Callista

John Henry Newman
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Particolare di un affresco della Villa di Publio Fannio Sinistore, scavi archeologici di Boscoreale (NA)

John Henry Newman (1801-1890) fu storico, filosofo, teologo, presbitero anglicano e, dopo la conversione al cattolicesimo, sacerdote della Chiesa cattolica e infine cardinale. Benedetto XVI lo ha proclamato beato nel 2010, e Francesco santo, nel 2019. Forse meno nota è la sua produzione letteraria, in versi e in prosa: in qualità di romanziere pubblicò Perdita e guadagno (Loss and Gain, 1848) e Callista (1855), di cui qui di seguito riportiamo un estratto in traduzione italiana con testo inglese a fronte. Protagonista della vicenda, ambientata nei pressi di Cartagine all'epoca delle persecuzioni contro i cristiani del III secolo d.C., è l'artista greca Callista, la cui ricerca della verità trova compimento nella conversione e infine nel martirio. Nel brano che qui proponiamo, Callista espone davanti al fratello Aristo e al filosofo Polemo le motivazioni che la spingono a non sacrificare all'imperatore, sebbene non fosse battezzata cristiana, contravvenendo così a quanto prescritto dalla legge romana. “Riconoscerò Cesare in ogni modo conveniente” dice Callista, “ma non ne farò il mio Dio”: la divinità che parla all'intimità della sua coscienza, indicandole ciò che è bene e ciò che è male, non può essere confusa con quello che è soltanto un essere umano. E la fedeltà alla propria coscienza, sostiene Callista, non è sacrificabile a ragioni di convenienza.

Il discorso di Polemo, anche se pedante, ebbe effetto, almeno la sua fine, su menti fatte come quelle greche. Aristo si alzò, fece un giuramento e si volse trionfalmente verso Callista, che aveva a sua volta sentito la sua forza. Dopo tutto, che cosa sapeva dei cristiani? Al massimo stava abbandonando il noto per I’ignoto: era certa di accettare un male certo per un bene contingente. Si disse: “No, non sarò mai cristiana” poi disse forte “Mio signore Polemo, non sono cristiana; non ho mai detto di esserlo”.

“Questa è la sua assurdità” esclamò Aristo “Non è né l’uno né l’altro. Non dirà che è cristiana e non sacrificherà”.

“È la mia sventura” disse “Lo so. Sto perdendo sia quello che vedo che quello che non vedo. E del tutto privo di fondamento: eppure che posso fare?”.

Polemo aveva detto quello che credeva abbastanza. Era uno di quelli che vendevano le loro parole. Era già stato più che generoso, e non era disposto a regalare altro.

Dopo un attimo Callista disse: “Polemo, credi in un Dio?”.

“Certamente” rispose “Credo in un qualcosa di eterno e che esiste da per sé”.

“Beh” disse lei “Sento quel Dio dentro il mio cuore. Mi sento alla sua presenza. Mi dice: ‘Fai questo; non fare quello’. Potresti dirmi che questa imposizione è una semplice legge della mia natura come lo è gioire o soffrire. Non posso comprenderlo. No, è I’eco di una persona che mi parla. Nulla mi persuaderà che non deriva in ultimo da una persona esterna a me. Porta con sé la prova della sua origine divina. La mia natura la percepisce come una persona. Quando la obbedisco, sento una soddisfazione; quando disobbedisco un dolore – proprio come quello che sento nel compiacere o offendere un caro amico. Vedi, Polemo, credo in qualcosa che è più di un semplice ‘qualcosa’. Credo in ciò che è più reale per me del sole, della luna, delle stelle e della bella terra e della voce degli amici. Dirai: ‘Chi è? Ti ha mai detto qualcosa di Sé?’. Ahimé, no! Che grande peccato! Ma non lascerò quello che ho, perché non ho di più. Un’eco implica una voce; una voce qualcuno che parla. Quel qualcuno che parla io amo e temo”.

Qui era esausta e sopraffatta, povera Callista, dalle sue stesse emozioni.

“Oh, se potessi trovarLo!” esclamò con passione “Mi aggrapperei alla mano destra e alla sinistra, ma non lo toccherei. Perché combatti contro di me? Perché mi spaventi e sconvolgi, o Primo e Unico Bene? Non Ti possiedo e ho bisogno di Te”. Aggiunse: “Non sono Cristiana, capisci, o Lo avrei trovato; o per lo meno direi di averlo trovato”.

“È senza speranza” disse Polemo ad Aristo, con grande disgusto e una certa alterigia nei modi “È andata troppo oltre. Non mi avresti dovuto portare in questo luogo”.

Aristo mugugnò.

“Forse dovrei” continuò lei “Venerare qualcun altro a parte Lui? Dovrei dire che Colui che non vedo, che cerco, è il nostro Giove o Cesare o la dea Roma? Non ci sono immagini loro in questa mia guida interiore. Sacrificherò a Lui solo”.

I due uomini si guardarono con sorpresa: uno di loro con rabbia.

“È come il demone di Socrate” disse Aristo, timidamente.

“Riconoscerò Cesare in ogni modo conveniente” ripeté lei “Ma non ne farò il mio Dio”.

Subito aggiunse: “Polemo, quell'invisibile Controllore non avrà qualcosa da dire a tutti noi, a te, un giorno futuro?”.

“Risparmiami! Risparmiami, Callista!” gridò Polemo, alzandosi con una violenza inadatta alla sua posizione e professione. “Risparmia le mie orecchie, donna infelice! Queste parole non ci sarebbero mai dovute entrare. Non sono venuto per essere insultato. Povero, cieco, sfortunato spirito perverso – mi allontano da te per sempre! Abbandona, se vuoi, la maestosa, splendente, benefica tradizione dei tuoi antenati, e vivi in questa terribile superstizione! Addio!”.

Non sembra meglio disposto nei confronti di Aristo rispetto a Callista, anche se Aristo lo aiutò a salire sulla lettiga, camminò al suo fianco, e fece quello che poteva per facilitarlo.

Polemo's speech, though cumbrous, did execution, at least the termination of it, upon minds constituted like the Grecian. Aristo jumped up, swore an oath, and looked round triumphantly at Callista, who felt its force also. After all, what did she know of Christians? – at best she was leaving the known for the unknown: she was sure to be embracing certain evil for contingent good. She said to herself, “No, I never can be a Christian.” Then she said aloud, “My Lord Polemo, I am not a Christian; - I never said I was.”

“That is her absurdity!” cried Aristo. “She is neither one thing nor the other. She won’t say she’s a Christian, and she won’t sacrifice!”

“It is my misfortune,” she said, “I know. I am losing both what I see, and what I don’t see. It is most inconsistent: yet what can I do?”

Polemo had said what he considered enough. He was one of those who sold his words. He had already been over-generous, and was disposed to give away no more.

After a time, Callista said, “Polemo, do you believe in one God?”

“Certainly,” he answered; “I believe in one eternal, self-existing something.”

“Well,” she said, “l feel that God within my heart. I feel myself in His presence. He says to me, ‘Do this: don’t do that,’ You may tell me that this dictate is a mere law of my nature, as is to joy or to grieve. I cannot understand this. No, it is the echo of a Person speaking to me. Nothing shall persuade me that it does not ultimately proceed from a person external to me. It carries with it its proof of its divine origin. My nature feels towards it as towards a person. When I obey it, I feel a satisfaction; when I disobey, a soreness – just like that which I feel in pleasing or offending some revered friend. So you see, Polemo, I believe in what is more than a mere ‘something.’ I believe in what is more real to me than sun, moon, stars, and the fair earth, and the voice of friends. You will say, who is He? Has He ever told you anything about Himself? Alas! No! – the  more’s the pity! But I will not give up what I have, because I have not more. An echo implies a voice; a voice a speaker. That speaker I love and I fear.”

Here she was exhausted, and overcome too, poor Callista! with her own emotions.

“O that I could find Him!” she exclaimed, passionately. “on the right hand and on the left I grope, but touch Him not. Why dost Thou fight against me? – why dost Thou scare and perplex me, o First and only Fair? I have Thee not, and I need Thee.” She added, “I am no Christian, you see, or I should have found Him; or at least I should say I had found Him.”

“It is hopeless,” said Polemo to Aristo, in much disgust, and with some hauteur of manner: “she is too far gone. You should not have brought me to this place.”

Aristo groaned.

“Shall I,” she continued. “worship any but Him? Shall I say that He whom I see not, whom I seek, is our Jupiter, or Caesar, or the goddess Rome? They are none of them images of this inward guide of mine. I sacrifice to Him alone.”

The two men looked at each other in amazement: one of them in anger.

“It’s like the demon of Socrates,” said Aristo, timidly.

“l will acknowledge Caesar in every fitting way,” she repeated; “but I will not make him my God.”

Presently she added, “Polemo, will not that invisible Monitor have something to say to all of us, – to you, – at some future day?”

“Spare me! spare me, Callista!” cried Polemo, starting up with a violence unsuited to his station and profession. “Spare my ears, unhappy woman! – such words have never hitherto entered them. I did not come to be insulted. Poor, blind, hapless, perverse spirit – l separate myself from you for ever! Desert, if you will, the majestic, bright, beneficent traditions of your forefathers, and live in this frightful superstition! Farewell!”

He did not seem better pleased with Aristo than with Callista, though Aristo helped him into his litter, walked by his side, and did what he could to propitiate him.

Tratto da J.H. Newman, Callista, The Echo Library, Fairford 2010, pp. 156-158 (traduzione italiana di Samuele Baracani, Schegge Riunite, Torino 2020, pp. 257-259).