Apriamo la Sacra Scrittura: Gesù di Nazaret

   

Libro di Isaia (53,1-12)

   

A partire dal capitolo 42 del libro di Isaia, il profeta propone, intervallandoli con altre narrazioni ed esortazioni, 4 Canti del servo di Jahvè. Con questo nome, la tradizione religiosa di Israele indicava un personaggio inviato da Dio, un Messia, ma a volte anche l’intero popolo in quanto servo del Signore. Il profilo del “Servo di Javhè” tracciato da Isaia è però assai singolare. Si parla di un uomo mite, pieno dello Spirito di Dio, che annuncerà liberazione, perdono, salvezza. Il quarto ed ultimo canto, che qui riportiamo, svela un carattere inedito di questo Servo, mostrandolo adesso come servo sofferente: è qualcuno che soffrirà e sarà rigettato da tutti, sarà percosso e umiliato, sfigurato e trafitto. Il confronto di questi versetti con le narrazioni dei vangeli sulla passione e morte di Gesù di Nazaret, avvenuta circa 7 secoli dopo la redazione di questa pagina biblica, rivela dei paralleli sorprendenti. Isaia profetizza il valore vicario del sacrificio di Cristo, cioè il perdono di Dio verso tutti meritato con le sue sofferenze, i maltrattamenti della sua passione, la sua innocenza, la sua morte in mezzo agli empi, il suo sepolcro offerto da un uomo ricco. Ma il testo intravede anche il lieto fine della storia: «vedrà una discendenza, vivrà a lungo… dopo il suo intimo tormento vedrà la luce», che i cristiani hanno associato alla risurrezione di Gesù. La forte somiglianza fra la storia del servo sofferente di Jahvè e la passione e morte di Gesù di Nazaret hanno suggerito alla tradizione cristiana di chiamare queste pagine bibliche di Isaia il “quinto vangelo”.

         

Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?
A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
È cresciuto come un virgulto davanti a lui
e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi,
non splendore per poterci piacere.
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia;
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori;
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per le nostre colpe,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l'iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
chi si affligge per la sua posterità?
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza
né vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà le loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha spogliato se stesso fino alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i colpevoli.

  


     

Prima lettera di Giovanni (1,1-4)

     

La Prima Lettera dell’apostolo Giovanni è anche chiamata la “lettera dell’amore”, a motivo della esplicita rivelazione di Dio come amore (cfr. 1 Gv 4,8). L’inizio della Lettera, che può ricordare per alcuni versi l’inizio del prologo del vangelo di Giovanni, «In principio era il Verbo» (cfr. Gv 1,1), esprime con grande vivacità l’esperienza viva che l’apostolo adolescente ebbe della persona di Gesù. Giovanni lo riconosce come vero uomo, disponibile all’esperienza umana di chi gli stava accanto – «ciò che abbiamo veduto con i nostri occhi… ciò che le nostre mani hanno toccato…» –, ma anche come vero Dio, il “Verbo della vita”. Gesù è la vita stessa, quella che è presso il Padre, da sempre, da tutta l’eternità, e che adesso si è resa accessibile, presente nel mondo. L’Apostolo esprime la gioia di sapere che il cristiano è chiamato a partecipare alla comunione che lega il Padre e il Figlio, prendere parte alla sua famiglia, nell’amore dello Spirito Santo, di cui Giovanni parlerà nei capitoli successivi. Di questa lettera sant’Agostino offrirà uno dei commenti più noti e apprezzati da tutta la cristianità.

        

Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita - la vita infatti si manifestò, noi l'abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -,  quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena.

   


   

Vangelo di Giovanni (7,25-53)

   

Il Vangelo di Giovanni offre spesso dei lunghi discorsi, vere e proprie dispute, che Gesù di Nazaret tiene con i suo interlocutori giudei, in particolare i colti rappresentanti del gruppo dei farisei. Sono dispute sull’identità di Gesù. Da una parte, egli parla loro della sua origine dal Padre, Figlio da Lui inviato e venuto nel mondo, facendosi così uguale a Dio; dall’altra, i farisei non accettano questa rivelazione perché ritenuta assurda, anzi blasfema. Tutti attendevano il Messia, l’Unto del Signore, ma non riconoscono di averlo proprio davanti a loro. È difficile ammetterlo. Gesù, nato a Betlemme in Giudea, è conosciuto però come galileo, perché proveniente da Nazaret in Galilea, dove si era stabilito con sua madre e Giuseppe il falegname, e questo complica le cose. Si tratta di un personaggio che esercita un fascino inconsueto, compie segni, parla come “uno che viene da un altro mondo”. Le guardie del tempio, un corpo di sicurezza comandato dai sacerdoti, vengono inviate per arrestarlo, ma non se la sentono. Nessuno ha parlato mai come parla quest’uomo. E tornano a mani vuote. Gli scambi di battute fra i personaggi e i vari commenti di coloro che intervengono nel dibattito, conferiscono a questo brano del vangelo di Giovanni un realismo particolare. È uno spaccato di ciò che accadeva attorno a quest’uomo negli anni della sua vita pubblica, una testimonianza dell’interrogativo che egli suscitava circa la sua vera identità. Allora come adesso, Gesù di Nazaret chiede di prendere posizione di fronte a lui: chi sarà quest’uomo che si fa come Dio?

   

Intanto alcuni abitanti di Gerusalemme dicevano: "Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo di dov'è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia". Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: "Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato". 
Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora. Molti della folla invece credettero in lui, e dicevano: "Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?".
I farisei udirono che la gente andava dicendo sottovoce queste cose di lui. Perciò i capi dei sacerdoti e i farisei mandarono delle guardie per arrestarlo. Gesù disse: "Ancora per poco tempo sono con voi; poi vado da colui che mi ha mandato. Voi mi cercherete e non mi troverete; e dove sono io, voi non potete venire". Dissero dunque tra loro i Giudei: "Dove sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo? Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci? Che discorso è quello che ha fatto: "Voi mi cercherete e non mi troverete", e: "Dove sono io, voi non potete venire"?".
Nell'ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: "Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva". Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato.
All'udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: "Costui è davvero il profeta!". Altri dicevano: "Costui è il Cristo!". Altri invece dicevano: "Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice la Scrittura: Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo?". E tra la gente nacque un dissenso riguardo a lui. Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno mise le mani su di lui. 
Le guardie tornarono quindi dai capi dei sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: "Perché non lo avete condotto qui?". Risposero le guardie: "Mai un uomo ha parlato così!". Ma i farisei replicarono loro: "Vi siete lasciati ingannare anche voi? Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!". Allora Nicodèmo, che era andato precedentemente da Gesù, ed era uno di loro, disse: "La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?". Gli risposero: "Sei forse anche tu della Galilea? Studia, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!". E ciascuno tornò a casa sua.

    


    

Vangelo di Matteo (16,13-21)

    

La domanda sull’identità di Gesù attraversa tutti i vangeli, non solo quello di Giovanni. Matteo, Marco e Luca riportano, con versioni diverse, un colloquio fra Gesù e i suoi discepoli che ha come oggetto proprio il giudizio delle folle, ma anche di chi lo conosceva e frequentava da più tempo, su “chi sia” Gesù. L’evangelista Matteo lo racconta con maggiori particolari: «La gente chi dice che io sia?... Voi chi dite che io sia?». Molte le voci, i pareri e giudizi. Gesù compie segni, predica in modo innovativo, suscita interesse. Diversi fra i suoi contemporanei lo ritengono un profeta, quasi la reincarnazione di uno degli antichi profeti. Altri sembrano perfino non distinguere bene fra Gesù e Giovanni Battista, che aveva invece parlato di lui, preparandogli la strada. I pareri sono discordanti. La domanda adesso giunge diretta. Non interessa ciò che la gente, le folle, gli altri, dicano di lui. Egli chiede a coloro che lo stanno seguendo chi dicono che egli sia. È come chiedere loro, in fondo, “perché mi seguite?”. Pietro, a nome di tutti o forse di quasi tutti i suoi discepoli più stretti, pronuncia la sua professione messianica: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Non sappiamo quanto Pietro o gli altri apostoli capissero circa la natura divina di Gesù, ma egli viene riconosciuto certamente come il Cristo, il Messia, Colui che il Dio vivente ha inviato come “suo figlio”. Matteo, Marco e Luca sono concordi nel riportare che questo riconoscimento non deve essere ancora divulgato. Gesù di Nazaret non cerca alcuna gloria umana, né vuole essere nominato capopopolo. La sua comprensione del Messia è ben diversa dalle aspettative di tutti. Egli è, in realtà, il servo sofferente di Javhè: la sua liberazione non è una rivalsa politica. Un esito, questo, che scandalizzerà molti; ma l’identità di Gesù il Cristo è proprio questa, il Figlio di Dio che muore per i peccati degli uomini e risorge dai morti.

    

Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: "La gente, chi dice che sia il Figlio dell'uomo?".  Risposero: "Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti". Disse loro: "Ma voi, chi dite che io sia?". Rispose Simon Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente".  E Gesù gli disse: "Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli.  E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli". Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.
Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.

    


   

Vangelo di Matteo (27,27-31.33-50)

    

Tutta la storia di Gesù di Nazaret punta verso la sua passione e morte: per questo egli dice di essere venuto nel mondo. Gesù non evita la morte, non la discute; piuttosto gli va incontro, perché la riconosce come parte di un piano da mettere in pratica: compiere quanto le Scritture dicono di lui e mostrare quanto Dio ama il mondo, fino a dare il Suo Figlio per la vita del mondo stesso. La vera identità di qualcuno, la sua personalità, di svela proprio nel momento della morte, quando essa sembra ormai avvicinarsi. Di fronte alla morte non si può mentire, mostrarsi diversi da come in realtà si è. Gesù muore come ha vissuto, con coerenza fra parole e opere. Chiede di perdonare i nemici e così egli fa con i suoi persecutori, predica la non violenza e così egli si comporta con coloro che lo condannano e lo crocifiggono. L’iscrizione sulla croce “Gesù, re dei Giudei” è così voluta da Pilato, come sfregio ironico nei confronti del popolo ebraico: è questo, così è ridotto, il vostro re, da voi non riconosciuto tale, ma consegnato al potere romano perché fosse messo in croce. L’interrogativo su chi sia Gesù è presente fino al termine. Chi passa sotto la croce si chiede ancora chi egli sia: se fosse davvero figlio di Dio, allora scenderebbe dalla croce e si salverebbe. Non avviene così. Gesù muore e viene sepolto. Solo due giorni dopo, al mattino del primo giorno dopo il sabato, delle donne diranno di aver visto Gesù vivo. La sera di quello stesso giorno apparirà ad un ristretto gruppo di discepoli con i segni e le ferite della passione, ma con un corpo trasfigurato. Da quel momento, l’annuncio del Risorto si propagherà con sorprendente rapidità, in pochi anni, in tutto il bacino del Mediterraneo.

   

Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la truppa. Lo spogliarono, gli fecero indossare un mantello scarlatto, intrecciarono una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra. Poi, inginocchiandosi davanti a lui, lo deridevano: "Salve, re dei Giudei!". Sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo. Dopo averlo deriso, lo spogliarono del mantello e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero via per crocifiggerlo. […]Giunti al luogo detto Gòlgota, che significa "Luogo del cranio",  gli diedero da bere vino mescolato con fiele. Egli lo assaggiò, ma non ne volle bere. Dopo averlo crocifisso, si divisero le sue vesti, tirandole a sorte. Poi, seduti, gli facevano la guardia. Al di sopra del suo capo posero il motivo scritto della sua condanna: "Costui è Gesù, il re dei Giudei". Insieme a lui vennero crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra.
Quelli che passavano di lì lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: "Tu, che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, salva te stesso, se tu sei Figlio di Dio, e scendi dalla croce!". Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi e gli anziani, facendosi beffe di lui dicevano: "Ha salvato altri e non può salvare se stesso! È il re d'Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: "Sono Figlio di Dio"!". Anche i ladroni crocifissi con lui lo insultavano allo stesso modo.
A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: "Elì, Elì, lemà sabactàni?", che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: "Costui chiama Elia". E subito uno di loro corse a prendere una spugna, la inzuppò di aceto, la fissò su una canna e gli dava da bere. Gli altri dicevano: "Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!". Ma Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito.

    


    

Lettera agli Ebrei (10,1-18)

   

Un autore fra la fine del I e l’inizio del II secolo, esperto del culto del tempio di Gerusalemme e del sacerdozio che vi corrispondeva, cristiano convertito dal giudaismo e probabile discepolo di Paolo di Tarso, scrive la Lettera agli Ebrei. In questo brano, egli presenta Gesù come sommo sacerdote, pontefice di un nuovo sacerdozio, non più quello dell’antica alleanza, finalizzato ad offrire animali come vittime di espiazione. Nel sacerdozio di Cristo egli è insieme sacerdote e vittima. Oltre al proprio corpo, egli offre anche un sacrificio “interno”, quello della propria obbedienza e volontà. Il valore infinito del sacrificio che egli offre fa sì che non sia più necessaria la moltiplicazione delle vittime: ad essere gradita a Dio è l’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre. A distanza di alcuni decenni dalla Pasqua di risurrezione, la comunità cristiana, di cui fa parte l’autore della Lettera agli Ebrei, ha ormai compreso il senso del sacrificio della croce: è l’offerta a Dio, definitiva, totale, compiuta per il perdono dei peccati di tutti gli uomini, quei peccati che non potevano essere cancellati con il sangue di animali, vittime estrinseche. Gesù è la Promessa ed è anche il Compimento: tutta la storia della salvezza ha parlato di lui e tendeva a lui, al suo mistero pasquale di morte e risurrezione.

  

La Legge infatti, poiché possiede soltanto un'ombra dei beni futuri e non la realtà stessa delle cose, non ha mai il potere di condurre alla perfezione per mezzo di sacrifici - sempre uguali, che si continuano a offrire di anno in anno - coloro che si accostano a Dio. Altrimenti, non si sarebbe forse cessato di offrirli, dal momento che gli offerenti, purificati una volta per tutte, non avrebbero più alcuna coscienza dei peccati? Invece in quei sacrifici si rinnova di anno in anno il ricordo dei peccati. È impossibile infatti che il sangue di tori e di capri elimini i peccati.  Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice:

Tu non hai voluto né sacrificio né offerta,
un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito
né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: "Ecco, io vengo
- poiché di me sta scritto nel rotolo del libro -
per fare, o Dio, la tua volontà". 

Dopo aver detto: Tu non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose che vengono offerte secondo la Legge, soggiunge: Ecco, io vengo a fare la tua volontà. Così egli abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre.
Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un'unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati. A noi lo testimonia anche lo Spirito Santo. Infatti, dopo aver detto:

 Questa è l'alleanza che io stipulerò con loro
dopo quei giorni, dice il Signore:
io porrò le mie leggi nei loro cuori
e le imprimerò nella loro mente,

dice:

e non mi ricorderò più dei loro peccati e delle loro iniquità. 
Ora, dove c'è il perdono di queste cose, non c'è più offerta per il peccato.

    

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