Summa contra gentiles, 1269-1273
Il contesto dell’opera
Sebbene perduri un certo dibattito in seno alla storiografia tomista, coloro che negano alla Summa contra gentiles le finalità di un’opera direttamente apologetica ne riconoscono almeno la natura di compendio indirizzato alla formazione di coloro i quali, in circostanze che restano ancor oggi imprecisate, dovevano occuparsi di difendere ed esporre la dottrina cristiana di fronte ad interlocutori critici, eretici o non credenti. La maggioranza degli studiosi, dopo qualche incertezza, colloca ancora quest’opera sotto il pontificato di Urbano IV (1261-1264). Lo scritto – il cui titolo recitava significativamente Liber de veritate fidei catholicae –contiene il metodo e i contenuti che Tommaso riteneva adeguati per un lavoro di carattere apologetico.
Il contesto della difesa che Tommaso vi sviluppa è certamente filosofico: egli ha in mente le obiezioni di avversari intellettuali colti, non quelle che potrebbero sorgere da un’ordinaria attività evangelizzatrice o in ambito catechetico. Gli errori che si intendono chiarire e confutare non riguardano primariamente l’esistenza di Dio o la trascendenza della persona umana – solo per citare due temi che hanno invece acquistato particolare attualità nell’epoca contemporanea – quanto piuttosto la natura della divinità e i suoi rapporti con le creature, questioni capaci di generare un plesso di articolati problemi che Tommaso aveva ravvisato nel pensiero filosofico che lo aveva preceduto, o in quello a lui contemporaneo. Nello scrivere l’Angelico ha in mente l’intellettuale credente in quanto tale, ovvero il pastore o il maestro la cui armonia fra fede e ragione deve essere illustrata e rafforzata in modo propedeutico a qualsiasi attività di insegnamento e di evangelizzazione, sia egli esposto all’onere del contraddittorio oppure no. L’avversario al quale chiarire la dottrina in un più alto sforzo di approfondimento è, in certo modo, ogni intelletto credente, al quale vanno fornite risposte ai dubbi che in esso potrebbero sorgere quando si attraversano momenti di incertezza o di perplessità, o quando la propria fede è chiamata ad entrare in dialogo critico con altre fonti di cultura e di sapere.
Il percorso della Contra gentiles si presenta pertanto assai più moderno di quanto si possa a prima vista ritenere. Esso si sviluppa all’interno dell’intellectus fidei, non ponendo mai fra parentesi la Rivelazione. Accanto alla chiara prospettiva filosofica non manca mai quella teologica, non soltanto nell’impostazione del quarto ed ultimo libro, ma anche lungo lo sviluppo dei primi tre – per attenerci alla divisione proposta dallo stesso Tommaso, che separava così il loro oggetto in verità conoscibili dalla ragione (libri I, II e III) e verità che la oltrepassano (libro IV).[1] Egli è ben cosciente che numerose verità filosofiche sono presenti anche nella Scrittura e sono comunque proposte alla fede secondo la nota economia divina della “necessità morale della Rivelazione”, dichiarata dall’Angelico anche in altri luoghi. Non vi è però commistione metodologica fra prospettiva filosofica e prospettiva teologica: le verità credute vengono presentate come il compimento, quasi la rivelazione, delle conclusioni raggiunte in sede filosofica. Proposti al termine di un itinerario filosofico spesso avviato dalle affermazioni di Aristotele o di altri pensatori non cristiani, numerosi riferimenti biblici concludono quasi tutti i capitoli dell’opera; con essi Tommaso intende porre in luce che quanto dimostrato in sede filosofica richiama proprio quanto, per altra via, ci giunge dalla Parola di Dio.
Due elementi compaiono fin dalle prime battute come capisaldi della apologia dell’Aquinate: una straordinaria fiducia nella ragione umana e la profonda convinzione circa l’unicità della verità. La ragione naturale, egli afferma, dovrebbe unire tutti gli uomini:
Alcuni di essi, quali i Maomettani e i pagani, non accettano come noi l’autorità della Scrittura, mediante la quale è invece possibile disputare con gli Ebrei, ricorrendo all’Antico Testamento, oppure con gli eretici ricorrendo al Nuovo Testamento. Quelli invece non accettano né l’uno né l’altro. Perciò è necessario ricorrere alla ragione naturale (ad naturalem rationem recurrere), cui tutti sono costretti a piegarsi. Questo però nelle cose di Dio non è sufficiente. Nell’investigare quindi certe verità mostreremo quali errori esse escludano, e in che modo la verità raggiunta con la dimostrazione concordi con la fede della religione cristiana. (C.G. I, c. 2, tr. it. 62)
Il compito dell’apologeta cristiano, assimilato al compito del sapiente, è quello di applicarsi alla conoscenza della verità; una verità, si precisa, distinguibile quoad nos in due ordini di contenuti: le verità conoscibili mediante la sola ragione naturale e quelle conoscibili grazie al dono della fede: il sapiente deve adoperarsi alla confutazione degli errori contrari a queste ultime, non trascurando tuttavia di difendere anche le prime, quando queste sono conosciute solo per fede da coloro la cui ragione è troppo debole per comprenderle in modo autonomo. La persuasione, poi, dell’esistenza di un’unica verità di cui l’unico e vero Dio è autore e garante, è così forte da poter Tommaso rassicurare che esiste sempre un modo razionale per confutare errori contrari alla fede: «Tutti gli argomenti addotti contro gli insegnamenti della fede, non derivano logicamente dai principi primi naturali noti per se stessi. E quindi essi non hanno valore di dimostrazioni; ma, o sono ragioni solo dialettiche, o addirittura sofistiche (rationes probabiles vel sophisticae), e quindi si possono sempre risolvere». (C.G. I, c. 7, tr. it. 73)
Il ruolo della ragione nella fede
Tommaso è conscio del fatto che la ragione umana è così debole da dovere la Provvidenza divina rivelarci anche verità a noi accessibili, affinché possiamo conoscerle tutti, in modo spedito e senza mescolanza di errore.[2] Quella che ci viene proposta non è una visione contraddittoria della ragione, forte e insieme debole; può venirci incontro, in proposito, una duplice riflessione. In primo luogo l’Aquinate è un uomo di principi; le sue sono argomentazioni ove i termini hanno il significato che spetta loro nel quadro di un ordine creato completo e coerente, la cui verità ultima appartiene a Dio. In questo quadro – ideale ma non irreale – le capacità della ragione umana sono quelle che le derivano dall’essere l’uomo una creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio, capax Dei e, dunque, capax veritatis. In secondo luogo l’Aquinate ha in mente, come abbiamo già segnalato, la figura del sapiente, ovvero una persona alla quale sono richiesti, per definizione, rigore e profondità intellettuale; e ciò non solo per motivi di natura o per desiderio di conoscere, ma anche per virtù e per speculazione amorosa. Questo è il livello richiesto a chi ha il compito di approfondire e difendere le ragioni della fede, perché questo è anche il livello dell’interlocutore che egli può avere di fronte a sé.
Ai fini di una comprensione del metodo apologetico seguito da Tommaso, merita un’attenzione particolare il cap. 9 del libro I, nel quale l’Autore spiega la strategia che intende seguire. Se le verità naturali, delle quali anche la Scrittura eventualmente ci parla, possono essere difese con argomenti razionali, non così quelle conosciute solo per fede teologale. In merito a queste ultime, il compito del sapiente pare differenziarsi. Quando l’avversario le contraddice facendo ricorso ad argomenti razionali, ad essi occorrerà rispondere con altrettanti argomenti di ragione, perché questi esistono; se l’avversario si oppone ad esse non accettandole, allora occorrerà proporne il contenuto positivo mediante la parola della Scrittura, la cui autorità è detta divinamente confermata dai miracoli (ex auctoritate Scripturae divinitus confirmata miraculis). Potrebbero anche esistere, inoltre, degli argomenti di ragionevolezza (rationes aliquae verisimiles) per sostenere i contenuti positivi della fede, ma nei riguardi dell’avversario colto Tommaso dice essere bene non abusarne, perché argomenti mai del tutto probanti per la sola ragione, trattandosi di verità rivelate, sebbene quegli argomenti potrebbero essere suggeriti ai fedeli che già credono, quale conforto e sostegno nelle cose credute.
Alla ragione paiono pertanto spettare, metodologicamente, tre compiti: spianare la strada dagli errori che pretenderebbero mostrare i contenuti della Rivelazione come irrazionali, proporre dei motivi che conducano a prendere sul serio l’autorità delle Scritture, ed infine sostenere in modo sussidiario ma non probante i contenuti di fede, mostrandone la ragionevolezza. Ad essi va aggiunto un ulteriore compito, propedeutico a tutti gli altri: offrire argomenti razionali per dimostrare alcune specifiche verità naturali, quando anche queste fossero erroneamente negate. Sono tali quelle verità propedeutiche su Dio e sul mondo aventi il ruolo di fissare dei punti fermi attorno ai quali poter sviluppare argomentazioni condivise anche dall’interlocutore. È questo l’ambito dei “preamboli della fede”, rinunciando ai quali diviene difficile stabilire un dialogo sensato fra credenti e non credenti. Siamo di fronte ad un delicato equilibrio che rispetta la gratuità e la libertà dell’atto di fede nella Parola rivelata – fede che nessun argomento di ragione può necessariamente causare – attestando nel contempo la capacità della ragione di difendere dagli errori l’oggetto delle verità credute, preparando così l’opzione libera verso i contenuti rivelati.
In apertura dell’opera troveremo anche una sintetica esposizione dei “motivi di credibilità” oggettivi-esterni del fatto della Rivelazione cristiana, ovvero della sua origine divina, commentati sul contrappunto polemico della pretesa di rivelazione dell’islam.[3] Prestando fede a verità che superano la ragione, afferma Tommaso citando l’analoga convinzione dell’autore della Seconda Lettera di Pietro,[4]> non si compie un atto di leggerezza. I contenuti che sorpassano la ragione naturale, proposti dalle Scritture, sono ragionevolmente accettati perché nell’accoglierli l’intelligenza umana è confortata sia da «opere visibili superiori alle capacità di tutta la natura», sia dalla «ispirazione interiore delle menti umane, così da riempire col dono dello Spirito santo uomini ignoranti e semplici». Il riferimento si dirige dunque ai “miracoli” e alle “profezie”, quali motivi oggettivi ed estrinseci di credibilità della Rivelazione. La fede è inoltre rassicurata dal fatto che «in mezzo alla tirannia dei persecutori, una turba innumerevole non solo di persone semplici, ma anche di uomini sapientissimi» abbracciarono la dottrina di Gesù Cristo. E lo fecero non per la violenza delle armi, né per l’attrattiva dei piaceri, proponendosi loro piuttosto una vita virtuosa fino al sacrificio della propria vita. Vengono qui segnalati quei motivi oggettivi intrinseci, che la sistematica successiva indicherà come “la testimonianza di santità e la mirabile propagazione della Chiesa”, argomento caro ai Padri e presente già nei primi apologeti. Pungente e caustico, in Tommaso, il confronto con Maometto, la cui predicazione e sequela non sarebbero confortate da alcun segno di assistenza divina, ma facilmente riconducibili a cause prettamente umane.
Struttura dell’opera
Nel libro I Tommaso espone la dottrina filosofica su Dio in Sé, impiegando come spunto Aristotele ed il pensiero di altri autori pagani, sviluppandola poi autonomamente in sede di ragione naturale. Finalità di questa trattazione non è la “costruzione di una immagine filosofica di Dio” per poi mostrarne la coincidenza con quella teologica, programma che sarebbe in disaccordo con la convinzione dell’Angelico secondo cui la prospettiva apofatica resta indispensabile per la conoscenza di Dio. Egli intende invece, principalmente e preventivamente, rispondere a quelle obiezioni filosofiche e di ragione che potrebbero essere state mosse (e talvolta così è stato) contro un logos su Dio, reclamandone inconsistenze, contraddizioni, o formulando interrogativi critici; ad essi Tommaso fornisce una replica filosofica, spesso confermata dalla Scrittura, spianando così la strada alle “condizioni di possibilità” di un logos teologico su Dio.
Nella trattazione del libro II, dovendo Tommaso introdurre in sede filosofico-razionale il tema della creazione – finalità di questo libro è infatti esporre la dottrina su Dio rispetto alle creature, ovvero il loro exitus da Lui come Causa efficiente – egli si adopera per farlo in modo rispettoso della fede, evitandone una “riduzione entro i limiti della ragione”. Partendo dalla considerazione di Dio come Causa prima, la ragione naturale deduce che si può parlare degli enti esistenti come creature, in quanto essi devono aver ricevuto l’essere da questa causa, mentre gli attributi di Dio in quanto creatore e le proprietà dell’atto creativo vengono discussi avendo come riferimento l’idea di una “Causa universale dell’essere”. Successivamente, con l’aiuto del pensiero logico-metafisico vengono risolte obiezioni, dichiarate o implicite, mostrando la coerenza interna di una dottrina sulla creazione e chiarendo apparenti contraddizioni o antinomie, senza avere mai la pretesa di confinare la dottrina rivelata entro i limiti di un discorso filosofico. All’inizio di questo libro troveremo le preziose riflessioni circa i motivi per i quali la conoscenza delle creature è vantaggiosa per la fede e aiuta a chiarire gli errori circa la natura del vero Dio, una dottrina oggi specialmente rilevante e fruibile nel contesto del dialogo fra la teologia e le scienze, con forti suggestioni sul ruolo che queste ultime possono rivestire nel quadro di uno sviluppo omogeneo del dogma. Sempre nel libro II della Contra gentiles, un elegante esempio di come l’Autore imposta un problema di rapporto fra fede e ragione lo troviamo dal capitolo 32 fino al 38, quando si affronta la discussione sull’eternità del mondo. Tommaso si adopera per mostrare, con un’esposizione che mantiene la sua validità anche ai nostri giorni, che non esistono argomenti filosofico-razionali apodittici né a favore dell’eternità del mondo né a favore del suo inizio nel tempo: l’inizio del tempo e della storia non appartengono alla ragione filosofica, ma vengono conosciuti grazie alla Rivelazione. Egli si limita a confutare i primi (ovvero a mostrare la loro non apoditticità) per assicurare la ragionevolezza del dato rivelato; e non forza innecessariamente i secondi, lasciando che in questo campo la fede trasmetta una verità ricevuta dalla Scrittura e non dimostrabile razionalmente dalla ragione filosofica. La ragione, in sostanza, viene qui impiegata per rischiarare la ragione, non per provare la fede.
Risulta assai istruttiva la considerazione dei principali contenuti del libro III – centrato anch’esso sul rapporto fra Dio e le creature, ma con la falsariga del reditus di queste ultime a Dio come loro Causa finale – perché i suoi 163 capitoli presentano ancor oggi l’inventario ordinato dei temi maggiormente propedeutici alla fede, sui quali la ragione filosofica avrebbe certamente qualcosa da dire. Sulla scorta della natura e degli attributi dell’unico Dio consolidati nelle pagine precedenti dell’opera, Tommaso affronta in sequenza ordinata: il problema del male; il desiderio di felicità insito in ogni uomo e il suo compimento in Dio; la possibilità che tale compimento non resti frustato, ovvero la possibilità da parte di creature razionali finite di una vera visione di Dio; l’esistenza di una Provvidenza divina e la sua conoscibilità, con l’appendice dell’operare di Dio nella natura; il riconoscimento di una legge naturale e quanto da essa si può dedurre; gli obblighi derivanti dalla religione quale legame naturale dell’uomo con Dio; il peccato e la virtù quali canoni che esprimono le modalità secondo cui vivere tale legame.[5]
L’idea che Tommaso ha della ragione, come abbiamo già osservato, è certamente alta, perché alta è la natura dell’uomo ed alto il suo intelletto, «il cui appetito naturale è conoscere i generi, le specie e le virtù di tutte di tutte le cose, e tutto l’ordine dell’universo, come lo dimostra la ricerca dell’uomo circa codeste cose» (C.G. III, c. 59, tr. it. 685). La sua apologia ha di fronte un essere umano che per natura desidera, come ultimo fine, conoscere la causa prima. A costui egli ricorda che la causa prima di tutte le cose è Dio, la cui conoscenza è il fine ultimo dell’esistenza umana. «Gli uomini hanno il desiderio naturale di conoscere le cause di ciò che vedono: ecco perché essi diedero inizio alla ricerca filosofica, per la meraviglia dei fenomeni che vedevano e di cui ignoravano la causa; e una volta trovata la causa si fermavano. Ma la ricerca non ha tregua fino a che non si giunge alla prima causa: e “allora noi conosciamo perfettamente quando conosciamo la causa prima” [Aristotele, Metafisica, I, 3, 1]. Dunque l’uomo per natura desidera, quale ultimo fine, di conoscere la causa prima. Ma la causa prima di tutte le cose è Dio. Quindi conoscere Dio è l’ultimo fine dell’uomo» (C.G. III, c. 25, tr. it. 606). Egli, ancora, ha di fronte il sapiente, che anche senza il dono della Rivelazione sa di voler tendere alla felicità e al sommo bene, ed è capace di riconoscere che la contemplazione delle cose fornita dalla filosofia reca con sé un livello di felicità più alto di quello fornito dai beni finiti.
Occupandosi dell’esposizione di Dio Trinità in sé stesso e Dio Trinità rispetto a noi sue creature, negli aspetti di exitus (Incarnazione e sacramenti) e di reditus (i novissimi), il libro IV inizia con un Prologo sui rapporti fra filosofia e Rivelazione. Per la sua pro grammaticità lo riproponiamo qui per intero:
L’intelligenza dell’uomo, desumendo il proprio sapere naturale dalle cose sensibili, non è in grado di raggiungere direttamente l’intellezione dell’essenza divina in sé stessa, la quale si eleva oltre misura al di sopra delle cose sensibili, anzi al di sopra di tutti gli esseri. Siccome però il bene perfetto dell’uomo consiste nel conoscere in qualche modo Dio, affinché una creatura così nobile non risultasse del tutto inutile, non riuscendo essa a raggiungere il proprio fine, è stata offerta all’uomo una via per potersi elevare alla conoscenza di Dio: cosicché mentre tutte le perfezioni delle cose discendono ordinatamente da Dio, vertice supremo della realtà, l’uomo, cominciando dalle cose inferiori e salendo gradatamente, può progredire nella conoscenza di Dio; poiché anche nel moto degli esseri corporei la via per cui si discende, è identica a quella che sale, a prescindere dai rapporti con i rispettivi punti di partenza e di arrivo (eadem est via qua descenditur et ascenditur, ratione principii et finis distincta). (C.G. IV, c. 1, tr. it. 969).
Prima di addentrarsi nei misteri della fede cristiana, Tommaso vuole ricordare che la più alta conoscenza di Dio che si appresta ad illustrare non è informazione estrinseca, ma rivelazione del volto personale di un Soggetto che la ragione naturale cerca incessantemente, rivelazione che si manifesta certamente come dono, ma anche, e indissociabilmente, come spiegazione del perché “una creatura così nobile” aspiri a qualcosa che la superi. Centrale, nella strategia di Tommaso, l’asserto che «la via per cui si discende è identica a quella che sale», da lui riaffermato più volte nel medesimo Prologo. Scala maestra sulla quale procedere lungo questa unica via, tanto nel desiderio del bene cercato quanto nella comprensione del dono ricevuto, resta, implicitamente, quella dell’analogia e dei gradi dell’essere.
Sebbene il quarto ed ultimo libro sia dedicato in buona parte ad argomentare contro eresie ed errori ricorrendo ai corrispondenti passi scritturistici, il lavoro di Tommaso comprende anche specifici compiti di carattere filosofico. Quando le obiezioni sono di ragione, o quando la ragione, più semplicemente, manifesta la sua perplessità di fronte al mistero, egli si adopera per rispondere alle eventuali incongruenze od oscurità che il dato rivelato parrebbe recare con sé. Quando Tommaso parla della generazione divina del Figlio dal Padre, ad esempio, egli non nega che la ragione umana, la quale parte dalle proprietà delle creature, trovi molte difficoltà in questo mistero, ma nondimeno è convinto che tutte le apparenti contraddizioni possono essere risolte; «poiché la verità – egli sostiene – è forte in se stessa e non può essere abbattuta da nessuna obiezione, bisogna attendere a dimostrare come la verità della fede non possa essere vinta dalla ragione». (C.G. IV, c. 10, tr. it. 1012). Esemplare, in Tommaso, lo sforzo per mostrare come il dono dell’Incarnazione del Verbo sorpassi la ragione più di ogni altra opera di Dio e trascenda ogni aspettativa, presentandosi al tempo stesso come sommamente conveniente per la creatura umana e la sua salvezza. Anzi, proprio perché “la stoltezza di Dio è superiore alla sapienza degli uomini” (cf. 1Cor 1,25), in sintonia con quanto avrebbe fatto Anselmo riferendosi all’impiego di rationes necessariae, Tommaso aggiunge che «a chi lo medita con devozione appariranno ragioni sempre più ammirabili di questo mistero».[6] Nella trattazione dedicata ai sacramenti va segnalato l’impegno dell’Autore a raccogliere con attenzione le obiezioni mosse contro la fede nell’Eucaristia, in particolare per quanto riguarda la presenza reale del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo. Ad di là dei limiti che la filosofia della natura impiegata dall’Aquinate certamente possiede, resta il fatto che nessuna teologia sacramentaria dell’epoca presente, per quanto ci risulta, ha mai più inteso ingaggiare con la ragione scientifica un dialogo così esteso e serrato come quello che impegna Tommaso lungo ben 8 capitoli della Contra gentiles.[7] Valoroso, infine, il tentativo di presentare in forma critica anche i misteri relativi alle cose ultime, perché, anche quando illuminata dalla luce della fede, la ragione non può essere mai costretta all’assurdo.
Suggerimenti per l’odierno lavoro teologico
Nella Contra gentiles sono contenuti spunti assai preziosi anche per il lavoro teologico contemporaneo. Sebbene essa esponga tutti i compiti della ragione, ad uno sguardo complessivo gli argomenti di Tommaso paiono riguardare più i praeambula fidei che non le rationes credibilitatis, almeno come queste ultime saranno poi sistematizzate nella teologia successiva, sempre di ispirazione scolastica. L’opera rappresenta pertanto una possibile fonte di ispirazione per quegli itinerari metodologici volti a recuperare il ruolo di tali preamboli in sede teologico-fondamentale. Tommaso ricorda a tutti che una trattazione propedeutica alla fede non potrà mai trascurare i grandi temi del significato del male, della ricerca della felicità, dell’esistenza della Provvidenza divina; temi la cui grammatica metafisica possiede straordinarie valenze antropologiche, che consentono di poterli declinare in accordo con le sensibilità odierne. Rileggendo la Contra gentiles, il teologo viene scosso dall’audacia di Tommaso. Egli ha voluto onorare le esigenze della ragione fino in fondo, prendendo in opportuna considerazione le affermazioni del suo interlocutore, tanto l’esercizio della propria ragione critica quanto la posizione di pensatori e di avversari, a lui precedenti o contemporanei, che contraddicevano quanto il dato rivelato sostiene con certezza e la fede professa, ieri come oggi, con tradizione provata.
Bibliografia
G. Cottier, Les motifs de crédibilité de la Révélation selon Saint Thomas, in L. Elders (ed.), La doctrine de la révélation divine de saint Thomas d’Aquin, LEV, Città del Vaticano 1990.
R.-A. Gauthier, Introduction historique, in S. Thomas d’Aquin, Contra Gentiles, P. Lethielleux, Paris 1961, 7-123.
R.-A. Gauthier, Somme contre les Gentils. Introduction, Editions Universitaires, Campin (Belgique) 1993, 165-181.
N. Kretzmann, The Methaphysics of Theism. Aquinas’s Natural Theology in Summa contra Gentiles, 2 voll., Oxford University Press, Oxford 1997-1999.
[1] Cf. Contra Gentiles (C.G.), I, c. 9.
[2]Cf. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae (S. Th.), tr. it. La somma teologica, 4 voll., a cura di S. Coggi, ESD, Bologna 1996-2014, I, q. 1, a. 1.
[3] Cf. C.G. I, c. 6. Le citazioni virgolettate nel testo appartengono tutte a questo capitolo.
[4] «Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza» (2Pt 1,16).
[5] La prospettiva metodologica nell’affrontarli resta quella dichiarata dall’Autore in apertura dell’opera: l’itinerario della ragione viene presentato in modo propedeutico alla fede oppure impiegato per mostrare la non contraddittorietà ed il carattere secondo ragione di ciò che la Scrittura afferma e la fede professa. Quest’ultimo impiego si fa più frequente nell’esposizione di temi quali la virtù, il peccato e la grazia, commentando i quali Tommaso intervalla considerazioni desunte dall’ambito etico-naturale con l’offerta di argomenti che mostrano la ragionevolezza di una morale rivelata.
[6]Ibid., c. 54, tr. it. 1157, il corsivo è nostro.
[7] Cf. C.G. cc. 61-68.
Una versione estesa del presente studio è pubblicata in G. Tanzella-Nitti, Teologia della credibilità, vol. 1: La teologia fondamentale e la sua dimensione di apologia, Città Nuova, Roma 2015, pp. 362-373.
Brani antologici proposti
Dio conosce le cose che ancora non esistono e dunque anche il futuro contingente, Libro I, capp. 66-67
La volontà di Dio non toglie alle cose la loro contingenza né le rende assolutamente necessarie, Libro I, cap. 85
Perché lo studio della creazione è istruttivo per la fede: i compiti del filosofo e del teologo nella conoscenza della natura, Libro II, capp. 2-4
La creazione non è un moto né una trasformazione, esclude successione e durata, Libro II, capp. 17-19
Gli argomenti a favore della eternità del mondo e la loro confutazione, Libro II, capp. 32-37
La distinzione delle diverse creature, determinata dalle cause seconde, è dovuta non ad esse, ma all’intenzione della Causa Prima, Libro II, capp. 42 e 45
L’uomo, fine dello sviluppo e del generare di tutto l’universo, Libro III, cap. 22
La conoscenza di Dio è il fine di tutti gli esseri razionali: la felicità dell’uomo consiste nella contemplazione di Dio, Libro III, capp. 25 e 37
La divina provvidenza non esclude del tutto il male delle cose, Libro III, cap. 71