un finalismo di tipo trascendente, ma semplicemente di indicare che princìpi di carattere finalistico possono agire come “princìpi di comprensione” dell’evoluzione dei fenomeni. Ad esempio, quando l’analisi di fenomeni complessi ci richiede di introdurre dei livelli gerarchizzati, ecco che ad ogni livello potrà fare la sua comparsa una spiegazione finalistica, senza che per questo si debba chiamare per forza in questione l’esistenza di un “fine ultimo” cui tenda tutto il processo.

1. Il finalismo nella formulazione delle leggi. Si può, anzitutto, osservare che una porta attraverso la quale la finalità è entrata legittimamente nelle teorie scientifiche, fisiche e meccaniche in particolare, e già da parecchio tempo, è quella della “formulazione delle leggi”. Esistono infatti più modi di formulare le leggi (e non solo quelle della fisica). Se ne possono identificare due ai fini del nostro discorso: a) il primo modo assegna la legge in maniera “diretta” e non finalistica; b) Il secondo modo non assegna la legge in maniera diretta, ma la identifica “indirettamente” assegnando il “fine” che, attraverso di essa, si deve realizzare nel mondo fisico. Esempi della prima categoria sono tutte le leggi formulate in termini di equazioni differenziali, o algebriche, che governano l’evoluzione dei sistemi fisici nel tempo, le proprietà dei materiali, ecc. Esempi della seconda categoria sono offerti dalle leggi della termodinamica e dai princìpi variazionali. Ciò che è importante sottolineare, a questo punto, è il fatto che, mentre una legge evolutiva, formulata in modo diretto, ammette generalmente anche la formulazione indiretta, e cioè finalistica, — come accade in meccanica per i sistemi lagrangiani e hamiltoniani — può accadere che, nell’ambito di una teoria, si sia in grado di formulare le leggi in modo finalistico e non se ne conosca ancora la formulazione diretta. Ciò significa che si conoscono le cause finali, ma non ancora quelle efficienti. Quando si sarà in possesso di entrambe le formulazioni si potrà dire di conoscere entrambe le cause (finale ed efficiente). Ed è importante sottolineare che una spiegazione di tipo finalistico non solo non si contrappone a quella che fa ricorso alle altre cause, ma in un certo senso la esige, per offrire una comprensione dei processi attraverso i quali una certa finalità viene raggiunta.

La termodinamica. Storicamente un esempio significativo di quest’ultima situazione si è verificato con la termodinamica. Essendo nata come teoria macroscopica, essa formula le sue leggi in termini finalistici, non potendo offrire direttamente una descrizione dei “meccanismi” microscopici che si realizzano nei processi. I processi che la natura realizza sono quelli che raggiungono due fini: a) la conservazione dell’energia (primo principio), b) la crescita dell’entropia (secondo principio). Per questo la termodinamica non piaceva ai meccanicisti che hanno cercato una spiegazione in termini di cause efficienti, meccaniche, alla termodinamica attraverso la teoria cinetica dei gas e la meccanica statistica. Queste ultime hanno fornito le leggi “dirette” secondo le quali si raggiungono i fini prescritti dalla termodinamica nella sua formulazione macroscopica.

La meccanica quantistica. Questo genere di formulazione delle leggi non si trova solo nella fisica classica, ma anche in meccanica quantistica, là dove si formulano le leggi in modo prescrittivo senza descrivere il meccanismo che permette di realizzare la prescrizione. Un primo esempio può essere ritrovato, già nella fase iniziale della meccanica quantistica, nella quantizzazione di Bohr (1885-1962): questa infatti prescriveva che le traiettorie degli elettroni degli atomi che potevano fisicamente realizzarsi fossero quelle che raggiungevano come fine di rendere la variabile d’azione multipla della costante di Planck. E non si seppe trovare una spiegazione diretta del meccanismo con cui questo fine poteva realizzarsi fino a che De Broglie (1892-1987) non formulò la sua teoria ondulatoria della materia. Un secondo esempio è offerto dal principio di esclusione di Pauli che prescrive che due elettroni in un atomo non possono occupare lo stesso stato quantico, e quindi si devono collocare in modo da realizzare questa prescrizione. La spiegazione diretta di questa prescrizione finalistica verrà trovata solo più tardi con le statistiche quantiche e le simmetrie, pari o dispari, delle funzioni d’onda rispetto allo scambio delle particelle.

Le leggi di conservazione. Nella meccanica e più in generale in tutta la fisica, le “leggi di conservazione” possono essere lette in chiave finalistica: in certe condizioni il moto “tende” a mantenere costante una certa quantità (quantità di moto, energia meccanica, momento angolare, o altro). Si può dire anche così: tra tutti i moti cinematicamente concepibili quelli che effettivamente si realizzano in natura, in certe condizioni, sono quelli che raggiungono il fine di conservare determinate grandezze fisiche.

I princìpi variazionali. Anche la formulazione matematicamente più potente delle leggi meccaniche e fisiche in genere, offerta dai “princìpi variazionali”, è di tipo finalistico. I princìpi variazionali, infatti, affermano che la natura si comporta in maniera tale da raggiungere lo scopo di rendere minimo (o comunque stazionario) un certo integrale d’azione. Tra tutti i possibili processi che conducono un sistema da uno stato A ad uno stato B quello seguito effettivamente in natura ottiene lo scopo di rendere minima una certa grandezza. È interessante osservare, da un punto di vista storico, come, nel caso delle leggi della meccanica, la “formulazione finalistica” ottenuta sia tramite il principio variazionale di Hamilton per la determinazione delle equazioni del moto, che tramite il principio variazionale di Maupertuis per ottenere l’equazione della sola traiettoria del moto nel caso di sistemi conservativi, ha seguito anziché precedere la “formulazione diretta” delle leggi di Newton; e questo si comprende per la ragione che la formulazione variazionale richiede delle tecniche matematiche che furono elaborate solo successivamente.

Gli stati indipendenti dalle condizioni iniziali. Nell’ambito della meccanica dei sistema dinamici un altro genere di finalismo di basso livello è quello legato ai regimi stabili, indipendenti dalle condizioni iniziali, che il sistema tende, prima o poi, a raggiungere e nel quale si mantiene, come i “cicli limite” stabili, o i “punti di equilibrio” stabileo, più in generale gli “attrattori” stabili. In questi casi non sono determinanti le condizioni iniziali del sistema (che possono spaziare all’interno di un intero “bacino di attrazione”), quanto piuttosto quelle finali che vengono comunque raggiunte. L’esempio più noto è quello degli oscillatori forzati, che dopo un certo tempo si stabilizzano oscillando con lo stesso ritmo con cui vengono sollecitati dall’esterno.

2. Il principio antropico. Le considerazioni svolte e gli esempi che abbiamo esaminato ci sono serviti ad illustrare come la spiegazione finalistica sia entrata già da parecchio tempo nelle scienze, nella fisica e nella meccanica in particolare, anche se evitando di dichiararsi come tale. C’è da dire che l’operazione è finora riuscita perché, una volta introdotte, alle prescrizioni finalistiche è stato possibile poi dare una formulazione matematica. Rimane comunque molto significativa la resistenza dei “meccanicisti” nei confronti della termodinamica e la loro soddisfazione nel momento in cui fu possibile trovare un modello meccanico basato sulla teoria cinetica dei gas e la meccanica statistica. Tuttavia questo modello non ha soppiantato la termodinamica che non è stata mai abbandonata, restando del tutto corretta nella sua orginaria formulazione macroscopica e finalistica. Con l’avvento dell’elettromagnetismo di Maxwell e delle teorie di campo, poi, si è confermata definitivamente la possibilità di una fisica non riducibile alla meccanica.

Oggi certe resistenze sembrano piuttosto manifestarsi verso quelle forme di finalismo che non possono avere, o non hanno ancora, una formulazione matematica completa come sembra essere, al momento, il caso del Principio antropico. Tale principio agisce in cosmologia consentendo di dedurre alcune delle proprietà dell'universo fisico partendo dall'idea che queste devono essere compatibili con la comparsa della vita (formulazione debole), o anche che la vita stessa, ed in particolare la comparsa dell'uomo, funga da principio generale per comprendere la presenza necessaria di quelle proprietà (formulazione forte).

Non va comunque dimenticato che l’utilizzo della causa finale a livelli più elevati di indagine dell’ente non è più compito delle scienze fisico-matematiche, quanto della metafisica (causa ultima dell'essere e della natura delle cose) e della teologia (domande di senso).

3. Osservazioni conclusive. A conclusione di queste riflessioni, quello che può essere interessante è esaminare, almeno per accenni, qualche criterio di carattere generale per accogliere nell’ambito di una teoria scientifica un principio o un comportamento a carattere finalistico. Abbiamo già visto un primo criterio che è stato utilizzato a proposito della termodinamica e dei princìpi variazionali e, quindi, collaudato da tempo e che può essere così formulato: «una legge fisica può essere enunciata in forma finalistica se tale formulazione può essere data in forma matematica». A questo proposito si può aggiungere che una matematica futura, “ampliata” rispetto a quella attuale, può aprire degli spazi ad una modalità di spiegazione finalistica che per ora potrebbe apparire scientificamente inaccettabile. Un altro caso significativo a cui abbiamo accennato, quello degli attrattori stabili, non riguarda tanto le leggi fisiche ma il possibile singolo comportamento evolutivo dei sistemi fisici, cioè una singola soluzione delle leggi. Questo non pone problemi in quanto questi comportamenti, indipendenti dalle condizioni iniziali, sono descritti da soluzioni particolari di equazioni differenziali, e come tali, nascono direttamente dalla matematica che governa il sistema fisico. Tutto ciò è perfettamente scientifico e l’osservazione che si tratta di un comportamento finalistico è una questione di interpretazione filosofica del dato scientifico. Il terzo caso, al quale si è fatto accenno, portando l’esempio del Principio antropico, è il più delicato, in quanto tratta di un principio finalistico del quale non si possiede una formulazione matematica. È legittimo accettare nell’ambito di una teoria scientifica un principio formulato in questo modo? Generalmente, nelle scienze, si accetta un’ipotesi, o una teoria, quando queste sono in grado di sostenere il confronto con l’esperienza nel duplice senso: a) di rendere conto, entro gli errori di misura ed entro i limiti che definiscono il dominio di validità della teoria stessa, dei dati sperimentali conosciuti; e possibilmente b) di essere in grado di prevedere nuovi fenomeni controllabili sperimentalmente. Di norma si richiedono controlli e previsioni di carattere quantitativo, cioè a livello di misure. Allora si pongono due domande: “è possibile che un principio filosofico permetta di dedurre delle informazioni sui valori di certe grandezze?”. E ancora: “è possibile e opportuno elaborare delle scienze dimostrative non matematizzate che consentano di descrivere e fare previsioni intorno a dati a carattere non quantitativo?”.

Ovviamente si tratta di questioni profonde, del tutto aperte e ricche di fascino per il ricercatore. Forse ci troviamo in un momento molto importante per lo sviluppo del pensiero scientifico, un momento che riconosce il sorgere di interrogativi filosofici che nascono dalla teoria dei fondamenti stessi delle scienze.

 

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