Apriamo la Sacra Scrittura: Libertà

 

Vangelo di Luca (4,14-22a)

 

Nella sinagoga di Nazaret, città della Galilea dove era ben conosciuto perché vi si era stabilito anni addietro, Gesù si auto-proclama Messia, l’Unto del Signore atteso dal suo popolo, applicando a sé la profezia contenuta nel libro del profeta Isaia, che egli legge di fronte ai presenti. All’interno della profezia di Isaia, nel descrivere ciò che caratterizzerà la missione del Messia promesso, si legge la frase: “Lo Spirito mi ha mandato a proclamare ai prigionieri la liberazione”. A quale liberazione fa riferimento questo passo biblico che Gesù applica a sé? Come si comprenderà dall’analisi di tutto il messaggio del Nuovo Testamento, e in continuità con quanto affermato prima nell’Antico, la liberazione operata dal Messia non riguarda un piano politico o sociale, ma si riferisce prima di tutto alla liberazione dal peccato, alla possibilità di ottenere finalmente il perdono di Dio. È ciò che Gesù Cristo realizzerà con la sua morte in croce, da lui dichiarata come causa del perdono, della redenzione, e dunque della liberazione dai peccati. Sempre il libro del profeta Isaia aveva parlato del “Servo sofferente di Jahvè” come di colui il quale, portando su di sé i peccati del mondo, con il sacrificio della sua vita avrebbe espiato in favore degli uomini. Ciò non vuol dire che il cristianesimo non abbia sostenuto, lungo la storia, anche le dimensioni politiche e sociali della liberazione, ad esempio dagli oppressori e dagli aggressori; tale liberazione, che certamente va perseguita per motivi di giustizia e di carità, non è tuttavia il fine della missione del Cristo; se ciò accade è perché, convertendo i cuori all’amore, la predicazione di Cristo disarma l’oppressore e l’aggressore. La libertà cristiana, liberazione dal peccato, reca come frutto anche la liberazione umana, ma è certamente più di essa.

 

Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.
Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:

Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l'unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi,
a proclamare l'anno di grazia del Signore . 

Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all'inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: "Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato".
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca.

 


 

Vangelo di Giovanni (8,31-36)

   

Buona parte del vangelo secondo Giovanni riporta le conversazioni, vere e proprie dispute teologiche, fra Gesù di Nazaret e la classe colta dei Giudei, appartenenti alla corrente dei farisei. In una di queste dispute Gesù parla in modo esplicito della sua figliolanza divina, come Figlio inviato da Dio-Padre e venuto nel mondo. Alcuni fra i presenti, scrive l’evangelista, “credettero alla sua parola”. A costoro Gesù dice adesso, in modo esplicito: “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. Il primo significato dell’affermazione è intuitivo: la libertà si nutre necessariamente di verità ed è solo conoscendo davvero le cose, che l’essere umano può decidere, agire, autodeterminarsi. Ogni attentato contro la verità è attentato contro la libertà. Dall’ignoranza non può nascere alcuna decisione davvero libera, anche se si può avere l’illusione di non avere legami e comportarsi come si vuole. La frase di Gesù possiede anche un chiaro riferimento cristologico: Lui, Gesù stesso, è la verità; ed è conoscendo Lui, ri-conoscendolo come Figlio di Dio, che il credente diviene libero, perché finalmente capace di comprendere cosa sia il peccato e come questo conduca alla schiavitù. Chiunque commette peccato, afferma Gesù, diviene schiavo del peccato, mentre chi riconosce il Figlio e lo segue nelle sue opere, si comporta egli stesso come figlio e dunque vive da persona libera. La medesima convergenza fra figliolanza divina e libertà viene ripresa da Paolo di Tarso nel capitolo 8 della Lettera ai Romani, attribuendo allo Spirito Santo la causa tanto dell’una come dell’altra. Libertà e verità sono entrambe unite, sia nella missione visibile del Figlio, sia nella missione invisibile, nei cuori, dello Spirito Santo.

 

Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto: "Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi". Gli risposero: "Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: "Diventerete liberi"?". Gesù rispose loro: "In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero.

 


   

Lettera ai Romani (8,14-24a)

 

Il passo della Lettera di Paolo ai Romani che qui riportiamo rappresenta una delle pagine più dense e profonde di tutto l’epistolario paolino. Nel capitolo 8 di questa lettera, Paolo spiega e sviluppa la stretta corrispondenza esistente fra l’inabitazione dello Spirito Santo, la figliolanza divina e la libertà. La condizione del cristiano è quella di un figlio: questa figliolanza è generata dalla presenza dello Spirito, perché Spirito del Figlio. La presenza dello Spirito è fonte di libertà: dove c’è lo Spirito, c’è la libertà, dirà sempre Paolo nella 2 Lettera ai Corinzi (3,17). Proprio perché spirito filiale, seguendolo il cristiano agisce con la libertà dei figli e non con il timore degli schiavi. Il rapporto dell’essere umano con Dio è così perfettamente individuato da una relazione filiale, guidata dallo Spirito. L’aspirazione alla libertà, osserva Paolo, riguarda però l’intera creazione. In modo misterioso, tale “libertà filiale” dovrà essere estesa a tutto il creato, che attualmente “geme come nelle doglie del parto”, in attesa di superare la corruzione degli elementi e godere anch’essa della “libertà dei figli di Dio”.

 

Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà! Padre!". Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L'ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità - non per sua volontà, ma per volontà di colui che l'ha sottoposta - nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati.

   


   

Prima lettera di Pietro (2,11-17)

 

Fra i libri del Nuovo Testamento ci è giunto questo testo, attribuito all’apostolo Pietro, che raccoglie assai probabilmente un’omelia rivolta a catecumeni che si apprestavano a ricevere il battesimo o lo avevano appena ricevuto, durante una liturgia che pare essere quella della veglia pasquale. Nei 5 capitoli che la compongono, l’Autore offre un breve ma incisivo riepilogo di cosa caratterizza il comportamento dei cristiani: cosa essi devono lasciare e cosa devono imparare a vivere. Può sorprendere, a prima vista, che fra le raccomandazioni vi sia quella di rispettare le autorità civili, vivere i doveri dei buoni cittadini, obbedire alle leggi poste da chi governa. Non solo temere Dio, ma anche onorare il re. In realtà, fra i primi cristiani era acquisita la dottrina che vivere la fede cristiana volesse dire, e vuole dire anche oggi, comportarsi da buoni cittadini. Un riferimento di Pietro alla libertà è abbastanza esplicito in proposito: «Comportatevi da uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio». La libertà di cui parla il cristianesimo deve essere vissuta con sincerità di cuore e non è mai disgiunta dalla verità.

 

Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai cattivi desideri della carne, che fanno guerra all'anima. Tenete una condotta esemplare fra i pagani perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere diano gloria a Dio nel giorno della sua visita. Vivete sottomessi ad ogni umana autorità per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come inviati da lui per punire i malfattori e premiare quelli che fanno il bene. Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all'ignoranza degli stolti, come uomini liberi, servendovi della libertà non come di un velo per coprire la malizia, ma come servi di Dio. Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re.

   


 

Lettera di Giacomo (1,19-25)

   

Dirigendosi alla comunità di Gerusalemme, nella quale occupa un posto di autorità, Giacomo, uno dei dodici scelti da Gesù, esorta i cristiani a vivere con sincerità e coerenza. La libertà non consiste nel fare ciò che si vuole, occultando così le proprie inadempienze, ma nel vivere secondo giustizia. La “legge della libertà” è una legge perfetta, scrive Giacomo. Essa ci porta non solo ad ascoltare, ma anche a mettere in pratica ciò che si ascolta. Libertà non vuol dire superficialità o scarso impegno: ciò fa pensare, afferma l’Autore, alla figura di un uomo che ha appena tempo di osservare la sua immagine in uno specchio e va subito via, senza capire chi egli sia e come debba comportarsi. L’espressione “legge della libertà” potrebbe sembrare a prima vista una contraddizione, quasi un ossimoro. Raccogliendo la tradizione ebraica, il cristianesimo afferma invece che la legge, come la verità, rende liberi. A rendere l’essere umano prigioniero sono l’errore, come anche l’ignoranza dei comandamenti e gli stili di vita che vi si oppongono. Il linguaggio popolare, debitore all’ispirazione cristiana, parla della “schiavitù del vizio”, espressione che continuiamo oggi a comprendere bene se la pensiamo espressiva delle varie forme di dipendenza che generano comportamenti devianti: alcolismo, droga, pornografia, gioco d’azzardo, ecc. Per generare una vita buona occorre dunque comprendere cosa voglia dire davvero libertà e cosa, invece, la ostacola o la nega.

   

Lo sapete, fratelli miei carissimi: ognuno sia pronto ad ascoltare, lento a parlare e lento all'ira. Infatti l'ira dell'uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio. Perciò liberatevi da ogni impurità e da ogni eccesso di malizia, accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza. Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché, se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica come era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla.

 


 

Lettera a Filemone (8-20)

   

La tradizione cristiana ha custodito e ci ha fatto giungere una breve lettera personale, poco più che un “biglietto”, che Paolo di Tarso indirizza a Filemone e alla comunità che si radunava nella sua casa. Si tratta di persone che Paolo conosce bene e che ha evangelizzato; per questo si rivolge loro con familiarità, godendo nei loro confronti anche di una certa autorità morale. Oggetto della lettera è un uomo, forse un giovane, di nome Onesimo, che prestava servizio proprio presso Filemone, come schiavo (doulos, termine che indicava un servo sottomesso, non un prigioniero di guerra o un operaio usato come forza-lavoro). Onesimo si era allontanato dal servizio del suo padrone, forse era fuggito. Gli eventi della vita avevano portato Onesimo a incontrare il cristianesimo e Paolo: si fa battezzare e diventa cristiano, cominciando a collaborare con Paolo. Quando quest’ultimo viene a sapere della precedente condizione di Onesimo, come questi fosse servo in casa di Filemone, decide allora di chiedergli di tornare da Filemone. Come accompagnamento, gli consegna una lettera di cui riportiamo qui i passi centrali. Adesso Onesimo è cristiano come il suo padrone, ma ciò non toglie che, secondo la legge dell’epoca, vi sia fra loro un rapporto basato su condizioni che vanno rispettate. Soprattutto Paolo non vuole agire senza il parere di Filemone. Onesimo era schiavo e adesso, fuggito dal padrone, sembrerebbe libero. Per Paolo, invece, la libertà che Cristo ci ha portato non coincide con l’interrompere i legami una volta contratti ma nel trasformarli “dall’interno”. Paolo ricorda a Filemone che adesso Onesimo è un fratello in Cristo e che entrambi sono “schiavi”, come Paolo, del Signore Gesù. Paolo lascerà Filemone libero di decidere se tenere Onesimo, accogliendolo però come un fratello, o rimandarglielo, affinché sia di servizio all’Apostolo. Questa breve lettera è un esempio di come la libertà cristiana vada rispettata nei suoi aspetti esterni (Filemone è libero di decidere come gestire i rapporti con Onesimo, a prescindere dal fatto che questi sia adesso battezzato), e nei suoi aspetti interni (anche se schiavi esternamente, i cristiani si sentono liberi in Cristo, ma al tempo stesso suoi “schiavi” perché gli hanno dato la vita).

   

Per questo, pur avendo in Cristo piena libertà di ordinarti ciò che è opportuno, in nome della carità piuttosto ti esorto, io, Paolo, così come sono, vecchio, e ora anche prigioniero di Cristo Gesù. Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene, lui, che un giorno ti fu inutile, ma che ora è utile a te e a me. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore.
Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il Vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario. Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore.
Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso. E se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. Io, Paolo, lo scrivo di mio pugno: pagherò io. Per non dirti che anche tu mi sei debitore, e proprio di te stesso! Sì, fratello! Che io possa ottenere questo favore nel Signore; da' questo sollievo al mio cuore, in Cristo!

 

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