Apriamo la Sacra Scrittura: Lavoro

   

  

Genesi (2,2-15)

   

La Bibbia ospita il tema del lavoro fin dalle sue primissime pagine. La creazione del cielo e della terra è descritta come il “lavoro” che il Creatore conduce a compimento con saggezza e perfezione. Un lavoro, però, al quale anche i progenitori sono chiamati a cooperare con la loro libertà e intelligenza, perché creati “a immagine e somiglianza di Dio”. Si tratta di un testo molto antico, nel quale Dio viene indicato con il nome proprio di Jahvè, lo stesso che ritroveremo poi nella rivelazione a Mosè che inaugura la narrazione della liberazione del popolo di Israele dall’Egitto, nel libro dell’Esodo. In questa pagina l’uomo, indicato con il termine ebraico ’adam, che indica letteralmente “tratto dalla terra”, viene associato ben due volte al lavoro da realizzare in un giardino, per il quale si rende necessario l’irrigazione e la coltivazione, per poter ottenere dei frutti. Nel cap. 1 della Genesi la creazione dei progenitori, maschio e femmina, era stata già associata al mandato di riempire la terra, dominarla, umanizzarla. Qui si precisa che per la coltivazione della terra, dalla quale l’uomo è stato tratto, si rende necessario proprio il lavoro umano, senza del quale il “suolo” non potrà divenire un “giardino”, nonostante il dono divino della pioggia. Lo scenario descritto nella narrazione è quello delle regioni bagnate dai fiumi Tigri ed Eufrate, la Mesopotamia, tradizionalmente associate, nel popolo di Israele, ad un’area di fecondità e di ricchezza. L’uomo viene posto da Dio in questo giardino affinché “lo coltivasse e lo custodisse”. Nel contesto delle prime pagine della Genesi, il lavoro umano non è introdotto come attività di raccolta e/o di allevamento, pur essendo state queste le prime occupazione degli esseri umani in ordine alla loro sopravvivenza. Non si intende qui fornire una descrizione cronologica delle forme del lavoro umano, ma puntare al fatto che l’essere stati creati “a immagine e somiglianza di Dio” abilita ad un certo punto all’esercizio creativo dell’osservare e comprendere le leggi naturali, quelle della semina e del raccolto, che consentiranno all’uomo non solo di “godere” dei frutti che la terra produce da sé, ma “procurarseli” mediante un lavoro intelligente. Di fatto, sarà con la progressiva introduzione dell’agricoltura che l’essere umano entrerà nella fase più recente e creativa della sua attività, inaugurando l’era del neolitico (ca. 10.000-12.000 anni fa) nell’emisfero settentrionale del continente antico, terminata la precedente epoca di glaciazione. La Bibbia introduce quindi il lavoro umano in una cornice di solennità, quasi in parallelo al “lavoro di Dio” che è la creazione, e come un suo prolungamento nella storia.

Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. Dio, nel settimo giorno, portò a compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando. Queste sono le origini del cielo e della terra, quando vennero creati. Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c'era uomo che lavorasse il suolo, ma una polla d'acqua sgorgava dalla terra e irrigava tutto il suolo. Allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l'uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre attorno a tutta la regione di Avìla, dove si trova l'oro e l'oro di quella regione è fino; vi si trova pure la resina odorosa e la pietra d'ònice. Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre attorno a tutta la regione d'Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre a oriente di Assur. Il quarto fiume è l'Eufrate. Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.


 

Esodo (25,10-19 e 27,9-19)

  

Dal cap. 25 al cap. 31 del libro dell’Esodo, la Scrittura descrive la costruzione del santuario e l’attività dei suoi ministri, accostando elementi propri della “tenda” che accompagnava gli ebrei durante la loro peregrinazione nel deserto, in viaggio verso la terra promessa, con elementi desunti dal culto quando questo verrà esercitato già nella terra di Canaan, al termine dell’esperienza dell’Esodo. L’alleanza spirituale sancita fra Dio e il suo popolo genera oggetti sacri che rappresentano e ricordano la presenza di Dio in mezzo agli ebrei: le tavole dell’alleanza, qui indicate con il termine “Testimonianza”, un vaso contenente la manna con cui gli ebrei furono sfamati da Dio durante la loro peregrinazione, il bastone usato da Aronne, miracolosamente fiorito. Questi vengono disposti all’interno dell’arca, a sua volta custodita in una tenda al centro di un recinto sacro. Sorprende – ed è questo il collegamento con il lavoro umano – la precisione e la cura con cui il testo sacro descrive il modo in cui devono essere procurati, lavorati e disposti i materiali per la costruzione dell’arca, della tenda e del recinto. Il lavoro stesso entra nella logica del rito e partecipa alla santità che il rito esprime. Dio lo si onora con il lavoro ben fatto, preciso, “a regola d’arte”. Fra i molti modi in cui si sarebbe potuta onorare la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, quello di disporre un’arca e una tenda finemente lavorate insiste sulla dignità, e in certo modo sulla santità, del lavoro. Il lavoro ben fatto diviene una delle principali modalità con cui l’essere umano, secondo il testo qui riportato, entra in rapporto con Dio. Nel culto di Dio nulla sembra lasciato all’improvvisazione: ogni cosa viene indicata, prescritta, misurata. I gesti e la prassi richieste all’uomo, il suo lavoro meticoloso, “religioso”, sono in linea con la perfezione, la bellezza e l’armonia che sembrano appartenere a Dio stesso, o sono comunque il modo adeguato per rivolgersi a Lui.

  

Faranno dunque un'arca di legno di acacia: avrà due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di larghezza, un cubito e mezzo di altezza. La rivestirai d'oro puro: dentro e fuori la rivestirai e le farai intorno un bordo d'oro. Fonderai per essa quattro anelli d'oro e li fisserai ai suoi quattro piedi: due anelli su di un lato e due anelli sull'altro. Farai stanghe di legno di acacia e le rivestirai d'oro. Introdurrai le stanghe negli anelli sui due lati dell'arca per trasportare con esse l'arca. Le stanghe dovranno rimanere negli anelli dell'arca: non verranno tolte di lì. Nell'arca collocherai la Testimonianza che io ti darò.Farai il propiziatorio, d'oro puro; avrà due cubiti e mezzo di lunghezza e un cubito e mezzo di larghezza. Farai due cherubini d'oro: li farai lavorati a martello sulle due estremità del propiziatorio. Fa' un cherubino a una estremità e un cherubino all'altra estremità. Farete i cherubini alle due estremità del propiziatorio. […]

Farai poi il recinto della Dimora. Sul lato meridionale, verso sud, il recinto avrà tendaggi di bisso ritorto, per la lunghezza di cento cubiti sullo stesso lato. Vi saranno venti colonne con venti basi di bronzo. Gli uncini delle colonne e le loro aste trasversali saranno d'argento. Allo stesso modo sul lato rivolto a settentrione: tendaggi per cento cubiti di lunghezza, le relative venti colonne con le venti basi di bronzo, gli uncini delle colonne e le aste trasversali d'argento. La larghezza del recinto verso occidente avrà cinquanta cubiti di tendaggi, con le relative dieci colonne e le dieci basi. La larghezza del recinto sul lato orientale verso levante sarà di cinquanta cubiti: quindici cubiti di tendaggi con le relative tre colonne e le tre basi alla prima ala; all'altra ala quindici cubiti di tendaggi, con le tre colonne e le tre basi. Alla porta del recinto vi sarà una cortina di venti cubiti, lavoro di ricamatore, di porpora viola, porpora rossa, scarlatto e bisso ritorto, con le relative quattro colonne e le quattro basi. Tutte le colonne intorno al recinto saranno fornite di aste trasversali d'argento: i loro uncini saranno d'argento e le loro basi di bronzo. La lunghezza del recinto sarà di cento cubiti, la larghezza di cinquanta, l'altezza di cinque cubiti: di bisso ritorto, con le basi di bronzo. Tutti gli arredi della Dimora, per tutti i suoi servizi, e tutti i picchetti, come anche i picchetti del recinto, saranno di bronzo.

     


 

Primo libro dei Re (6,11-22 e 7,13-14.40-51)

   

Mentre i due libri di Samuele descrivono le gesta di Davide e la sua ascesa al Regno di Israele, il primo e il secondo libro dei Re illustrano la storia di Salomone e dei re a lui successivi. Fin dalle sue prime battute, nel presentare la figura di re Salomone, figlio di Davide, il primo libro dei Re indugia nel descrivere la costruzione del Tempio di Gerusalemme, opera che possiamo datare attorno al 960 a.C. Ormai stabilitisi nella Terra promessa e consolidata la struttura del regno, gli israeliti cessano di tributare culto al loro Dio servendosi di luoghi provvisori e di tende mobili, per maturare progressivamente l’idea di costruire un Tempio di grandi proporzioni. Il pregiato legno di cedro e l’oro lavorato in placche ricoprono la pietra, dando alla costruzione un aspetto sontuoso e sfolgorante. Per la costruzione Salomone convoca a Gerusalemme un esperto lavoratore del bronzo, Chiram, facendolo venire da Tiro. Come già per la Tenda che accompagnò la peregrinazione di Israele nel deserto, la costruzione del Tempio viene descritta dal testo biblico con una dovizia di particolari, sia negli aspetti strutturali (muri, colonne, capitelli, depositi per l’acqua, ecc.), sia per ciò che riguarda gli strumenti deposti al sacrificio degli animali e alla loro offerta sugli altari, sia, infine, per tutto ciò che va realizzato in ordine all’opera stessa (carrelli per trasportare le pietre, telai, ecc.). Pur contenendo senza dubbio iperboli e valori simbolici, il testo biblico testimonia anche in questo caso il grande valore tributato al lavoro e la richiesta che tutto ciò che si riferisce al culto di Dio venga realizzato “a regola d’arte”. Il Tempio verrà migliorato e arricchito in diverse riprese. L’ultima grande ricostruzione è quella al tempo del re Erode, regnante all’epoca della nascita di Gesù di Nazaret. Il Tempio erodiano fu poi in buona parte distrutto dall’imperatore romano Tito durante l’assedio del luglio del 70 d.C., voluto per porre fine alle continue insurrezioni degli ebrei contro i dominatori romani. A partire da quella data, fino ai nostri giorni, il culto del Dio di Israele da parte del popolo ebreo avviene soltanto nelle sinagoghe, luoghi di preghiera e di meditazione della sacra Scrittura, e non prevede più né altari né sacrifici.

 

Fu rivolta a Salomone questa parola del Signore: Riguardo al tempio che stai edificando, se camminerai secondo le mie leggi, se eseguirai le mie norme e osserverai tutti i miei comandi, camminando in essi, io confermerò a tuo favore la mia parola, quella che ho annunciato a Davide tuo padre. Io abiterò in mezzo agli Israeliti; non abbandonerò il mio popolo Israele". Salomone dette inizio alla costruzione del tempio e la portò a termine. Costruì i muri del tempio all'interno con tavole di cedro, dal pavimento del tempio fino ai muri di copertura; rivestì di legno la parte interna e inoltre rivestì con tavole di cipresso il pavimento del tempio.Costruì i venti cubiti in fondo al tempio con tavole di cedro, dal pavimento fino ai muri; all'interno costruì il sacrario, cioè il Santo dei Santi. L'aula del tempio di fronte ad esso era di quaranta cubiti. Il legno di cedro all'interno della sala era scolpito con coloquìntidi e fiori in sboccio; tutto era di cedro e non si vedeva una pietra. Eresse il sacrario nel tempio, nella parte più interna, per collocarvi l'arca dell'alleanza del Signore. Il sacrario era lungo venti cubiti, largo venti cubiti e alto venti cubiti. Lo rivestì d'oro purissimo e vi eresse un altare di cedro. Salomone rivestì l'interno della sala con oro purissimo e fece passare catene dorate davanti al sacrario che aveva rivestito d'oro. E d'oro fu rivestita tutta la sala in ogni parte, e rivestì d'oro anche l'intero altare che era nel sacrario. [...] Il re Salomone mandò a prendere da Tiro Chiram, figlio di una vedova della tribù di Nèftali; suo padre era di Tiro e lavorava il bronzo. Era pieno di sapienza, di intelligenza e di perizia, per fare ogni genere di lavoro in bronzo. Egli si recò dal re Salomone ed eseguì tutti i suoi lavori. Chiram fece i recipienti, le palette e i vasi per l'aspersione. Terminò di fare tutto il lavoro che aveva eseguito per il re Salomone riguardo al tempio del Signore: Chiram fece i recipienti, le palette e i vasi per l'aspersione. Terminò di fare tutto il lavoro che aveva eseguito per il re Salomone riguardo al tempio del Signore: le quattrocento melagrane per i due reticoli, due file di melagrane per ciascun reticolo, per coprire i due globi dei capitelli che erano sulle colonne, i dieci carrelli e i dieci bacini sui carrelli, l'unico Mare e i dodici buoi sotto il Mare, i recipienti, le palette, i vasi per l'aspersione e tutti quegli utensili che Chiram aveva fatto al re Salomone per il tempio del Signore. Tutto era di bronzo rifinito. Il re li fece fondere nel circondario del Giordano, in suolo argilloso, fra Succot e Sartàn. Salomone sistemò tutti gli utensili; a causa della loro quantità così grande non si poteva calcolare il peso del bronzo. Salomone fece tutti gli utensili del tempio del Signore, l'altare d'oro, la mensa d'oro su cui si ponevano i pani dell'offerta, i cinque candelabri a destra e i cinque a sinistra di fronte al sacrario, d'oro purissimo, i fiori, le lampade, gli smoccolatoi d'oro, le coppe, i coltelli, i vasi per l'aspersione, i mortai e i bracieri d'oro purissimo, i cardini per i battenti del tempio interno, cioè per il Santo dei Santi, e per i battenti del tempio, cioè dell'aula, in oro.Fu così terminato tutto il lavoro che il re Salomone aveva fatto per il tempio del Signore. Salomone fece portare le offerte consacrate da Davide, suo padre, cioè l'argento, l'oro e gli utensili; le depositò nei tesori del tempio del Signore.


Proverbi (6,6-11 e 24,30-34)

  

Il libro dei Proverbi, destinato come gli altri libri sapienziali alla formazione dei giovani del popolo di Israele, dedica con frequenza delle vivaci riflessioni al lavoro umano e alle virtù che devono accompagnarlo. In questi brevi versetti, tratti dai capitoli 6 e 24, si esorta a lavorare con ordine e responsabilità, con spirito di previsione, con saggezza. Ambedue le pagine terminano con lo stesso ritornello, un proverbio che “chiosa” gli insegnamenti trasmessi, probabilmente noto a chi ascoltava o leggeva e comunemente impiegato in contesti didattici come questo: “un po' dormi, un po' sonnecchi, un po' incroci le braccia per riposare, e intanto arriva a te la povertà, come un vagabondo, e l'indigenza, come se tu fossi un accattone”. Si desidera, in sostanza, prevenire la pigrizia, che può condurre, quasi senza accorgersene, a perdere opportunità e a lasciare che le cose degradino, causando guai che potrebbero divenire perfino irreversibili. Sono il “senso della previsione”, la cura dell’economia, le virtù dell’ordine e della metodicità, ad essere particolarmente lodate in queste pagine del libro dei Proverbi. Chiunque eserciti un lavoro si rende facilmente conto che proprio queste virtù, in fondo alla portata di tutti, possono sopperire la penuria di mezzi o perfino le minori possibilità in termini di talenti personali. L’atteggiamento incoraggiato da questa pagina biblica si definirebbe oggi con il termine “autodisciplina”, volendo indicare l’acquisizione di virtù mediante un impegno personale, fatto di atti reiterati che generano “buone abitudini”, non indotto da comandi esterni. Anche la predicazione di Gesù di Nazaret, come riportataci dai vangeli, fa eco a questi insegnamenti esortando a prevedere, a fare preventivi, a lavorare con responsabilità: costruire la casa sulla roccia e non sulla sabbia; calcolare il costo richiesto prima di intraprendere la costruzione di una torre, far fruttare i talenti ricevuti e non nasconderli, per pigrizia, sottoterra.

 

Va’ dalla formica, o pigro, guarda le sue abitudini e diventa saggio. Essa non ha né capo né sorvegliante né padrone, eppure d'estate si procura il vitto, al tempo della mietitura accumula il cibo. Fino a quando, pigro, te ne starai a dormire? Quando ti scuoterai dal sonno? Un po' dormi, un po' sonnecchi, un po' incroci le braccia per riposare, e intanto arriva a te la povertà, come un vagabondo, e l'indigenza, come se tu fossi un accattone. […]

Sono passato vicino al campo di un pigro, alla vigna di un uomo insensato: ecco, ovunque erano cresciute le erbacce, il terreno era coperto di cardi e il recinto di pietre era in rovina. Ho osservato e ho riflettuto, ho visto e ho tratto questa lezione: un po' dormi, un po' sonnecchi, un po' incroci le braccia per riposare, e intanto arriva a te la povertà, come un vagabondo, e l'indigenza, come se tu fossi un accattone.


Marco (6,1-6)

   

Nel vangelo di Matteo, Gesù di Nazaret è conosciuto come figlio del fabbro (Matteo 13,55) e nel passo del vangelo secondo Marco, qui riportato, egli stesso è indicato come falegname, persona ben nota nella sua città a motivo del suo lavoro. Il vangelo secondo Luca conosce la figura di Giuseppe, che introduce come custode di Gesù e sposo di Maria, ma non cita il suo mestiere. Il fatto che gli abitanti di questa piccola cittadina della Galilea riconoscano in Gesù il falegname, indica che egli esercitava questo lavoro da un congruo tempo, sufficiente per divenire qualcosa di pubblico, assodato. Ciò concorda con i vangeli di Luca e di Giovanni, che segnalano come Gesù, al momento di iniziare la sua predicazione come rabbino itinerante, era una persona adulta, di circa 30 anni secondo Luca, certamente con meno di 50 secondo Giovanni. Fino a quel momento Gesù aveva lavorato a Nazaret in modo stabile, tale da farsi conoscere. Non era un sacerdote: apparteneva alla tribù di Giuda, nella linea di Davide, e non alla tribù di Levi dalla quale tradizionalmente provenivano i sacerdoti. Era, diremmo oggi, un fedele laico, un lavoratore. Quasi certamente doveva trattarsi di un lavoro esercitato in proprio e non come dipendente di qualcuno, avendo egli imparato il mestiere da Giuseppe. Ciò implica anche una moderata attività imprenditoriale, come accade a chiunque deve fare i conti con i lavori richiestigli dai clienti, acquistare materiali, fare investimenti, gestire spese. Per indicare la tipologia del lavoro di Gesù questa pagina del vangelo di Marco usa il vocabolo greco tektón, la cui radice ricorda il sostantivo italiano “tecnica”, e che possiamo tradurre come “carpentiere” o “falegname”, colui che produce oggetti utili alla vita quotidiana, al lavoro domestico o al lavoro di altri, forse in primis nei settori allora più sviluppati, come l’agricoltura e la pesca. La pagina di Marco cita per nome proprio molti parenti di Gesù, segno della storicità della sua persona e della sua visibilità pubblica, ma trasmette anche una notevole sorpresa nel vedere Gesù, falegname e tutti noto, cominciare a predicare e a operare miracoli. Tale sorpresa è in fondo un segno della “normalità” della sua vita, almeno fino a quel momento. I suoi concittadini sembrano “scandalizzati” dal fatto che una persona così umana, diremmo normale, manifesti una sapienza e dei poteri taumaturgici inaspettati. Tale stato di cose distanzia alquanto la figura di Gesù dalle figure mitologiche, ove i caratteri straordinari rappresentano la loro ragion d’essere fin dal momento in cui la narrazione delle loro gesta viene introdotta.

Partì di là e venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: "Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?". Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: "Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua". E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d'intorno, insegnando. 


Matteo (25,14-30)

   

Nella predicazione di Gesù di Nazaret, la parabola dei talenti è una delle più note. L’evangelista Matteo la colloca fra i “discorsi escatologici”, quelli sugli ultimi tempi, facendola seguire immediatamente dalla narrazione del “Giudizio finale”. L’insegnamento trasmesso dalla parabola è sufficientemente chiaro e coinvolge in prima istanza ancora una volta il lavoro umano, sebbene proponga anche significati traslati, applicabili ad ogni forma di impegno. Nella formazione dei suoi discepoli, Gesù intendeva ricordare il compito di far fruttificare quanto da lui insegnato, cioè il Regno e la sua dottrina. Il lavoro capace di recare frutto e produrre beni viene lodato, mentre la pigrizia e la rinuncia all’impegno vengono biasimate. Ciascuno riceve un numero diverso di talenti, volendo con questo indicare sia i talenti innati, che ognuno è chiamato ad impiegare, sia le diverse circostanze di vita in cui ci si viene a trovare, che condizionano sia il lavoro sia i suoi frutti. Per tutti, però, il compito è lo stesso: far fruttare ciò che si è ricevuto. L’attività lodata è dunque quella di chi opera e, potendolo fare, produce ricchezza, che dovrà poi, evidentemente, essere impiegata con saggezza e carità. Chi non ha la possibilità di operare in prima persona, deve poter demandare ad altri di farlo, come si evince dal rimprovero che il padrone dirige al servo pigro, per non aver affidato il talento ai banchieri, che avrebbero potuto renderlo, dopo un certo tempo, con interesse. L’atteggiamento da evitare, insegna la parabola, è non agire, non operare, non lavorare: per paura, per rinuncia a chiedere consiglio, per carenza di istruzione. In sé, la parabola non sposa alcuna soluzione economica imprenditoriale, come potrebbe essere quella di favorire certe forme di capitalismo: intende solo indicare che, di fronte a Dio e di fronte agli uomini, ognuno è tenuto a far fruttare quanto possiede. Per questa ragione, la tradizione e il linguaggio comune hanno attribuito al termine “talento” i doni che ogni essere umano, chi più chi meno, riceve con la vita stessa. Questi non si devono sprecare, sotterrare o svalutare, ma impiegare per il bene. Non farlo, non è condotta morale accettabile, giustificandosi in base al fatto che ciascuno può fare del suo ciò che desidera, anche sotterrarlo: in un certo senso tutti abbiamo “ricevuto” quanto possediamo e tutti abbiamo un “signore” al quale render conto di beni lasciatici in amministrazione, il primo dei quali siamo noi stessi.

  

Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l'olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l'olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: "Ecco lo sposo! Andategli incontro!". Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: "Dateci un po' del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono". Le sagge risposero: "No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene". Ora, mentre quelle andavano a comprare l'olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: "Signore, signore, aprici!". Ma egli rispose: "In verità io vi dico: non vi conosco". Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora. Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque.Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: "Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque". "Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: "Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due". "Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: "Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo". Il padrone gli rispose: "Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti".


Seconda Lettera ai Tessalonicesi (3,6-15)

   

Il lavoro e la responsabilità nell’esercitarlo cominciò a caratterizzare la comunità cristiana fin dai suoi esordi. Lo mostra questa pagina della seconda Lettera di Paolo ai Tessalonicesi, scritta qualche anno dopo il 50, a pochissimi anni dagli eventi che diedero origine all’espansione del nuovo movimento religioso sorto dalla notizia della risurrezione di Gesù di Nazaret. Le parole di Paolo di Tarso sono chiare: chi si accosta alla comunità cristiana e non lavora, non si mantiene e, potendo lavorare, si poggia fraudolentemente sulle risorse altrui, va allontanato. Paolo esorta a “guadagnarsi il pane lavorando”, giungendo a formulare una massima divenuta poi famosa: “chi non vuole lavorare, neppure mangi”. Non va dimenticato che Paolo di Tarso è conosciuto dalla comunità cristiana come fabbricante di tende ed esercita questo lavoro tutte le volte che gli è possibile, anche durante i suoi viaggi apostolici, come testimoniano alcune pagine degli Atti degli Apostoli e delle sue Lettere. L’attenzione rivolta dai primi cristiani al lavoro non va interpretata come una semplice disposizione di vita, per raccogliere risorse, ma come condizione per essere cristiani nel mondo. Sono coloro che lasciano il mondo, come faranno nei secoli successivi i monaci, gli eremiti e i primi ordini religiosi, che potranno vivere di elemosina, poggiandosi sulla carità degli altri. I primi cristiani non sono predicatori itineranti, annunciatori di dei stranieri, banditori di una filosofia di vita o conferenzieri che vivono delle loro prediche: sono persone che lavorano. La loro testimonianza di Gesù Cristo e l’annuncio della sua dottrina di salvezza avvengono nel contesto del lavoro, sul luogo ove svolgono le attività e i mestieri che ciascuno di essi realizza. È interessante notare come un documento scritto fra la fine del I secolo e l’inizio del II secolo, dal titolo indicativo Didaché, ossia Dottrina dei Dodici (Apostoli) riprende quasi alla lettera le stesse raccomandazioni formulate da Paolo di Tarso. Vi leggiamo al cap. 12: «Se giunge da voi una persona in viaggio, aiutatelo secondo le vostre possibilità; tuttavia non si fermerà presso di voi che un paio di giorni, o al massimo tre. Se vuole invece stabilirsi presso di voi, avendo una sua attività, dovrà con questa lavorare, e così mantenersi. Se invece non ha alcun mestiere, comportatevi con prudenza, facendo in modo che non vi sia fra voi alcun cristiano ozioso. Nel caso non volesse comportarsi così, allora è un trafficante di Cristo e tenetevi alla larga da lui».

 

Fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, vi raccomandiamo di tenervi lontani da ogni fratello che conduce una vita disordinata, non secondo l'insegnamento che vi è stato trasmesso da noi. Sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità. Ma voi, fratelli, non stancatevi di fare il bene. Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo in questa lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello.

 

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