Apriamo la Sacra Scrittura: Coscienza

   

Salmo 51 (3-21)

   

La vicenda del re David è ben nota. Invaghitosi di Betsabea, moglie di Uria, e consumato con lei un adulterio che conduce al concepimento di un figlio, il re Davide fa collocare Uria in un’azione di guerra senza scampo, decretandone così la morte. I primi versetti del Salmo lo contestualizzano così: «Salmo di Davide. Quando il profeta Natan andò da lui, che era andato con Betsabea» (Sal 51,1-2). La coscienza di Davide, prima accecata dalla passione, si apre adesso al pentimento dopo le parole di rimprovero del profeta Natan. Egli riconosce il suo peccato di fronte a Dio e di fronte agli uomini. La descrizione dello stato d’animo che emerge in questi versi va al di là dell’episodio da cui pare trarre origine, per esprimere invece una situazione più generale, quella di un uomo che, in dialogo con la propria coscienza, avverte il peso di una cattiva condotta e ne chiede perdono. Il riconoscimento della propria colpa va in questo Salmo di pari passo con la fiducia nel perdono divino. Incessante la richiesta di purificazione, ma anche la lode alla misericordia divina. Di qui il nome con cui questo Salmo è conosciuto dalla cristianità, Miserere, dal verbo latino che traduce le sue prime parole: «Pietà di me, o Dio». Il Salmo riconosce la condizione di peccato di tutti gli uomini, la loro indegnità di fronte a Dio, tre volte Santo. Tale distanza non genera disperazione, ma sì consapevolezza: quello che di fronte a Dio l’atteggiamento più coerente è l’umiltà e la richiesta di grazia.

   

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;

nella tua grande misericordia

cancella la mia iniquità.

Lavami tutto dalla mia colpa,

dal mio peccato rendimi puro.

Sì, le mie iniquità io le riconosco,

il mio peccato mi sta sempre dinanzi.

Contro di te, contro te solo ho peccato,

quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto:

così sei giusto nella tua sentenza,

sei retto nel tuo giudizio.

Ecco, nella colpa io sono nato,

nel peccato mi ha concepito mia madre. 

Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo,

nel segreto del cuore mi insegni la sapienza.

Aspergimi con rami d'issòpo e sarò puro;

lavami e sarò più bianco della neve.

Fammi sentire gioia e letizia:

esulteranno le ossa che hai spezzato.

Distogli lo sguardo dai miei peccati,

cancella tutte le mie colpe.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,

rinnova in me uno spirito saldo.

Non scacciarmi dalla tua presenza

e non privarmi del tuo santo spirito.

Rendimi la gioia della tua salvezza,

sostienimi con uno spirito generoso.

Insegnerò ai ribelli le tue vie

e i peccatori a te ritorneranno.

Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza:

la mia lingua esalterà la tua giustizia. 

Signore, apri le mie labbra

e la mia bocca proclami la tua lode.

Tu non gradisci il sacrificio;

se offro olocausti, tu non li accetti.

Uno spirito contrito è sacrificio a Dio;

un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi.

Nella tua bontà fa' grazia a Sion,

ricostruisci le mura di Gerusalemme.

Allora gradirai i sacrifici legittimi,

l'olocausto e l'intera oblazione;

allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.

 


   

Libro del Siracide (37,12-18.26-28)

    

«La coscienza di un uomo talvolta suole avvertire meglio di sette sentinelle…». Con questa immagine il libro del Siracide indica il giudizio della coscienza che ogni essere umano è chiamato ad ascoltare. Il contesto e i toni del libro del Siracide, come i libri dei Proverbi e della Sapienza, sono quelli di consigli di vita rivolti ai giovani, trattandosi di libri che venivano impiegati da Israele per ragioni di formazione e catechesi nei riguardi delle nuove generazioni. Il lettore viene invitato ad “attenersi al consiglio proveniente dal cuore” e ad invocare l’Altissimo perché guidi la propria via secondo verità. Il dialogo con la coscienza genera un esame, di coscienza appunto: «figlio, per tutta la vita esamina te stesso, vedi quello che ti nuoce e non concedertelo», afferma il salmista. Il bene e il male non sono presentati come leggi imposte dall’esterno, leggi umane alle quali conformarsi secondo i voleri di chi governa le sorti della società; sono invece giudizi di coscienza provenienti dall’interno del cuore umano, riflesso in ultima analisi del proprio essere immagine e somiglianza di Dio. Il bene e il male, e il giudizio che la coscienza ha di essi, sono qualcosa di originario, che trascende le leggi umane: sono qualcosa di personale ma non abbandonato al soggettivismo, perché giudizi capaci di accomunare tutti gli uomini.

    

Frequenta invece un uomo giusto,

di cui sai che osserva i comandamenti

e ha un animo simile al tuo,

perché se tu cadi, egli saprà compatirti.

Attieniti al consiglio del tuo cuore,

perché nessuno ti è più fedele.

Infatti la coscienza di un uomo talvolta suole avvertire

meglio di sette sentinelle collocate in alto per spiare.

Per tutte queste cose invoca l'Altissimo,

perché guidi la tua via secondo verità.

 

 Principio di ogni opera è la parola,

prima di ogni azione c'è la riflessione.

Radice di ogni mutamento è il cuore,

da cui derivano quattro scelte:

bene e male, vita e morte,

ma su tutto domina sempre la lingua.

[…]

Il saggio ottiene fiducia tra il suo popolo,

e il suo nome vivrà per sempre.

 

 Figlio, per tutta la tua vita esamina te stesso,

vedi quello che ti nuoce e non concedertelo.

Difatti non tutto conviene a tutti

e non tutti approvano ogni cosa.

       


    

Vangelo di Giovanni (8,1-11)

    

Fra gli episodi riportati dal vangelo di Giovanni, l’incontro di Gesù di Nazaret con una donna adultera, portatagli dinanzi per essere lapidata secondo la legge di Mosè, è probabilmente uno dei più drammatici. La “coscienza popolare” non aveva dubbi: questa donna, colta in flagrante adulterio, andava lapidata, perché così lo imponeva la legge che Israele aveva ricevuto da Mosè. Gesù di Nazaret è posto di fronte ad una scelta apparentemente obbligata: lapidare insieme agli altri ebrei questa donna, contraddicendo la sua immagine mite e benevola con tutti; oppure negare che l’atteggiamento della donna fosse peccaminoso, cadendo in una nuova contraddizione, quella di non poter più riconoscere ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, non distinguendo più il bene dal male. È sulla “coscienza popolare” che Gesù riesce invece a fare luce, chiedendo a chi si ritenesse senza peccato di scagliare la prima pietra. La coscienza di ciascun ebreo convenuto per lapidarla giudica adesso bene: siamo tutti peccatori: «quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani». Ed infine è la coscienza della donna ad essere chiarita dalle parole di Gesù: «donna neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». Il bene continua ad essere chiamato bene; e il male, male. Ciò che di fronte a Dio e di fronte agli uomini non era giusto, tradire il proprio consorte, continua ad esserlo, ma è stato separato il peccato dal peccatore. Il primo va riconosciuto, senza sconti, come palese dalla raccomandazione “va’ e non peccare più”; il secondo va compreso e perdonato, come espresso dalle parole “nemmeno io ti condanno”. Per quanto possa sembrare semplice, saper separare il peccato dal peccatore, dichiarando il primo e perdonando il secondo, è operazione quasi mai seguita nella vita pubblica, sociale, o in quella privata. Rappresenta però uno degli insegnamenti fondamentali di Gesù di Nazaret circa il rapporto fra giustizia e coscienza.

   

Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: "Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio.  Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?". Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra.  Tuttavia, poiché insistevano nell'interrogarlo, si alzò e disse loro: "Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei". E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?". Ed ella rispose: "Nessuno, Signore". E Gesù disse: "Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più".

 


     

Vangelo di Matteo (21,28-32)

    

Nota con il titolo “Parabola dei due figli”, questo breve apologo di Gesù di Nazaret mette in luce la dimensione interiore dell’obbedienza e dell’osservanza della legge. Tale dimensione è oggetto di molteplici passi della sua predicazione, primo fra tutti, il cosiddetto “Sermone della montagna” (cf. Mat capp. 5-7. A nulla serve l’osservanza esterna se questa non è accompagnata dalla sincerità del cuore. Si può anche dichiarare “non ne ho voglia”, come il primo figlio della parabola, ma compiere ciò che in giustizia andava fatto – “poi si pentì e vi andò” – quando finalmente la coscienza parla. È sul realismo dei fatti, non sulle sole intenzioni che la morale evangelica intende poggiarsi. Saranno le opere, infatti, quelle che parleranno alla fine dei tempi, secondo i celebri “Discorsi del giudizio finale” sempre riportatici dall’evangelista Matteo (cf. Mt cap. 25). Chi non ascolta la coscienza potrebbe ritenersi giusto solo in base ad un’appartenenza formale, mentre chi l’ascolta potrà venire perdonato e giustificato di fronte a Dio, anche se non riconosciuto appartenente alla classe dei “giusti”. È questo il senso del riferimento finale di Gesù ai pubblicani e alle prostitute, uomini e donne ritenuti da tutti peccatori e peccatrici, ma sempre in grado di ravvedersi e di pentirsi, e quindi capaci di entrare nel Regno.

    

"Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: "Figlio, oggi va' a lavorare nella vigna". Ed egli rispose: "Non ne ho voglia". Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: "Sì, signore". Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?". Risposero: "Il primo". E Gesù disse loro: "In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.  Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli.

 


    

Lettera ai Romani (2,12-20. 25-29)

    

Saper leggere la propria coscienza e agire di conseguenza non è solo frutto della conoscenza di una legge esterna, positiva, cioè formulata dagli uomini. Anche quanto attiene al rapporto con Dio non può riguardare solo prescrizioni dichiarate e rese note. Ogni essere umano, greco o ebreo, credente o non credente, pagano o cristiano, possiede la stessa legge incisa nella propria coscienza. Il popolo ebreo l’ha codificata in comandamenti scritti e opportunamente formulati, che Paolo chiama in questa pagina della Lettera ai Romani la Legge. Gli altri popoli sono “legge a sé stessi” perché il comandamento “fa’ il bene ed evita il male” lo riconoscono inciso nel proprio cuore. Chi ha ricevuto la legge dall’esterno, deve viverla anche all’interno, cioè nella sincerità del cuore. I Giudei, che hanno la Legge, devono amare Dio anche con il cuore. I pagani, che non hanno la Legge, devono saperla ugualmente riconoscere, non scritta su tavole di pietra, ma “scritta sui loro cuori”. Questo brano della Lettera ai Romani rappresenta una delle pagine più esplicite del Nuovo Testamento circa l’esistenza di una legge morale naturale presente nella coscienza di tutti gli uomini. È a questa legge morale naturale, secondo il cristianesimo, che le leggi positive devono ispirarsi ed essa che devono rispettare. In questo contesto biblico nasce, in Occidente, la nozione di “diritto naturale”, affermando la sua trascendenza rispetto alle leggi formulate dal “diritto positivo”, in base a criteri di maggioranza, ma anche di desiderio, di convenienza, o di opportunità.

   

Tutti quelli che hanno peccato senza la Legge, senza la Legge periranno; quelli invece che hanno peccato sotto la Legge, con la Legge saranno giudicati. Infatti, non quelli che ascoltano la Legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la Legge saranno giustificati.  Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la Legge, essi, pur non avendo Legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono. Così avverrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini, secondo il mio Vangelo, per mezzo di Cristo Gesù. Ma se tu ti chiami Giudeo e ti riposi sicuro sulla Legge e metti il tuo vanto in Dio, ne conosci la volontà e, istruito dalla Legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di essere guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché nella Legge possiedi l'espressione della conoscenza e della verità... […] Certo, la circoncisione è utile se osservi la Legge; ma, se trasgredisci la Legge, con la tua circoncisione sei un non circonciso. Se dunque chi non è circonciso osserva le prescrizioni della Legge, la sua incirconcisione non sarà forse considerata come circoncisione? E così, chi non è circonciso fisicamente, ma osserva la Legge, giudicherà te che, nonostante la lettera della Legge e la circoncisione, sei trasgressore della Legge. Giudeo, infatti, non è chi appare tale all'esterno, e la circoncisione non è quella visibile nella carne; ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera; la sua lode non viene dagli uomini, ma da Dio.

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