Apriamo la Sacra Scrittura: Fragilità

 

Libro di Giobbe (3,1-13.20-26)

   

Fra i libri della sacra Scrittura, il libro di Giobbe è quello che viene più spesso associato – e giustamente – alla riflessione sulla fragilità e la sofferenza. Uomo ricco e agiato, fortunato nella vita, Giobbe viene provato da Dio con enormi dolori che lo prostrano: morte dei figli, perdita di tutti gli averi, solitudine e incomprensione. La vicenda di Giobbe, uomo che non appartiene al popolo ebreo, ma adora l’unico Dio creatore, fa emergere in tutti la domanda sul “perché” del dolore, domanda che Giobbe indirizza verso Dio. Egli reagisce alle sfortunate vicende della vita fra alti e bassi, dovendo anche ascoltare i discorsi poco opportuni dei suoi amici i quali, giunti per consolarlo, gli rinfacciano in realtà che quanto da lui patito è dovuto ad un “giusto giudizio” di Dio cui sottomettersi, tesi che il testo biblico negherà, con lo sviluppo dell’episodio. Giobbe si mostrerà fedele a Dio, fidandosi di Lui, nonostante tutto. Giobbe viene invitato da Dio a guardare la natura e a considerare la Provvidenza del Creatore su tutte le cose, per dedurre che Dio Creatore possiede dei disegni di salvezza anche nei suoi riguardi, sebbene al momento incomprensibili. La pagina che qui proponiamo presenta lo sfogo iniziale di Giobbe, immediatamente dopo aver ricevuto le dolorose notizie della morte dei figli e della perdita di tutti i suoi averi. Le parole del protagonista, affranto, fanno cogliere tutta la drammaticità della sofferenza umana, che sembra in lui aver raggiunto il colmo. Sono parole che ogni sofferente gravemente provato ha pronunciato o avrebbe potuto pronunciare al suo posto. Il lamento di Giobbe incarna il lamento di ogni dolore umano, la sua storia può insegnare ad ogni storia di uomini e donne che incontrano il mistero della fragilità e della sofferenza.

   

Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno. Prese a dire:
"Perisca il giorno in cui nacqui
e la notte in cui si disse: "È stato concepito un maschio!".
Quel giorno divenga tenebra,
non se ne curi Dio dall'alto,
né brilli mai su di esso la luce.
Lo rivendichino la tenebra e l'ombra della morte,
gli si stenda sopra una nube
e lo renda spaventoso l'oscurarsi del giorno!
Quella notte se la prenda il buio,
non si aggiunga ai giorni dell'anno,
non entri nel conto dei mesi.
Ecco, quella notte sia sterile,
e non entri giubilo in essa.
La maledicano quelli che imprecano il giorno,
che sono pronti a evocare Leviatàn.
Si oscurino le stelle della sua alba,
aspetti la luce e non venga
né veda le palpebre dell'aurora,
poiché non mi chiuse il varco del grembo materno,
e non nascose l'affanno agli occhi miei!
Perché non sono morto fin dal seno di mia madre
e non spirai appena uscito dal grembo?
Perché due ginocchia mi hanno accolto,
e due mammelle mi allattarono?
Così, ora giacerei e avrei pace,
dormirei e troverei riposo

[…]

Perché dare la luce a un infelice
e la vita a chi ha amarezza nel cuore,
a quelli che aspettano la morte e non viene,
che la cercano più di un tesoro,
che godono fino a esultare
e gioiscono quando trovano una tomba,
a un uomo, la cui via è nascosta
e che Dio ha sbarrato da ogni parte?
Perché al posto del pane viene la mia sofferenza
e si riversa come acqua il mio grido,
perché ciò che temevo mi è sopraggiunto,
quello che mi spaventava è venuto su di me.
Non ho tranquillità, non ho requie,
non ho riposo ed è venuto il tormento!".

    


   

Salmo 90 (2-17)

      

In questo salmo, di cui riportiamo il testo integrale, l’autore medita sulla debolezza e sulla fragilità umana. La riflessione del salmista si trasforma in preghiera. Egli si rivolge a Dio, giudicando che la fragilità umana dipenda, in ultima analisi, dalla Sue disposizioni, comunque finalizzate a piani di salvezza. Ciò che fa soffrire l’essere umano non è solo il limite e la finitezza, ma, misteriosamente, anche il peccato e le sue conseguenze. L’immagine di Dio, antropomorfa, è introdotta come causa delle vicende e degli accadimenti. L’ira di Dio è associata, in modo retorico, all’origine degli stravolgimenti che causano nell’uomo sconcerto e sofferenza. In molte pagine della Scrittura è Dio stesso che opera in tutto e attraverso ogni cosa, a Lui viene attribuita la causa di tutto ciò che accade. In una prospettiva teologica che vada al di là della letteralità del testo biblico, potremmo dire che nulla accade che Dio non permetta, non conosca, non possa inquadrare nei suoi disegni di bontà. È infatti a questa bontà che il salmista, in chiusura, si appella, con atteggiamento confidente e filiale.

   

Prima che nascessero i monti
e la terra e il mondo fossero generati,
da sempre e per sempre tu sei, o Dio.
Tu fai ritornare l'uomo in polvere,
quando dici: "Ritornate, figli dell'uomo".
Mille anni, ai tuoi occhi,
sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte.
Tu li sommergi:
sono come un sogno al mattino,
come l'erba che germoglia;
al mattino fiorisce e germoglia,
alla sera è falciata e secca.
Sì, siamo distrutti dalla tua ira,
atterriti dal tuo furore!
Davanti a te poni le nostre colpe,
i nostri segreti alla luce del tuo volto.
Tutti i nostri giorni svaniscono per la tua collera,
consumiamo i nostri anni come un soffio.
Gli anni della nostra vita sono settanta,
ottanta per i più robusti,
e il loro agitarsi è fatica e delusione;
passano presto e noi voliamo via.
Chi conosce l'impeto della tua ira
e, nel timore di te, la tua collera?
Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi!
Saziaci al mattino con il tuo amore:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti,
per gli anni in cui abbiamo visto il male.
Si manifesti ai tuoi servi la tua opera
e il tuo splendore ai loro figli.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l'opera delle nostre mani,
l'opera delle nostre mani rendi salda.

    


   

Salmo 22 (2-32)

   

Fra i Salmi la cui lettura evoca la passione di Gesù Cristo, il Salmo 22 è senza dubbio il più noto e, per certi versi, il più sorprendente. Scritto secoli prima degli eventi della morte e risurrezione di Gesù, non pochi dei suoi versetti sembrano alludere a ciò che accadrà sulla croce, il venerdi prima della Pasqua. È probabile che Gesù stesso ne abbia citato alcuni versi, incarnandone i sentimenti; lo testimoniano i vangeli di Matteo e di Marco, mettendo sulla bocca di Gesù le parole iniziali di questo testo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Lamento e preghiera di un innocente perseguitato, nella sua prima parte il Salmo espone le sofferenze patite (vv. 2-22), per poi elogiare Colui da cui riceve liberazione (vv. 23-27) e terminare infine con l’annuncio di una salvezza universale, che si estende a tutte le genti (vv. 28-32). Assumendo la natura umana, Il Verbo fatto carne ne assume tutta la vulnerabilità, le ferite (lat. vulnera) e le fa proprie. La fragilità e la mortalità del Cristo sono, sulla croce, quelle di ogni essere umano sofferente. Sebbene molti salmi parlino del giusto sofferente ed alcuni di essi contengano versetti che sembrino alludere alla passione (cf. i Salmi 69, 31, 34), il Salmo 22 presenta numerosi riferimenti a quanto i vangeli descriveranno avvenire per mano dei romani e degli altri persecutori attorno alla croce di Gesù: oltraggi, divisione delle vesti e sorte gettata sulla tunica, beffe di coloro che passano, commenti dei presenti sulla possibilità che Dio scenda a liberarlo, la sete patita, la trafittura delle mani e dei piedi, fino al grido con cui il salmo inizia, testimonianza di un sentimento di abbandono e solitudine che solo la parte finale del testo volgerà in speranza e in gioia per la salvezza raggiunta ed estesa a tutti.

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Lontane dalla mia salvezza le parole del mio grido!
Mio Dio, grido di giorno e non rispondi;
di notte, e non c'è tregua per me.
Eppure tu sei il Santo,
tu siedi in trono fra le lodi d'Israele.
In te confidarono i nostri padri,
confidarono e tu li liberasti;
a te gridarono e furono salvati,
in te confidarono e non rimasero delusi.
Ma io sono un verme e non un uomo,
rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente.
Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono le labbra, scuotono il capo:
"Si rivolga al Signore; lui lo liberi,
lo porti in salvo, se davvero lo ama!".
Sei proprio tu che mi hai tratto dal grembo,
mi hai affidato al seno di mia madre.
Al mio nascere, a te fui consegnato;
dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio.
Non stare lontano da me,
perché l'angoscia è vicina e non c'è chi mi aiuti.
Mi circondano tori numerosi,
mi accerchiano grossi tori di Basan.
Spalancano contro di me le loro fauci:
un leone che sbrana e ruggisce.
Io sono come acqua versata,
sono slogate tutte le mie ossa.
Il mio cuore è come cera,
si scioglie in mezzo alle mie viscere.
Arido come un coccio è il mio vigore,
la mia lingua si è incollata al palato,
mi deponi su polvere di morte.
Un branco di cani mi circonda,
mi accerchia una banda di malfattori;
hanno scavato le mie mani e i miei piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.
Essi stanno a guardare e mi osservano:
si dividono le mie vesti,
sulla mia tunica gettano la sorte.
Ma tu, Signore, non stare lontano,
mia forza, vieni presto in mio aiuto.
Libera dalla spada la mia vita,
dalle zampe del cane l'unico mio bene.
Salvami dalle fauci del leone
e dalle corna dei bufali.
Tu mi hai risposto!
Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all'assemblea.
Lodate il Signore, voi suoi fedeli,
gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe,
lo tema tutta la discendenza d'Israele;
perché egli non ha disprezzato
né disdegnato l'afflizione del povero,
il proprio volto non gli ha nascosto
ma ha ascoltato il suo grido di aiuto.
Da te la mia lode nella grande assemblea;
scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli.
I poveri mangeranno e saranno saziati,
loderanno il Signore quanti lo cercano;
il vostro cuore viva per sempre!
Ricorderanno e torneranno al Signore
tutti i confini della terra;
davanti a te si prostreranno 
tutte le famiglie dei popoli.
Perché del Signore è il regno:
è lui che domina sui popoli!
A lui solo si prostreranno
quanti dormono sotto terra,
davanti a lui si curveranno
quanti discendono nella polvere;
ma io vivrò per lui,
lo servirà la mia discendenza.
Si parlerà del Signore alla generazione che viene;
annunceranno la sua giustizia;
al popolo che nascerà diranno:
"Ecco l'opera del Signore!".

 


   

Vangelo di Luca (10,25-37)

   

Pagina fra le più note della predicazione di Gesù di Nazaret, la parabola del “Buon Samaritano” esorta ogni essere umano a farsi prossimo all’altro alleviando le sue sofferenze. Qui, la vulnerabilità umana non emerge a causa di eventi naturali o forze incontrollate che mettono in luce i limiti e la debolezza della nostra condizione. Causa della sofferenza sono adesso la violenza dell’altro, la sopraffazione, l’odio e l’egoismo. Farsi prossimo diviene allora il modo di “farsi carico” della fragilità dell’altro con la cura e l’amore disinteressato, immedesimandosi nella situazione dello sfortunato, considerato a pieno titolo un fratello. I protagonisti e il contesto dell’episodio sono istruttivi per comprendere quali devono essere le caratteristiche di questo “farsi carico”. Fra giudei e samaritani non correva buon sangue: divisi da culto diverso e storie diverse, si consideravano nemici. Chi, fra i giudei, avrebbe potuto manifestare misericordia per il malcapitato, sacerdoti e membri della tribù di Levi, passa oltre, non si cura del ferito. Lo fa chi invece sarebbe stato considerato da tutti un estraneo, un nemico. L’immedesimarsi nella condizione dell’altro non si limita alla cura immediata, ma si preoccupa di un affido che giunga fino alla guarigione completa, pagando di persona. La fragilità e la vulnerabilità, riconosciute condizioni comuni della persona umana, si trasformano in occasioni di misericordia e di amore.

Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: "Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?". Gesù gli disse: "Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?". Costui rispose: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso". Gli disse: "Hai risposto bene; fa' questo e vivrai".
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: "E chi è mio prossimo?". Gesù riprese: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: "Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno". Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?". Quello rispose: "Chi ha avuto compassione di lui". Gesù gli disse: "Va' e anche tu fa' così".

 

 


    

Vangelo di Giovanni (10,27-30)

   

Brevi, ma significative, parole di Gesù di Nazaret. Esse rivelano la condizione umana di fronte a Dio. Nessuna pecora del buon Pastore andrà mai perduta, nessun essere umano verrà mai abbandonato o cadrà nell’oblio. Ogni vita umana è sempre presente al Padre, qualsiasi cosa accada. Nessuno potrà “rapire” le pecore dalle mani del Figlio, né strapparle dalla sua cura: nessuna andrà perduta. Garanzia di questa sicurezza sono il sacrificio del Figlio, che ha dato la vita per le sue pecore, e la divinità stessa del Figlio, uguale al Padre. Per quanto inevitabile la fragilità umana possa sembrare, l’uomo non cade nel vuoto. Chi si riconosce come figlio nel Figlio e crede all’amore del Padre che ha inviato il Figlio nel mondo, non avrà nulla da temere, sembra rassicurare Gesù. L’esperienza della finitezza, della fugacità e della morte trovano qui una risposta nella fede. Non è questa la condizione umana definitiva: l’amore creatore di Dio è più forte e troverà i modi perché nessuno che crede in Lui si perda.

Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola".

 


    

Prima lettera ai Corinzi (15,35-38.42-44.51-58)

    

Questo testo paolino è tratto dalle pagine della Prima Lettera ai Corinzi, in cui l’Apostolo trasmette ed espone la fede nella Risurrezione di Cristo, avvenuta solo 25 anni prima, e il suo ruolo di fondamento per la vita cristiana. La risurrezione di Gesù è causa efficace della nostra risurrezione finale. San Paolo è perfettamente cosciente della resistenza e delle perplessità che la dottrina da lui trasmessa, creduta dai cristiani, può suscitare. Ciascuno osserva la tragica esperienza della corruzione dei corpi, dopo la morte, segno eloquente della fragilità umana, la cui condizione è quella di polvere… Tale condizione, però, è paragonata a quella del seme che, gettato in terra, marcisce per dare origine ad una nuova pianta. Immagine intuitiva che ha il compito di porre chi ascolta di fronte alla capacità che Dio creatore ha di suscitare la vita laddove dove la vita sembra spenta. La pagina presenta, infine, la vittoria definitiva di Cristo sulla morte. Il nostro corpo, corruttibile, sarà rivestito di incorruttibilità e immortalità. La debolezza e la fragilità umane saranno trasfigurate in un mondo nuovo e in una terra nuova. È questa la fede che l’Apostolo trasmette con vigore, ricevuta dai testimoni oculari della risurrezione di Gesù di Nazaret.

Ma qualcuno dirà: "Come risorgono i morti? Con quale corpo verranno?". Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore. Quanto a ciò che semini, non semini il corpo che nascerà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere. E Dio gli dà un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo. 

[…]

Così anche la risurrezione dei morti: è seminato nella corruzione, risorge nell'incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale.
Se c'è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale.

[…]

Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba. Essa infatti suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati. È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta d'incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d'immortalità. Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d'incorruttibilità e questo corpo mortale d'immortalità, si compirà la parola della Scrittura:

La morte è stata inghiottita nella vittoria.
Dov'è, o morte, la tua vittoria?
Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?
 

Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo! Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.

 

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