Poco più della metà degli abitanti del pianeta Terra – due miliardi e mezzo di cristiani, quasi due miliardi di musulmani e circa 10 milioni di ebrei – guardano verso Abramo come al patriarca che ha adorato quel medesimo Dio al quale tutti costoro oggi si rivolgono. Di Abramo parlano i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento e il Corano. La storia di Abramo ci viene narrata dal libro della Genesi, ma la sua vicenda, le promesse ricevute da Dio, il nuovo popolo che da lui prende origine in vista della nascita del Messia, sono oggetto di numerosi altri libri della Bibbia. Sempre stando alle narrazioni del libro della Genesi, altri patriarchi prima di Abramo avevano ascoltato la voce di Dio, con vicende alterne fatte di obbedienza, ma anche di numerose infedeltà. Il cammino religioso degli esseri umani sulla terra comincia di fatto assai prima che la Bibbia parli di Abramo e dei suoi rapporti con Dio. Perché, allora, parlare di lui, perché in modo particolare associare Abramo al nome di Dio? La sacra Scrittura sembra interessata a farci comprendere che con lui avviene qualcosa di realmente nuovo. Abramo giunge a una consapevolezza che i suoi predecessori, che certamente popolavano la terra da varie decine di migliaia di anni, non avevano ancora manifestato. È la consapevolezza di una chiamata, di una missione, di una promessa. Con Abramo nasce qualcosa che avrebbe modificato, secondo la prospettiva del testo biblico, l’intera storia degli uomini. A nessun altro uomo Dio aveva mai detto ciò che chiederà e prometterà ad Abramo. Egli diventa un’icona che illustra il rapporto fra Dio e l’uomo, come l’uomo deve porsi di fronte a Dio, di cosa l’uomo è capace quando si affida alla parola e alle promesse di Dio. Non è ai numeri, agli anni, ai luoghi e ai nomi che deve dirigersi la nostra attenzione, ma alla sostanza, a ciò che adesso nasce, per la prima volta, in un incontro fra Dio e l’essere umano.
In primo luogo, la storia di Abramo segna in modo paradigmatico il passaggio dal politeismo al monoteismo. Ad Abramo Dio chiede di lasciare la propria terra, il proprio culto, i propri dèi, le proprie usanze, e dirigersi verso una terra nuova, perché adesso erede di una Promessa che coinvolgerà tutti gli esseri umani: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome […] In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12,1-3). Seguire Dio è certamente costoso, richiede cambiare strada, prendere un’altra direzione, letteralmente “convertirsi”. Lasciare le proprie certezze, mettersi a disposizione per costruire qualcosa di nuovo. Solo agendo così, Abramo potrà interpretare la missione ricevuta e ricevere ciò che Dio gli vuole dare:
“Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l'erede della mia casa è Elièzer di Damasco”. Soggiunse Abram: “Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede”. Ed ecco, gli fu rivolta questa parola dal Signore: “Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede”. Poi lo condusse fuori e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle” e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”. Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia (Genesi 15,2-6).
In realtà, di questo Dio che chiama, esige, promette, Abramo sa molto poco, quasi nulla. Nessuno, nella sua parentela gli ha parlato di Lui. Non erano rivolte a Lui le preghiere imparate nelle terre di Ur e di Carran, che adesso abbandona; né erano diretti a Lui i sacrifici che si solevano offrire alle divinità. Egli, Abramo, sa però qualcosa che gli basta per fidarsi di Lui: ha a che fare con il “Dio Altissimo, creatore del cielo e della terra”. Conoscerlo come il Creatore di tutto gli sembra più che sufficiente. Abramo non ha visto miracoli, non ha conosciuto testimoni, non ha ricevuto prove. Ha soltanto ascoltato una parola che lo ha chiamato, una parola che adesso sa essere quella del Creatore. E parte.
Abramo sognava una discendenza. Un figlio da sua moglie, Sara. Non bastavano i servitori e i figli naturali generati da concubine, per una vera discendenza. Dio gli ha parlato di un figlio suo, dal quale avrebbe avuto origine una discendenza numerosissima, come le stelle del cielo e la sabbia del mare. Abramo è vecchio, sua moglie è sterile. La promessa di Dio fa sorridere Sara, che non ci crede. Abramo invece la prende sul serio. Quasi lo sentiamo ragionare così: Per chi ha creato il mondo dal nulla può essere un problema far concepire un figlio a un uomo anziano da una moglie non più feconda? Credere in Dio non vuol dire solo la disponibilità a cambiare vita, a “convertirsi”, ma anche la capacità di accettare cose che, umanamente parlando, sembrerebbero impossibili. Impossibili non perché contro la ragione, ma perché troppo difficili da realizzare con le nostre forze. La fede è la debolezza dell’uomo che diventa forza di Dio. Quegli uomini e quelle donne che chiamiamo santi, non sono forse tutti esempi di persone deboli che Dio ha reso capaci di realizzare imprese giudicate impossibili?
Ed ecco che ad Abramo e Sara nasce un figlio, Isacco. È lui la discendenza, la “prova” di quella promessa e di quella benedizione, diretta misteriosamente a tutte le genti. Il cristianesimo legge queste pagine pensando a Gesù, vedendo in lui la Promessa e la Benedizione, e nella storia di Abramo l’inizio di una paziente preparazione, l’avvio di un popolo fedele all’Unico e vero Dio nel quale comparirà Maria di Nazaret, madre di Gesù Cristo. Chiamando Abramo, Dio sembra pensare a Maria, sta preparando un seno materno perché possa essere concepito Suo Figlio, il Cristo, vero Dio e vero uomo.
Ma la fede di Abramo, il suo rapporto con Dio, deve rivelarci ancora qualcosa. Abramo dovrà mostrarsi capace di restituire a Dio – che glielo aveva donato – Isacco, il figlio da cui avrebbe dovuto avere inizio una discendenza estesa quanto le stelle del cielo e la sabbia del mare. La promessa sembra svanire, tutto ciò che l’onnipotenza di Dio e la fede di Abramo hanno costruito pare adesso crollare. Una pagina durissima, incredibile.
Dio mise alla prova Abramo e gli disse: "Abramo!". Rispose: "Eccomi!". Riprese: "Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va' nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò". Abramo si alzò di buon mattino, sellò l'asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l'olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato (Genesi 22,1-3).
L’obbedienza di Abramo è ancora sostenuta dalla fede, una fede alla quale viene adesso chiesto di credere spogliandosi di ogni pretesa e di ogni previsione. Abramo rimette tutto nelle mani di Dio, quelle mani da cui tutto aveva ricevuto. Capiamo perché, guardando quest’uomo, la maggioranza degli abitanti di questo pianeta abbia cercato di comprendere cosa la fede in Dio implica, fino a dove essa può arrivare. Isacco porta sulle spalle la legna su cui verrà adagiato da suo padre Abramo. Un altro Figlio, quasi duemila anni dopo, porterà sulle spalle il legno del proprio sacrificio. Anch’egli figlio unico, erede di una promessa ed Egli stesso Promessa del suo popolo. Il monte Mória è il monte dove verrà costruita, secoli dopo, la città di Gerusalemme (cf. 2 Cronache 3,1).
Il coltello di Abramo verrà fermato da Dio e non colpirà Isacco. La voce di Dio tornerà a parlare ad Abramo:
“Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito […]. Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; […] Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce” (Genesi 22,12-13.16-18).
Quanto accade ad Abramo è paradigmatico della storia che Dio ha voluto scrivere con gli uomini. I cristiani affermano che Dio stesso ha offerto la vita del Suo Figlio per il perdono dei peccati degli uomini. Così scrive Giovanni: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Giovanni 3,16-17). In Cristo Gesù, la promessa fatta ad Abramo è estesa a tutti i popoli (cf. Galati 3,14.28-29). La benedizione accordata sono la salvezza e l’invito a partecipare della vita stessa di Dio.
Dio avrebbe potuto scrivere la storia della salvezza da solo, senza bisogno di nessuno. Ha voluto invece scriverla con Abramo, servendosi della sua fede, lasciando che questi divenisse figura del Padre, e Isacco figura del Figlio. E ha voluto scriverla attraverso la fede di Maria, la fede di Pietro e dei primi discepoli del Cristo, attraverso la fede dei santi e dei martiri di ogni generazione. Il sacrificio non consumato in Isacco è consumato in Gesù Cristo. La vita restituita a Isacco e la vita che il Cristo risuscitato torna a vivere, per sempre. La discendenza di Abramo sono adesso tutti i popoli della terra.