“Umanistico” e “scientifico” ai tempi della neuroscienza

Andrea Moro
2020

Nella cultura occidentale contemporanea vige, a tutti i livelli, la distinzione tra studi di tipo umanistico e studi di tipo scientifico. Questa distinzione, che affonda le sue origini nell'Umanesimo e si è via via rinforzata in epoca moderna fino alla radicalizzazione positivista, non è mai stata veramente giustificata in modo esplicito e convincente ma viene data per scontata e le sue ricadute hanno una portata incalcolabile.
Fra tutte le conseguenze, basti pensare a quelle nell'ambito dell'educazione, sia scolastica sia universitaria: non esiste praticamente istituzione che di fatto non consideri questa partizione come griglia organizzativa per selezionare, formare e indirizzare gli studenti. Tralasciando un'analisi dettagliata dei motivi storici e filosofici che hanno dato origine a questa distinzione, è ovviamente immediato riconoscere che deve aver avuto una funzione importante per giustificare un radicamento e un'affezione così solidi. In prima approssimazione, si può ammettere che questa distinzione fosse imposta da due ragioni convergenti: una partizione, se non spartizione, dei domini di indagine – tipicamente: arte, storia e filosofia da una parte e fisica, chimica e biologia dall'altra – e una distinzione dei metodi che permettono di entrare in contatto con questi domini, per cui, in particolare, il metodo sperimentale, o empirico, e quantitativo viene considerato come pertinente e caratterizzante solo rispetto al secondo dominio.
Naturalmente, non tutte le discipline si adattano a questa partizione rigida. Tipicamente, linguistica e matematica non sembrano riconducibili a pieno titolo né nell'uno né nell'altro ambito per motivi simili: sia la linguistica sia la matematica, infatti, si sottraggono a valutazioni quantitative di tipo fisico, ma d'altro canto sono certamente in grado di riconoscere regolarità sostanziali osservabili con il rigore esplicito che è tipico del metodo sperimentale. Linguistica e matematica, tuttavia, non sono state e non sono tuttora un motivo sufficiente per abbandonare questa partizione: evidentemente, la comodità pratica che deriva dall'organizzazione della cultura contemporanea in domini e metodi omogenei e diversi prevale sulle esigenze di chiarezza che sarebbero richieste da una visione epistemologica più sofisticata.
Uno degli altri effetti di questa separazione tra scientifico e umanistico, per niente affatto giustificato in termini razionali , è il fatto che inevitabilmente essa induce una competizione su quale delle due dimensioni sia adatta a caratterizzare tout court la cultura in senso lato: più esplicitamente, viene per lo più ammesso che siano gli studi di tipo umanistico ad avere questo ruolo privilegiato piuttosto che quelli di tipo scientifico. Per quanto possa essere chiaro che questa distinzione è non solo fragile ma di fatto ingiustificata, rimane tuttavia chiaro che viene ancora ampiamente accettata, sebbene talvolta in qualche modo nascosta a causa dell'inerzia della prassi o della scarsa vigilanza sui manifesti culturali. Un esempio interessante è dato dal testo della Costituzione italiana. All'articolo 9, primo comma, si legge che «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura (corsivo mio) la ricerca scientifica e tecnica». È evidente che a chi elaborò questo documento, che è da considerare comunque prezioso, visto che in molti documenti comparabili non ci sono riferimenti a questi ambiti, la contrapposizione tra il dominio scientifico e quello culturale doveva apparire non solo valido ma anche scontato: non fosse stato così non ci sarebbe nemmeno dovuta essere l'esigenza di rendere esplicita, non dico l'inclusione della scienza nella cultura, ma anche semplicemente la menzione della scienza, come invece testimonia quella congiunzione tra i due termini. D'altronde, il prestigio degli studi umanistici è talmente scontato che il termine utilizzato per indicare il culmine del percorso formativo universitario anche in ambito scientifico, sebbene sia di fatto ormai stato svuotato dal suo senso etimologico, è pur sempre ancora definito uniformemente "dottorato in filosofia" o "Ph.D." nell'acronimo latino diffuso nel mondo anglosassone.
Lo scenario è dunque chiaro: la partizione tra studi umanistici e scientifici permane valida; così come di fatto spesso rimane ancora valida l'idea che gli studi di tipo tecnico non siano sufficienti non solo a caratterizzare appieno la cultura contemporanea ma nemmeno a farne parte se non tramite una presa di posizione esplicita e cogente, come quella espressa dalla nostra Costituzione.

Conviene oggi mantenere la distinzione tra studi umanistici e scientifici? Qualunque sia la risposta, è difficile non ammettere che il problema più urgente sia la domanda preliminare che rende questa ammissibile: su quale base possiamo decidere la convenienza a mantenere tale distinzione? Ci sono ovviamente molte strade percorribili; certamente, una tra tutte è un riferimento alle motivazioni che sono all'origine della distinzione: vale a dire la coerenza tra oggetto di indagine e metodo. Naturalmente, se gli oggetti di indagine sono gli stessi per cui è nata e si è rivelata pertinente questa distinzione, sarebbe un esercizio poco utile trovare argomentazioni contrarie, ma mi pare che il mondo contemporaneo sia di fronte a una realtà completamente nuova e affrontabile con metodi inimmaginabili solo pochi decenni fa. Parlo degli studi sul cervello umano e su tutte le capacità che sono a esso riconducibili, inclusa quella definitoria dell'essere umano, il linguaggio, e, se vogliamo, di tutte quelle estensioni "linguistiche" che a esso si accompagnano necessariamente, vale a dire la matematica e la musica. Valgono due caveat: intanto, di queste capacità – del linguaggio in particolare – non ci si è accorti adesso, ma solo adesso siamo in grado di averne una caratterizzazione formale, matematica, esplicita e dettagliata, sia pure non completa; inoltre, non si tratta ovviamente di cogliere tutte le dimensioni che caratterizzano queste capacità, ma solo la struttura e i limiti espressivi di questi codici. Rimane infatti esclusa dall'indagine quella misteriosa capacità creativa del linguaggio, dove per "creativo" si intende il fatto che la struttura di un enunciato non è mai riducibile ad alcuna condizione esterna o comunque meccanica: è questa capacità che sta all'origine del dualismo cartesiano e che oggi più che mai spicca come «scandalo della natura» (si veda il mio Parlo dunque sono. Diciassette istantanee sul linguaggio, Milano, Adelphi, 2012): la natura della quale ignoriamo ora e forse ignoreremo per sempre, per utilizzare l'illuminante contrasto espresso da Emil du Bois-Reymond in The limits of our knowledge, in «Popular Science Monthly», 5 (May), 1874.
Perché il cervello e il linguaggio in particolare rendono di fatto la partizione tra studi scientifici e umanistici non solo e non tanto scomoda ma decisamente inutile e controproducente? Il motivo non si può cogliere in modo troppo semplice – e di questo non possiamo stupirei data la specificità e la complessità delle strutture del linguaggio – ma credo sia pur sempre possibile averne un'idea sufficientemente precisa con un esempio.
Uno dei motivi che costituiscono il nuovo scenario sta nell'invenzione di tecniche rivoluzionarie che permettono nuovi tipi di indagini sul cervello: oggi sono possibili esami in vivo, sia tramite tecniche di neuroimmagini sia tramite rilevazioni elettrofisiologiche (cfr. E. Kandel et al., Principles of Neural Science, New York, McGrawHill Medicai , 2012) impensabili solo cinquant'anni fa. In pratica, per la prima volta nella storia dell'umanità è possibile avere qualche traccia dei processi funzionali del cervello che non siano solo misurabili come riflessi comportamentali o come superficialissimi segnali di attivazione, come ad esempio la bilancia di Angelo Mosso (cfr. S. Sandrone et al., Weighing brain activity with the balance: Angelo Mosso's original manuscripts come to light, in «Brain», 137, 2, 2014). È questa rivoluzione tecnologica che mette in crisi la partizione tra studi umanistici e scientifici. Il punto centrale è che i tipi di stimoli che servono per studiare quest'organo con questi metodi non sono esclusivamente caratterizzabili in modo quantitativo, come è accaduto nella storia per lo studio di tutti gli altri organi . Un caso clamoroso è rappresentato dall'indagine sulla reazione del cervello alle strutture linguistiche e la scoperta delle cosiddette "lingue impossibili": la distinzione più importante tra strutture linguistiche, quella tra sequenze di parole che costituiscono una frase da altre sequenze, deve necessariamente passare attraverso la nozione di "(valore di) verità" cioè attraverso una nozione che non può che essere colta, formulata ed elaborata secondo metodi quantitativi e sperimentali, ma che utilizza metodi e nozioni propri dell'ambito filosofico e formale. In particolare, per le strutture frasali, l'analisi offerta da Aristotele nell'Organon, basata appunto su questa nozione filosofica, costituisce a tutt'oggi il sistema di riferimento per la teoria della struttura frasale: possiamo ben dire, dunque, che senza Aristotele la tecnologia, per quanto sofisticata, quando si tratta di linguaggio, rimane muta.
Se, come penso sia necessario ammettere, è l'oggetto a imporre il metodo di analisi, allora si può ben dire che è il cervello umano in quanto oggetto di indagine a imporre l'abbandono della distinzione tra studi scientifici e umanistici: l'alternativa è semplicemente che il nucleo delle caratteristiche definitorie della mente umana rimanga escluso dall'indagine scientifica, un'esclusione che non sarebbe né accettabile né utile. Va naturalmente aggiunto che il nuovo metodo non sarà verosimilmente una riduzione di un ambito all'altro: come la storia della scienza insegna, le riduzioni sono solo piccoli passi che separano grandi cambiamenti dove a cambiare sono tutti gli attori, come ad esempio accadde alla fisica e alla chimica ai primi del Novecento (cfr. A. Salam, The Unification of Fundamental Forces, Cambridge, Cambridge University Press, 1990; N. Chomsky, Il mistero del linguaggio, Milano, Raffaello Cortina, 2018).
Le neuroscienze contemporanee ci sfidano dunque a ridisegnare la forma del sapere e ad abbandonare steccati e dogmi in modo da corrispondere meglio alle nuove sfide, analogamente a quanto accadde in epoca umanistica e rinascimentale, quando la nascita di questa partizione emancipò le scienze sperimentali dagli ingombri di certa teologia e certa filosofia. Ovviamente, un mondo dove l'interesse per ciò che è umano e ciò che è fisico non conosca steccati ideologici che impongano metodi e limiti, ma che anzi tentino di conoscere la realtà in modo unitario, è difficile immaginarlo e non è detto che si riesca a costruirlo. Vale però la pena notare che ci fu certamente un periodo della storia della cultura occidentale nel quale non esistevano partizioni radicali: mi riferisco al mondo classico, in cui il poema di Lucrezio basterebbe da solo a mostrare come le alternative sono possibili, visto che lo sono state. Ovviamente non avrebbe alcun senso tornare indietro nel tempo: nuovo è lo scenario e incommensurabili sono le differenze tra noi e quel mondo, ma, se una delle sfide più cogenti di oggi è quella di adattare la nostra cultura, in senso globale, alla comprensione del funzionamento del cervello e con questo rispondere a domande centrali come quelle sull'origine della nostra specie, l'occasione dello studio del mondo classico con la sua visione unitaria potrebbe rivelarsi davvero utile e offrire spunti per modelli alternativi sui quali plasmare quello da costruire. Forse, come è già stato per il primo, è proprio dal mondo classico che potremmo attingere ispirazioni per il prossimo auspicato Rinascimento.

A. Moro, “Umanistico” e “scientifico” ai tempi della neuroscienza, «Vita e Pensiero», 103 (2020), n. 2, pp. 95-100. Si ringrazia Vita e Pensiero per il permesso di riproduzione del testo nel progetto DISF-Educational.

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