Rileggiamo l’enciclica Laudato si’

Daniela Padoan
2020

Il Novecento e le sue ombre

Trent’anni fa, lo scrittore messicano Octavio Paz, nel discorso di accettazione del premio Nobel per la letteratura, racchiuse il secolo che stava finendo in un vertiginoso inventario: «Raramente i popoli e gli individui hanno sofferto tanto: due guerre mondiali, dispotismi nei cinque continenti, la bomba atomica e, infine, la moltiplicazione di una tra le istituzioni più crudeli e mortifere che gli uomini abbiano conosciuto, il campo di concentramento. I benefici della tecnica moderna sono innumerevoli, ma è impossibile chiudere gli occhi davanti alle carneficine, alle torture, alle umiliazioni, al degrado e alle altre sofferenze patite da milioni di innocenti nel nostro secolo”. [1]
Nel 2015, con l’enciclica Laudato si’ sulla cura della “casa comune”, Papa Francesco, ben consapevole della semina di dolore e ingiustizie continuata nel XXI secolo, ha allargato lo sguardo alla devastazione del pianeta e alla distruzione delle specie che lo abitano, chiedendo agli abitanti della Terra, credenti e non credenti, di fermarsi a riflettere sull’evidenza che l’umanità sta creando le condizioni per la propria estinzione. Lo ha fatto parlando di cultura dello scarto, che «colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura». [2]
È nello scenario di una crisi climatica e ambientale irreversibile, annunciata dagli scienziati e contrastata quasi in solitudine dal movimento di giovani che nel mondo lotta per il diritto al futuro, che continua ad agire, come una radice profonda, ciò che è già stato introdotto nel mondo ma che ci addestriamo a non vedere: i campi e le torture, la selezione, la guerra, il rischio atomico – solo più sottotraccia, sistematizzato in un modello presentato come immodificabile, che vede il pianeta, il vivente e gli esseri umani alla stregua di una risorsa da sfruttare senza limiti o di un’eccedenza da governare.
È ancora all’opera la postura di dominio di una cultura antropocentrica che ha fatto di ciò che vive un mero oggetto d’uso e che ha finito «per collocare la ragione tecnica al di sopra della realtà, perché questo essere umano non sente più la natura né come norma valida, né come vivente rifugio». [3]
Un’affermazione che interroga il senso profondo di ogni politica e di ogni azione educativa: scienza e filosofia, storia ed economia, teologia e diritto, che insieme possono far germogliare la consapevolezza che «tutto è connesso» e che «noi tutti, esseri dell’universo, siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale». [4]
Il Papa – che già nel 2013, nel primo viaggio apostolico del suo pontificato, si era recato a Lampedusa a «chiedere perdono ai morti che nessuno piange», [5] e che nel 2014 aveva descritto la rinascita dei nazionalismi e la frammentazione dei conflitti globali come una «Terza guerra mondiale a pezzi»[6] –nell’enciclica Laudato si’ ha indicato la necessità di una giustizia ecologica che sia anche giustizia sociale, dovuta prima di tutto agli “scartati” della Terra. Una giustizia capace di invertire radicalmente la rotta prima che sia troppo tardi, di contrapporsi a un sistema economico che subordina la vita ai propri interessi, a una finanza «immateriale e crudele», a una «cultura del benessere che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza». [7]

La natura come bene comune e principio normativo

Nel corso relativamente breve della sua storia, Homo sapiens ha svuotato la Terra di vegetazione e di animali selvatici [8] per sostituirli, via via che aumentavano le sue competenze tecnico-scientifiche, con forme coltivate o allevate in modo industriale, fuori dal processo biologico naturale e dal rapporto creaturale; ha causato l’acidificazione dei mari, la perdita di suolo fertile e di ghiacciai, la crescita smisurata di megalopoli da cui la natura è stata sistematicamente cancellata, la disseminazione di rifiuti tossici, l’ubiquità della plastica, che, in balia delle correnti oceaniche, ha formato gigantesche isole di spazzatura, la più grande della quali, la Great Pacific Garbage Patch, misura tre volte la Francia. 

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Daniela Padoan (25 novembre 1958).

La concentrazione di gas serra prodotti da un modello di sviluppo fondato sull’uso intensivo di combustibili fossili impedisce che il calore dei raggi solari riflessi dalla Terra si disperda nello spazio. La Laudato si’, nominando con chiarezza cause e conseguenze, indica la necessità di un’immediata conversione ecologica, pena il termine dell’avventura umana sul pianeta. «Se la tendenza attuale continua, questo secolo potrebbe essere testimone di cambiamenti climatici inauditi e di una distruzione senza precedenti degli ecosistemi, con gravi conseguenze per tutti noi. L’innalzamento del livello del mare, per esempio, può creare situazioni di estrema gravità, se si tiene conto che un quarto della popolazione mondiale vive in riva al mare o molto vicino a esso, e la maggior parte delle megalopoli sono situate in zone costiere». [9] L’enciclica si rivolge alla politica, ai decisori, alle istituzioni nazionali e internazionali, avendo però sempre presente che il cambiamento viene dall’impegno di ciascuno. Per questo chiede gli educatori di promuovere una consapevolezza della realtà della crisi e delle sue interconnessioni che induca un cambio negli stili di vita e un ripensamento del nostro rapporto con la natura e con tutti i viventi terrestri, in una riconciliazione improntata a un’assunzione del senso del limite, che si declini nel consumo, nell’alimentazione, nella produzione agricola e industriale, nella giustizia distributiva, nel modo in cui modifichiamo i territori che abitiamo. 
Il percorso indicato dall’enciclica porta a una riappropriazione della natura come dimensione spirituale, culturale, filosofica e politica: non materia inerte, non disponibilità gratuita da consumare o depredare, ma organismo vivente capace di autoregolarsi e ospitare la vita; [10] bene comune, dono di cui godere nella meraviglia e nello stupore per le sue infinite forme, da custodire e restituire alle future generazioni. 
Già questo concetto apparentemente innocuo contiene una rivoluzione che implica la ridefinizione della proprietà privata – dal suolo al genoma, dall’acqua ai vaccini – e del diritto delle grandi industrie multinazionali di scavare, inquinare, depredare e trasformare ciò che fa parte della casa comune – habitat, foreste, montagne e fiumi – giungendo a modificare la geografia dei luoghi e ad alterare l’equilibrio biologico e chimico-fisico degli elementi che ci costituiscono. Monocolture, sementi geneticamente modificate, fabbriche intensive di animali da macello o da pelliccia, brevetti sul vivente, spostamenti di laghi e corsi d’acqua in funzione delle grandi dighe, estrazioni minerarie e petrolifere che scavano le viscere della terra e dei fondali marini sono le diverse facce di un imperio materiale e simbolico che concede a pochi di arricchirsi enormemente, devastando in modo spesso irreversibile ciò che è di ciascuno di noi. 
«La terra è essenzialmente un’eredità comune, i cui frutti devono andare a beneficio di tutti», scrive Francesco nell’enciclica. «Il principio della subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni e, perciò, il diritto universale al loro uso, è una “regola d’oro” del comportamento sociale, e il primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale». [11]

L’ecologia integrale come uscita dall’antropocentrismo

Più ancora, tuttavia, è sorprendente la forza con cui nella Laudato si’ viene enunciato che noi stessi siamo natura, che siamo fatti della stessa materia del pianeta, [12] e che proprio il nostro essere natura ci lega intimamente a tutto ciò che esiste, su un piano di fratellanza che esclude la presunzione di avere titolo a disporne. La Terra, come la Pacha Mama dei popoli nativi del Latinoamerica, alla cui cultura l’enciclica guarda con attenzione e rispetto, è una sorella e una madre che patisce sfregi continui, le cui conseguenze si riversano su tutti i suoi abitanti, umani e non umani, modificandone le condizioni di abitabilità. «Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi». [13]
Nell’enciclica si delinea la radice del legame che il Papa avverte con il santo di Assisi, tanto da assumerne il nome. Per san Francesco, scrive il pontefice in uno dei paragrafi forse più rivoluzionari della Laudato si’, «qualsiasi creatura era una sorella, unita a lui con vincoli di affetto. Per questo si sentiva chiamato a prendersi cura di tutto ciò che esiste. Il suo discepolo San Bonaventura narrava che lui, “considerando che tutte le cose hanno un’origine comune, si sentiva ricolmo di pietà ancora maggiore e chiamava le creature, per quanto piccole, con il nome di fratello o sorella”. Questa convinzione non può essere disprezzata come un romanticismo irrazionale», commenta Bergoglio, «perché influisce sulle scelte che determinano il nostro comportamento. Se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati. Viceversa, se noi ci sentiamo intimamente uniti a tutto ciò che esiste, la sobrietà e la cura scaturiranno in maniera spontanea. La povertà e l’austerità di san Francesco non erano un ascetismo solamente esteriore, ma qualcosa di più radicale: una rinuncia a fare della realtà un mero oggetto di uso e di dominio». [14]
L’ecologia integrale è allora l’ultima possibilità di recedere di fronte all’abisso, sentendo «intimamente di essere scivolati da una semplice crisi ecologica a quel che bisognerebbe piuttosto chiamare una profonda mutazione nel nostro rapporto con il mondo». [15] Lo sguardo che il Papa chiede sulla realtà impone di pensare la fine di un sogno di dominio antropocentrico che si è mutato in incubo, dando luogo a quella che il sociologo tedesco Ulrich Beck ha chiamato “società del rischio”, [16] senza accontentarci di riforme “verdi” che hanno lo scopo di mantenere in vita un impianto di cui vanno invece messe in discussione le fondamenta. Basti riconoscere il titanismo suicida con cui l’uomo ha ridisegnato la presenza del vivente sul pianeta, in una sorta di giardinaggio biologico. Secondo un autorevole studio sulla distribuzione della biomassa complessiva sulla Terra calcolata in gigatonnellate di carbonio, il 70 per cento di tutti gli uccelli del pianeta è rappresentato dal pollame, mentre il 60 per cento dei mammiferi è rappresentato dal bestiame – parola che già nel suo etimo contiene la riduzione a pluralità indistinta di corpi asserviti, nominati come bovini, suini, ovini, caprini, equini. Ciò che resta della biomassa dei mammiferi è formato per il 36 per cento dagli esseri umani e solo per il 4 per cento dagli animali selvatici – dagli elefanti alle tigri, dai castori alle balene. Sono le cifre di uno sterminio. Secondo il medesimo studio, il numero di umani (oggi giunto a 7,8 miliardi) che popola il pianeta rappresenta lo 0,01 per cento di tutti gli organismi, di cui fanno parte anche virus e batteri. [17] Una percentuale irrisoria, la cui impronta tuttavia non produce solo un effetto destabilizzante per le altre forme di vita che condividono la biosfera, ma un ritorno devastante per gli umani stessi. Ne è un esempio l’attuale pandemia di Covid-19, originata, come altre zoonosi, dalla progressiva distruzione di habitat che spinge specie selvatiche nelle prossimità di allevamenti e megalopoli favorendo così i salti di specie, e da una globalizzazione che permette ai patogeni, in questo caso SARS-CoV-2, di diffondersi istantaneamente nel mondo. La possibilità che si avverasse ciò che stiamo vivendo era stata ampiamente prevista dagli scienziati, che da anni mettevano in guardia i decisori politici del pianeta; ultimo, uno studio commissionato dall’OMS, pubblicato nel settembre 2019, in cui si indicava il concreto rischio di «una pandemia in rapido movimento, altamente letale, dovuta a un agente patogeno respiratorio in grado di uccidere da 50 a 80 milioni di persone e di spazzare via quasi il 5 per cento dell’economia mondiale». [18]
Nessuno ha dato realmente ascolto agli avvertimenti degli scienziati, caduti nel vuoto anche per quanto riguarda la crisi climatica, che vede un succedersi di eventi estremi, previsti ma non per questo meno catastrofici; quasi che la tecnologia potesse porvi rimedio senza intaccare gli interessi e i profitti dei poteri dominanti, e che le vittime, concentrate principalmente tra le popolazioni più fragili del pianeta e nelle zone più povere ed esposte, non fossero valevoli di destare un vero allarme, se non quando si trasformano in profughi.
«Nella modernità si è verificato un notevole eccesso antropocentrico che, sotto altra veste, oggi continua a minare ogni riferimento a qualcosa di comune e ogni tentativo di rafforzare i legami sociali», scrive il Papa. «Per questo è giunto il momento di prestare nuovamente attenzione alla realtà con i limiti che essa impone, i quali a loro volta costituiscono la possibilità di uno sviluppo umano e sociale più sano e fecondo. Una presentazione inadeguata dell’antropologia cristiana ha finito per promuovere una concezione errata della relazione dell’essere umano con il mondo. Molte volte è stato trasmesso un sogno prometeico di dominio sul mondo che ha provocato l’impressione che la cura della natura sia cosa da deboli. Invece l’interpretazione corretta del concetto dell’essere umano come signore dell’universo è quella di intenderlo come amministratore responsabile». [19]

Il primato del logos e la cultura dello scarto

Nei paragrafi che l’enciclica dedica asan Francesco, troviamo un’affermazione ancora più inaspettata nel depotenziare la supremazia che l’uomo ha assegnato a se stesso su tutti gli altri esseri, fondata sul primato della razionalità e del discorso logico sequenziale, talmente indiscusso nella nostra cultura che la nascita della metafisica sembrerebbe confondersi con la storia del logocentrismo. [20] La testimonianza di san Francesco, scrive il Papa, «ci mostra che l’ecologia integrale richiede apertura verso categorie che trascendono il linguaggio delle scienze esatte o della biologia e ci collegano con l’essenza dell’umano. Così come succede quando ci innamoriamo di una persona, ogni volta che Francesco guardava il sole, la luna, gli animali più piccoli, la sua reazione era cantare, coinvolgendo nella sua lode tutte le altre creature. Egli entrava in comunicazione con tutto il creato, e predicava persino ai fiori e “li invitava a lodare e amare Iddio, come esseri dotati di ragione”». [21] Come esseri dotati di ragione. Con queste parole, l’enciclica sovverte il paradigma che ci ha addestrato a separare il vivente in gerarchie e tassonomie di valore, e a considerare la Natura come altro dall’Uomo. Agli animali abbiamo negato il linguaggio, l’affettività, la ragione, la capacità di percepire dolore, legittimandone la riduzione a cosa, a merce da consumare, a corpi da costringere in cattività, sfruttare, eliminare, estinguere. «Una parola, l’animale, un nome che gli uomini hanno istituito, un nome che essi si sono presi il diritto e l’autorità di dare all’altro vivente», [22] ha scritto Jacques Derrida.
Il primato del logos è stato l’architrave utilizzato dalla cultura occidentale per erigere un edificio teorico ed etico che permettesse di sottomettere e dominare non solo il vivente nelle sue molteplici forme ma anche chi, alla stregua delle bestie, è stato via via ritenuto privo delle caratteristiche precipuamente umane. Dall’apparentamento all’animale agito nell’antica Grecia – dove il non parlante greco, reputato “barbaro” (l’onomatopea bar-bar indica balbuzie, latrato), poteva essere catturato in guerra e ridotto a bestia da soma – allo “schiavo per natura” descritto da Aristotele nella Politica; dal nativo delle Americhe, oggetto della disputa teologica sul possesso dell’anima, al “negro da cotone” deportato nelle piantagioni americane. C’è un filo ininterrotto, un’ideologia del disprezzo che ha distinto gli esseri umani per fenotipi corrispondenti a caratterizzazioni psicologiche e morali via via codificate nel concetto di “razza”, che ha potuto procedere fino alla civile Germania nutrita di Goethe, dove intere categorie umane viste come inferiori sono state dapprima nominate e poi soppresse come “vite indegne di essere vissute” o “bocche inutili da sfamare”. Fino all’Untermensch, il sotto-uomo o sub-umano dei lager nazisti, il dominio dei corpi ha necessitato l’apparentamento all’animale e l’istituzione di pratiche di estraneità che ne giustificassero la riduzione in schiavitù o addirittura l’eliminazione per il “bene” e per l’“igiene” del corpo sociale, con l’equiparazione a ratti, insetti, parassiti. Se è vero che l’ideologia nazifascista ha compiutamente istituito che alcuni esseri umani potessero essere sospinti verso il Non-uomo (uomo-topo, uomo-insetto, uomo-parassita, uomo privo di volto che non si uccide ma si elimina) è altrettanto vero che la nostra filosofia è stata un continuo esercizio su ciò che l’Animale non è e non possiede, fino alla definizione dell’animale in Heidegger, che, “povero di mondo”, non “muore” ma “crepa”. [23]
È a partire dalla necessità di risalire questo cuore di tenebra della nostra cultura che possiamo leggere l’enciclica di Papa Francesco e la sua analisi della cultura dello scarto, reso paradigma del nostro modo di vita. Il nazismo, ha detto nel 2019 Papa Francesco, rivolgendosi ai membri dell’Associazione internazionale di diritto penale,«con le sue persecuzionicontro gli ebrei, gli zingari, le persone di orientamentoomossessuale, rappresenta il modello negativo per eccellenzadi cultura dello scarto». [24]
Nell’enciclica, lo scarto è mostrato come rifiuto, resto del nostro consumo, ciò che va ad alimentare le enormi discariche che in tutto il pianeta stabiliscono violente differenze sia tra le persone sia tra i luoghi da esse abitati, disegnando le periferie delle città e dei continenti. Scarto è poi quello prodotto dall’industria, dalle lavorazioni trasformative, dall’estrattivismo, da un’economia lineare che prende tutto ciò che può dalla terra e dalla natura senza restituirlo. Scarto, infine, è quello che riguarda gli esseri umani. La storia ci dimostra che nel momento in cui categorie di esseri umani – poveri, disabili, “asociali” – vengono visti come scarto, l’eccedenza viene governata nel senso di una legittimazione della scomparsa. Nelle democrazie, l’eccedenza si declina come un essere messi al margine, o isolati, contenuti nei luoghi delle istituzioni totali – carceri, ospedali psichiatrici, centri per il rimpatrio – quando non silenziosamente abbandonati, come nel caso dei migranti che tentano di attraversare il mare. 
Di vite di scarto aveva già parlato Zygmunt Bauman – non a caso testimone e vittima del nazifascismo e dello stalinismo – a proposito di quegli individui che, nella modernità, non si adattano alla forma progettata né possono esservi adattati. [25]

Tornare a san Francesco nell’era della tecnoscienza

«"Laudato si’, mi’ Signore”, cantava san Francesco d’Assisi». [26] È così che inizia l’enciclica. Eppure le implicazioni della sua apertura al vivente sono forse il contenuto che più fatica ad essere accolto nelle parole del Papa, ciò che maggiormente cozza con la nostra difficoltà di dirci animali e natura. Il dialogo di san Francesco con le creature è ancora messo in ombra, è ancora difficile da accogliere, non solo nella sua connotazione mistica e contemplativa ma anche nella sua verità scientifica. Secondo l’“ipotesi Gaia”, formulata da James Lovelock e Lynn Margulis negli anni Sessanta, sono gli animali, le piante e i batteri ad aver trasformato, nel corso di 3-4 miliardi di anni, le loro stesse condizioni di esistenza e plasmato quello che chiamiamo ambiente, ed è solo nella convivenza e nell’equilibrio che può esplicarsi il nesso tra i viventi e gli elementi fisici – come l’aria che respiriamo, l’ossigeno prodotto da piante e batteri – che rende possibile l’abitabilità del pianeta. Gaia è un essere collettivo, in cui umani e altri viventi terrestri trovano le proprie condizioni di coabitazione e coesistenza. 
Non è una bizzarria che il Papa abbia voluto, a breve distanza dalla pubblicazione dell’enciclica, l’8 dicembre 2015, per l’apertura del Giubileo, proiettare su San Pietro e sulla cupola del Bernini immagini di animali selvaggi, in una lode al creato. Enormi tucani, tigri, scimmie: volti, sguardi, immagini e suoni che taluni hanno trovato disturbanti e altri hanno giudicato una profanazione. Uno scandalo, sebbene messo tra parentesi, come una sconvenienza da cui distogliere lo sguardo, che rimanda a quello provocato dalla pubblicazione dell’Origine delle specie, in cui Darwin dimostrò la nostra parentela con la scimmia, perché, non diversamente da un secolo e mezzo fa, continuiamo a immaginarci nati sull’Acropoli, come Atena, già adulta e armata, nasce dal cervello di Zeus.
Come una linea tracciata e sempre più distinguibile, tuttavia, cinque anni dopo, nel settembre 2020, in piena pandemia, il Papa tornò a parlare della nostra famiglia comune nel messaggio per la celebrazione della Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato, con la quale iniziava il “Tempo del creato”, destinato a concludersi il 4 ottobre nel ricordo di san Francesco d’Assisi. «Esistiamo solo attraverso le relazioni: con Dio creatore, con i fratelli e le sorelle in quanto membri di una famiglia comune, e con tutte le creature che abitano la nostra stessa casa. […] Abbiamo bisogno di risanare queste relazioni danneggiate, che sono essenziali per sostenere noi stessi e l’intero tessuto della vita». [27]
Nel paradigma tecnocratico, che nell’enciclica viene definito «omogeneo e unidimensionale», «ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana, che tende a ignorare o a dimenticare la realtà stessa di ciò che ha dinanzi». [28] Per questo la crisi ecologica è vista come un appello a una profonda conversione interiore, che implica «l’amorevole consapevolezza di non essere separati dalle altre creature, ma di formare con gli altri esseri dell’universo una stupenda comunione universale». [29]
È allora un dono fruttifero, per i credenti e per i non credenti, ai quali pure l’enciclica si rivolge, ripensare per l’oggi le parole di Francesco d’Assisi: Laudato si', mi' Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento.
Perché tutto è connesso, e nulla ci è indifferente.



[1] Octavio Paz, La ricerca del presente, 1990, tr. it. di P. A. Mattiello, in Per amore del mondo. I discorsi politici dei premi Nobel per la letteratura, a cura di D. Padoan, Bompiani, Milano 2018.
[2] Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, sulla cura della casa comune, 24 maggio 2015, n- 22.
[3] Laudato si’, n. 115.
[4] Laudato si’, n. 89.
[5] Francesco,Omelia, Lampedusa, 8 luglio 2013.
[6] Pope Francis warns on 'piecemeal World War III', BBC, 13 settembre 2014.
[7] Francesco,Omelia, Lampedusa, 8 luglio 2013.
[8] Secondo il Global Assessment Report on Biodiversity and Ecosystem Servicesdell’IPBES, almeno un milione di specie viventi sono in via di estinzione, su una stima delle specie esistenti di circa 8 milioni. 
[9] Laudato si’, n. 24.
[10] Cfr. James Lovelock, Gaia. Nuove idee sull’ecologia, Bollati Boringhieri, Torino 1981, e Bruno Latour, La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, Meltemi, Roma 2020.
[11] Laudato si’, n. 93.
[12] «Dimentichiamo che noi stessi siamo terra. Il nostro stesso corpo è costituito dagli elementi del pianeta, la sua aria è quella che ci dà il respiro e la sua acqua ci vivifica e ristora». Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, § 2.
[13] Laudato si’, n 2.
[14] Laudato si’, n. 11.
[15] Bruno Latour, cit., p. 28. Corsivo dell’autore.
[16] Ulrich Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, a c. di W. Privitera, Carocci, Roma 2013, pp. 25-26.
[17] Yinon M. Bar-On, Rob Phillips, Ron Milo, The biomass distribution on Earth, Proceedings of the National Academy of Sciences, giugno 2018.
[18] A World at Risk. Annual report on global preparedness for health emergencies, Global Preparedness Monitoring Board, settembre 2019.
[19] Laudato si’, n. 116.
[20] Cfr. Jacques Derrida, Della grammatologia, a cura di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 1988, p. 143.
[21] Laudato si’, n. 11.
[22] Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, tr. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006, p. 62.
[23] Ivi, p. 202.
[24] Francesco,Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto penale, 15 novembre 2019, n. 3.
[25] Zygmunt Bauman, Vite di scarto, tr. it. di M. Astrologo, Laterza, Roma-Bari 2005.
[26] Laudato si’, n. 1.
[27] Francesco, Messaggio per la celebrazione dellaGiornata mondiale di preghiera per la cura del creato, 1 settembre 2020, n. 2.
[28] Laudato si’, n. 106.
[29] Laudato si’, n. 220.

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