Amore

  Amore e vita sembrano inscindibilmente uniti. Quasi indistinguibili. L’amore ha bisogno della vita, ma la vita senza amore è vuota. Intuiamo che vivere, nella sua realizzazione più alta, è amare. Forse per il suo legame con la vita, per il fatto di essere sostanza della vita, l’amore è la realtà più universalmente apprezzata, stimata, desiderata; cantata in innumerevoli rime poetiche e tema ricorrente di opere d’arte e canzoni. Eppure per amore si può soffrire, addirittura morire; per amore ci si lega a un altro, si dipende da un altro. L’amore può essere un gioco pericoloso, ma nessuno vuole rimanere in panchina. L’amore si vive in molte forme: verso i genitori o verso i figli, verso i fratelli e gli amici, verso la persona con cui si condivide la vita o addirittura verso Dio; lo si dona e lo si riceve. Lo si vive e sperimenta continuamente, ma raramente lo si pensa. Eppure poche altre cose, come l’amore, meritano la nostra attenzione.

  Quando ci si sofferma a considerare cos’è l’amore e come sorge in noi, ci imbattiamo in paradossi. Ho bisogno di essere amato. E di esserlo al di là di tutto, dei miei limiti e dei miei meriti: di essere amato senza condizioni. Ma, allo stesso tempo, un amore che mi venga semplicemente donato, regalato, faccio fatica ad accettarlo. In qualche modo ho bisogno anche di sapere che valgo effettivamente qualcosa, che sono amato meritatamente! L’amore che ricevo lo attendo come conferma di ciò che sono e che valgo. Il fatto è che niente come l’amore che ricevo ha la capacità di confermare a me stesso che la mia esistenza è preziosa, perché lo è per qualcuno. Anche se inconsapevolmente, ognuno di noi ha le proprie radici nell’amore di chi lo ha generato e nutrito con il proprio affetto. Per questo la carenza di amore da parte dei genitori, quando c’è, lascia in noi un vuoto, una ferita difficilmente sanabile. Senza aver sperimentato l’amore di qualcuno, l’uomo è orfano, non ha una casa nel mondo.

  C’è anche un altro paradosso. Si vorrebbe vivere per amore, scegliere sempre mossi dall’amore, essere rapiti dall’amore verso colui o colei con cui condivideremo la vita. L’amore non sembra autentico se non è un sentimento del tutto spontaneo, in qualche modo irresistibile in noi; l’amore non tollera forzature. Eppure avvertiamo anche che un amore simile non è in nostro potere provocarlo, né far sì che duri nel tempo. E ci spaventa l’idea che possiamo non trovare mai il grande amore o che, una volta acceso in noi possa un giorno estinguersi lasciandoci vuoti e portando con sé tutto ciò che abbiamo costruito. Come una casa che crolla, ferendo noi e chi ci vive dentro insieme a noi. Ma c’è di più. Il paradosso si rivela in termini ancor più crudi. Se l’amore non deve essere altro che sentimento e passione spontanea, che rapisce ed esalta, e così viene vissuto da chi ne è posseduto, allora la questione è: cosa amo quando amo? L’altro o il mio stato d’animo? Il suo bene o la mia felicità? Se quando l’affezione cala mi sembra che tutto sia finito, che l’altro non meriti più amore, non viene il dubbio che quell’amore fosse, in fondo, nient’altro che una forma di egoismo raffinato che usa l’altra persona per alimentarsi? Quante storie vissute sembrano rafforzare questo dubbio!

  Sapevo che meritava di meglio, ma sapevo che mi avrebbe fatto male vederla accanto a qualcun altro, quindi sono migliorato, migliorato per amore, migliorato per non perderla. Questa esperienza, raccontata dal suo protagonista e affidata a una pagina social sul tema dell’amore, indica una chiave di comprensione dell’amore molto interessante. L’amore ti insegna a migliorare. O, in altre parole, l’amore vero richiede cura per l’altra persona, decisione di migliorare per lei, di uscire da se stessi per andare incontro alle sue esigenze. Perché questo avviene? Proviamo a rifletterci un momento. Se l’amore è inteso solo come sentimento o passione, non si coglie ancora la sua essenza. E non si esce dal paradosso. Un sentimento è sempre “segno”, riflesso affettivo di qualcosa che sperimentiamo, che ci tocca il cuore. Esso allora pone la domanda: di cosa si tratta? Cosa sto sperimentando? Cosa fa sorgere in me l’amore? È evidente che si tratta dell’altra persona, della sua bontà e bellezza, della sua preziosità ai miei occhi. Il primo movimento verso l’altro allora è volerlo “per me”, perché averlo mi fa felice. È quello che i classici chiamano amore di concupiscenza (o eros). Ma vi è anche un altro movimento, quello che mi spinge a cercare la felicità dell’altro, di “esserci per l’altro”, di volere il suo bene. Si tratta dell’amore di benevolenza (o agape) in termini classici. È proprio in questa “uscita da sé” che l’amore può diventare qualcosa di più che sentimento di appagamento personale, facendosi più grande e più vero, assumendo anche il carattere di dono di sé. È quando divento capace di vedere il bene che l’altra persona è “in sé” e di volere il suo bene “per lei” e non per me, che amo nel modo più vero e più pieno. È allora che l’altra persona acquista in me il giusto rilievo e che l’amore si alimenta e rafforza nella comunione con lei, e non nella semplice ricerca di appagamento personale. Quando si ama così diventa naturale anche il sacrificio per l’altro, diventa possibile anche il perdono, offerto e ricevuto reciprocamente come balsamo che cura le ferite che ogni relazione umana conosce.

  È attribuito a Nietzsche l’aforisma secondo cui il vero amore pensa all’istante e all’eternità, mai alla durata. È profondamente vero che chi ama vive intensamente il presente e vorrebbe eternizzarlo, ma è necessario che l’amore sia custodito, curato e alimentato nel tempo, perché possa essere per sempre. In questo senso, si può anche affermare che «la fedeltà nel tempo è il nome dell’amore» (Benedetto XVI, Omelia, Fatima 2012). Vissuto come accoglienza e dono di sé reciproco e fedele, che fa sperimentare nel tempo la gioia della comunione, l’amore manifesta per contrasto tutta la verità dell’espressione di Genesi: «non è bene che l’uomo sia solo» (Genesi 2,18). Anche se riferita all’amore di coppia, questa espressione ha significato per ogni forma di amore, da quello sponsale a quello parentale, all’amicizia: l’uomo è fatto per vivere in relazione ed è l’amore autentico che lo fa uscire dall’isolamento, introducendolo nella pienezza della vita.

  Si racconta che il fisico Paul Dirac, uno dei padri della meccanica quantistica, quando volle comunicare la bella notizia dell’arrivo del primo figlio al suocero, inviò un telegramma in cui scrisse semplicemente: 1+1=3. L’evidente e voluto “errore di calcolo” mette in luce la logica eccedente  dell’amore e la sua incontenibile tensione a generare vita. Vi è una sovrabbondanza di luce e di bellezza che sperimentano nella propria esistenza coloro che si amano: una gioia nuova accompagna ogni azione; un desiderio di condividere le esperienze, che così si intensificano; una nuova visione del mondo, che acquista profondità, perché frutto di due sguardi invece che uno solo; un coraggio e una forza che si alimentano nella comunione. Ma la generatività dell’amore non si limita a questo. È nell’amore e dall’amore che sorge la vita. Quando ciò avviene è come un ulteriore e gratuito dono che si somma e amplifica la gioia della comunione. Ogni figlio è una novità assoluta, sempre inattesa anche quando è desiderata e cercata. Si comprende fino in fondo la capacità generativa dell’amore se si pensa che un figlio non cresce solo a base di proteine e carboidrati, ma anche e soprattutto grazie alla tenerezza e alla cura dei genitori, alla loro vicinanza, alla loro guida e soprattutto grazie al loro amore reciproco che fa sentire sicuri i piccoli. E si rivela altresì che l’amore è vocazione a uscire da sé, porta di comunicazione con l’altro: forse mai come davanti a un figlio ci si sente capaci di tutto, di dedicare ogni energia, fino a difendere con la vita quel prezioso frutto del proprio amore.

  La Commedia di Dante si chiude con un sorprendente verso in cui il poeta intravede nell’amore – l’amor che move il sole e l’altre stelle – la forza e il senso che pervade l’intero cosmo. Un altro grande spirito cristiano prima di lui, Francesco di Assisi, aveva abbracciato in uno sguardo di amore tutte le creature, contemplandole come unite da un misterioso e profondo legame di fraternità. Sono molte le forme di pensiero filosofico e religioso che riservano all’amore un posto centrale nella visione del mondo e dell’uomo. Ma forse è nel cristianesimo che si raggiunge un vertice ineguagliato: l’affermazione che Dio stesso è Amore (cf. 1Giovanni 4,8.16). All’apice del pensiero greco, Aristotele ha visto in Dio il motore del mondo in quanto oggetto dell’amore da parte di tutti gli esseri, ma non interessato alla relazione con le cose, assorbito com’è nella propria auto-contemplazione. Nelle concezioni orientali il divino comprende tutto poiché è tutto, in modo che ogni essere è destinato a fondersi nell’unità dell’uno-tutto come una goccia nell’oceano, perdendo la propria individualità. Il Dio cristiano è invece comunione intima del Padre e del Figlio nell’Amore che è lo Spirito. Un Dio-Amore che crea il mondo come habitat per l’uomo, come luogo per la storia di amore che intende costruire con lui. Questo Dio che chiede all’uomo di essere riconosciuto come Padre e amato con tutto il cuore – mente e sentimento – al tempo stesso in cui gli chiede di amare il prossimo come un altro se stesso, può essere visto come la vera sorgente dell’amore in tutte le sue forme. Se l’amore è il senso e la sostanza della vita dell’uomo è perché questo è il modo di vivere di Dio, di cui l’uomo è reso partecipe. La convinzione cristiana è che nella risurrezione del Figlio di Dio fatto uomo è data la garanzia che la promessa di eternità che l’amore umano contiene e che sembra ora smentita dal male e dalla morte, è in realtà custodita nella fedeltà dell’Amore di Dio. L’amore ha bisogno della vita, dicevamo all’inizio. Nella prospettiva cristiana, si rivela che l’Amore di Dio è la fonte stessa della vita dell’uomo. Ed è verso la comunione piena e definitiva dell’amore che la vita sembra orientata.