Dio conosce le cose che ancora non esistono e dunque anche il futuro contingente

Sviluppando una riflessione sulle caratteristiche dell’intelletto divino, così come esse risultano confacenti al suo ruolo di Creatore, e trovandone poi conferma nella Scrittura, Tommaso confuta l’immagine di un Dio al quale la complessità di un cosmo in divenire negherebbe la capacità di abbracciare l’intero reale con la propria conoscenza. Le argomentazioni di Tommaso nella Somma contro i Gentili trovano ancora oggi un interessante campo di applicazione nel dibattito sul rapporto fra creazione ed evoluzione, specie per quei modelli teorici che, impiegando la filosofia del processo, sembrerebbero negare la conoscenza che Dio avrebbe di un futuro indeterminato e casuale.

cap. LXVI: Dio conosce le cose che ancora non esistono

Passiamo ora a dimostrare che a Dio non manca la conoscenza neppure delle cose che non esistono. Infatti:

1. Come sopra abbiamo spiegato [cap. 61], la conoscenza di Dio sta alle cose come le cose da conoscere stanno alla nostra conoscenza. Ora, il rapporto delle cose conoscibili con la nostra conoscenza e tale che può esserci una realtà conoscibile senza che noi ne abbiamo conoscenza, ossia, per portare l’esempio del Filosofo [cfr. Categorie, 5, 18], come la quadratura del cerchio; ma non può avvenire il contrario. Dunque il rapporto della conoscenza di Dio con le cose e tale che può estendersi anche a quelle che non esistono

2. La conoscenza dell’intelletto divino sta alle cose, come la conoscenza dell’artigiano sta ai suoi manufatti: poiché Dio con la sua scienza e causa delle cose. Ma l’artigiano con la conoscenza della propria arte conosce anche i manufatti non ancora esistenti: poiché è dalla sua conoscenza che le forme dell’arte derivano alla materia esterna per costituire i manufatti; cosicché niente impedisce che esistano nel pensiero dell’artista forme che ancora non si sono esternate. Perciò niente impedisce che Dio abbia la conoscenza di ciò che ancora non esiste

3. Come risulta dai capitoli precedenti [capp. 49 e 54] , Dio conosce le cose mediante la propria essenza in quanto questa e immagine esemplare di ciò che promana da essa. Ma essendo l’essenza di Dio di una perfezione infinita, come sopra abbiamo dimostrato [cap. 43], mentre le cose hanno una perfezione limitata, è impossibile che l’insieme di tutte le altre raggiunga la perfezione dell’essenza divina. Perciò la capacita di quest’ultima a rappresentare si estende a un numero molto superiore a quello delle cose esistenti. Se Dio quindi conosce totalmente la virtù e la perfezione della propria essenza [cap 47], la sua cognizione deve estendersi non solo a ciò che esiste, ma anche a ciò che non esiste

4. Il nostro intelletto mediante l’operazione con la quale conosce la quiddità delle cose può farsi un concetto anche di cose attualmente inesistenti; può infatti capire l’essenza del cavallo o del bene, anche dopo l’uccisione di tutti questi animali. Ora, l’intelletto divino conosce in tal modo non solo le definizioni, ma persino gli enunciabili, come sopra [capp. 58, 59] abbiamo visto. Dunque può conoscere anche le cose che non sono

5. Un effetto si può conoscere nella sua causa anche prima che esista: l’astronomo, p. es., conosce l’eclisse futura dall’ordine dei moti celesti. Ma la cognizione che Dio ha di tutte le cose e mediante la loro causa; egli infatti, secondo le spiegazioni date [cap. 45], conosce le cose come suoi effetti, conoscendo se stesso quale loro causa. Perciò niente impedisce che possa conoscere anche ciò che ancora non esiste

6. Il pensiero di Dio al pari del suo essere non ha successione. Esso quindi è tutto intero simultaneamente sempre identico, come esige il concetto di eternità. La durata del tempo invece si estende nella successione del prima e del dopo. Perciò il rapporto tra l'eternità e l'intera durata del tempo è come quello del continuo, e che non coesiste in ciascuna parte del continuo, ossia alla maniera dell'istante rispetto al tempo -, ma dell'invisibile che restando esterno al continuo coesiste con ogni parte di esso, p. es., con ogni punto determinato di una linea. Infatti poiché il tempo non può essere esterno al moto, l'eternità che è del tutto fuori del moto trascende il tempo. Tuttavia poiché l'essere dio ciò che eterno non può mai venire meno, l'eternità è presente ad ogni tempo e ad ogni istante del tempo. Un esempio consimile si può riscontrare nel cerchio: infatti un punto segnato nella circonferenza, sebbene sia indivisibile, non coesiste geometricamente con ogni altro punto, poiché l'ordine, ovvero la successione dei punti costituisce la continuità della circonferenza; il centro invece, che è fuori della circonferenza, ha rapporto diretto con ciascun punto di essa. Allo stesso modo tutto ciò che esiste in qualsiasi momento del tempo coesiste come presente a ciò che eterno, sebbene rispetto alle altre parti del tempo esso sia o passato o futuro. Ma una cosa non può essere presente a ciò che è eterno se non come a un tutto, perché l'eternità non ha la successione della durata. Ecco perché quanto si compie in tutto il corso del tempo l'intelletto divino lo intuisce come presente per tutta la sua eternità. Invece quello che si compie in una parte del tempo non sempre esiste. Dunque Dio conosce le cose che nello svolgersi del tempo ancora non esistono.

Da queste ragioni risulta quindi che Dio conosce le cose inesistenti. Queste però non tutte hanno una con la sua conoscenza il medesimo rapporto. Poiché quelle che non sono né furono né saranno, sono conosciute da Dio solo come possibili alla di lui virtù. Perciò egli non le conosce come in qualche modo esistenti in se stesse, ma solo come esistenti nella potenza divina. A detta di alcuni esse sono conosciute da Dio «per una scienza di semplice intelligenza”. – Le cose invece che per noi sono presenti, passate e future, Dio le conosce in quanto sono e nella sua potenza, e nelle loro cause, e in se stesse. E la loro conoscenza viene denominata «scienza di visione, o visiva”: Dio infatti, delle cose che ancora non esistono per noi, non vede solo l’essere che hanno nelle loro cause, ma anche quello che hanno in se stesse, in quanto la sua eternità con la sua indivisibilità è presente in tutti i tempi.

Tuttavia ogni modo d’essere delle cose Dio lo conosce mediante la sua essenza. Poiché questa è rappresentabile in molti esseri che né sono, né saranno, né furono. Essa inoltre è il modello di quella virtù d’ogni causa, secondo la quale gli effetti preesistono nelle loro cause. Inoltre l’essere che ogni cosa ha in sé stessa deriva, come da causa esemplare, dalla divina essenza.

Perciò le cose non esistenti Dio le conosce in quanto hanno l’essere in qualche modo, nella potenza di Dio, o nelle loro cause, o in se stesse. Il che non ripugna alla nozione di conoscenza.

La Sacra Scrittura conferma con la sua autorità quanto abbiamo dimostrato. Nell’Ecclesiastico [23,29] infatti si legge «Al Signore Dio nostro furono note tutte le cose prima che fossero create; e dopo che furono fatte egli tutte le conosce». E in Geremia [1,5] «prima che ti formassi nell’utero, io ti conobbi».

Risulta pure evidente che non siamo costretti a dire, come alcuni fanno, che Dio si limita a conoscere i singolari in modo universale, perché li conosce solo nelle loro cause universali, ossia come chi prevede un’eclissi, non nella sua concretezza, bensì dal moto degli astri; poiché noi abbiamo dimostrato che la conoscenza di Dio si estende ai singolari nella loro concreta esistenza.

 

cap. LXVII: Dio conosce quei singolari che sono futuri contingenti

Da questi chiarimenti si può già dimostrare che Dio ha avuto dall’eternità la conoscenza infallibile dei singolari contingenti, senza che questi cessassero di essere cose contingenti [cfr. cap, 63, ob. terza]. Infatti:

1. Un effetto contingente è incompatibile con la certezza della conoscenza solo in quanto è futuro, non già in quanto è presente. Infatti fino a che è futuro l’effetto contingente può non essere: e quindi la conoscenza di chi lo riteneva futuro può ingannarsi. Ma dal momento che questo effetto è presente, non può non essere : potrebbe solo non essere futuro, ma ciò è escluso nella realtà contingente ormai presente. Perciò quando uno vede correre un uomo, niente manca alla certezza della sua percezione, sebbene il fatto affermato sia contingente. Cosicché ogni conoscenza che ha per oggetto il contingente in quanto presente può essere certa. Ora, stando alle spiegazioni date, l’intuito dell’intelletto divino raggiunge dall’eternità tutte le cose avvengono nel tempo come fossero presenti. Perciò rimane dimostrato che niente impedisce che Dio abbia dall’eternità una scienza infallibile delle cose contingenti

2. L'effetto contingente differisce dal necessario per il modo in cui essi sono rispettivamente nella loro causa: poiché ciò che è contingente è nella propria causa in modo da poter essere e non essere; mentre il necessario, posta la sua causa, non può altro che essere. Ma considerati in quanto esistenti in se stessi, questi due effetti non differiscono quanto all'entità su cui è fondata la loro verità, poiché anche nella realtà contingente considerata nel suo atto essenziale non c'è più alternativa di essere e non essere, ma solo essere, sebbene un contingente futuro possa non essere. Ora l'intelletto divino conosce dall'eternità, non solo nell'essere che hanno nelle loro cause, bensì anche nell'essere che hanno in se stesse. Quindi niente gli impedisce di avere la conoscenza eterna e infallibile di realtà contingenti

3. L'effetto come segue con certezza da una causa necessaria, così segue con certezza da una causa contingente perfetta, se questa non trova impedimenti. Ma Dio, conoscendo tutte le cose, come sopra abbiamo dimostrato [cap. 50], non solo conosce le cause contingenti, bensì anche gli ostacoli che possono impedirle. Perciò egli conosce con certezza se gli effetti contingenti ci saranno o non ci saranno

4. L'effetto non può mai essere superiore alla sua causa, anzi spesso è inferiore ad essa. Perciò siccome in noi la conoscenza è causata dalle cose, può capitarci di conoscere persino le cose necessarie non col valore della necessità, ma con quello della probabilità. Mentre però per noi le cose sono causa della conoscenza, in Dio la conoscenza è causa delle cose che egli conosce. Perciò niente impedisce che, mentre queste sono contingenti, la conoscenza che Dio ne ha sia invece necessaria

5. Una causa contingente non può avere un effetto necessario: altrimenti l'effetto potrebbe capitare anche togliendone la causa. L'effetto ultimo però ha una causa prossima e delle cause remote. Se quindi la causa prossima è contingente, il suo effetto dovrà essere contingente, anche se la causa remota fosse necessaria: le piante, p. es., non fruttificano necessariamente, sebbene il moto del sole sia necessario, a motivo delle cause intermedie contingenti. Ora, la scienza di Dio, pur essendo causa di ciò che conosce, ne è tuttavia la causa remota. Perciò la sua necessità non è incompatibile con la contingenza di ciò che conosce: poiché le cause intermedie possono essere contingenti

6. La conoscenza di Dio non sarebbe vera e perfetta qualora le cose che avvenissero diversamente da come Dio le prevede. Dio però, essendo il conoscitore di tutto l'essere, di cui è il principio, conosce ogni effetto non solo in se stesso, ma in rapporto a ogni sua causa. Ora l'ordine delle cose contingenti alle loro cause prossime consiste nel derivare da esse da esse in maniera contingente. Dunque Dio sa che alcune cose avverranno, e che avverranno, e che avverranno in maniera contingente. Perciò la certezza e la verità della scienza di Dio non eliminano la contingenza delle cose.

Da ciò risulta come si deve confutare l'obiezione che impugna la conoscenza divina delle cose contingenti. Infatti la variazione di cose posteriori non può produrre variazione in quelle antecedenti: poiché capita che da cause prime necessarie derivino effetti ultimi contingenti. Infatti la variazione di cose posteriori non può produrre variazione in quelle antecedenti: poiché capita che da cause prime necessarie derivino effetti ultimi contingenti. Dal fatto che oggetti conosciuti da Dio sono variabili non segue che possa sbagliare nella deduzione [secundum consequens], se per il fatto che è variabile la nostra conoscenza delle cose variabili, pensassimo che ciò debba avvenire necessariamente in ogni tipo di conoscenza.

Inoltre, quando si dice che Dio sa, o che sapeva ciò che sarebbe avvenuto, non si fa che interporre qualcosa tra la scienza divina e il suo oggetto, cioè il tempo in cui si parla, rispetto al quale ciò che Dio conosce può dirsi futuro. Ma non è futuro rispetto alla conoscenza di Dio, la quale, restando nell'animo unico della sua eternità è presente a tutte le cose. Rispetto ad essa, una volta eliminato il tempo insito nella locuzione, non si può dire che la conoscenza del futuro riguarda una cosa inesistente, così da poter discutere se sarà o non sarà: ma tale oggetto dovrà dirsi conosciuto da Dio come visto nella sua esistenza. Chiarito questo, non c'è più posto per il quesito suddetto: poiché quello che è già, in quel dato istante non può non essere. L'inganno nasce dal fatto che sia il tempo in cui parliamo sia quello passato come quando diciamo: Dio sapeva, coesiste con l'eternità: e quindi il rapporto del tempo passato o presente viene riferito all'eternità, mentre non le appartiene assolutamente. Si ha così una «fallacia di accidente».

Inoltre, se ogni cosa è conosciuta da Dio come ciò che si vede di presenza, allora tutto ciò che Dio conosce dovrà essere necessario, come è necessario che Socrate sieda quando si vede che siede. Ciò però non è necessario in senso assoluto, ossia, come dicono alcuni «per necessità [intrinseca] del conseguente»; ma in senso condizionale, ossia «per necessità di [logica] conseguenza». Infatti questa è una condizionale necessaria: «Se è veduto sedere, siede». E se da condizionale la proposizione si trasforma in forma categorica: «Chi si vede sedere è necessario che sieda», avremo un'affermazione vera, se l'intendiamo in senso composito, ossia come enunciato; mentre è falsa se l'intendiamo in senso diviso, ossia come dato oggettivo. Ecco perché coloro che negano a Dio la conoscenza delle cose contingenti s'ingannano nell'interpretare tali espressioni, cadendo nel sofisma di «composizione e divisione».

Che poi Dio conosca i futuri contingenti si può mostrare anche con i testi della Sacra Scrittura. Della divina Sapienza infatti si legge: «Conosce i segni e i prodigi prima che avvengano, e gli avvenimenti dei tempi e dei secoli» [Sap 8,8]. L'Ecclesiastico [39,24] poi afferma: «nessuna cosa è nascosta ai suoi occhi: egli vede da un secolo all'altro». E Isaia [48,5]: «io te l'ho predetto già da tempo: te lo indicai prima che avvenisse».

Somma contro i Gentili, Libro I, capp. LXVI e LXVII, tr. it. di Tito S. Centi, Utet, Torino 1997, pp. 194-200.