La chimica come arte e come tecnologia

Giuseppe Del Re
Già ordinario di chimica fisica, Università Federico II, Napoli
2002

Oggi noi chiamiamo «arte» un’attività che cerca di realizzare qualcosa che “piace”, il cui valore estetico è generalmente indipendente dal suo possibile utilizzo. Ma originariamente non era così, come suggerisce ancora la parola «artigiano»: si chiamava arte l’attività del fabbricare qualcosa, che richiedeva abilità ed esperienza accumulata nel corso di anni. Un esempio che ancora rimane vivo è l’arte della ceramica, che ha prodotto anche dei veri capolavori, ma il cui intento primario consisteva nel produrre vasi, giare e recipienti di uso quotidiano. Una certa tecnica è poi necessaria anche nell’arte come l’intendiamo oggi: regole provenienti dalla tradizione, acquisizioni dovute all’esperienza, ecc. In questa prospettiva, una scienza sperimentale — il cui programma comprende la fabbricazione di oggetti diversi, a partire da uno stesso “materiale”, attuando le potenzialità di quest’ultimo, secondo un’idea che è nella mente dello scienziato — è arte tanto quanto quella che si occupa di produrre oggetti belli da guardare. Così come gli artigiani hanno saputo produrre oggetti esteticamente pregevoli, anche nelle teorie della scienza e nella chimica, in particolare, possiamo riconoscere una sorta di bellezza. In questo senso, la chimica è proprio un’arte: essa produce milioni di specie di molecole; è l’arte di costruire edifici di atomi secondo una sapiente e spesso assai difficile sequenza di procedure. La fisica ha scoperto e riprodotto le trasformazioni della materia che la natura compie nelle stelle, ma la chimica fa qualcosa di diverso: essa produce innumerevoli forme di materia che fino ad un dato momento solo la natura poteva realizzare, facendole diventare parte dell’ambiente della vita quotidiana. Ancor più, i chimici mettono insieme gli atomi e, operando in un normale laboratorio, mediante le regole della valenza chimica che applicano secondo ricette “misteriose”, ottengono le molecole più incredibili. Con gli elementi più insoliti, quali il renio, il palladio, il vanadio, il titanio, ecc., eguagliano o perfino sorpassano in bellezza molte delle più ricercate pietre preziose: topazi, rubini, ametiste, smeraldi..., che la natura produce direttamente. Acquisendo una simile arte del fabbricare molecole i chimici sono giunti a livelli molto elevati, fino a riprodurre non pochi aspetti di quelli delle molecole impiegate dalla natura negli esseri viventi. Questa caratteristica, che emula la natura a livello atomico con metodi scientifici, è forse unica nell’ambito delle scienze naturali. Non va però dimenticato che la “creatività” della chimica ha reso possibile anche lo sviluppo di alcuni degli ambiti più inquietanti delle manipolazioni biologiche. Operazioni chimiche possono alterare il codice genetico del DNA fino a generare in nome della scienza delle autentiche mostruosità.

John Dalton (1766-1844)
John Dalton (1766-1844)

La chimica si occupa dunque delle molecole, che sono degli oggetti dalla natura particolare, ed è stata così costretta, in qualche modo, a riscoprire una dimensione dimenticata della realtà sensibile: quella della complessità intesa come problema delle parti e del tutto. Le molecole vennero inizialmente definite come il prodotto ultimo di una suddivisione ripetuta, mediante operazioni fisiche, delle sostanze chimiche “pure”; dove per “operazioni fisiche” s’intendono quelle che comportano energie dell’ordine di quella che serve per far bollire l’acqua, e per sostanze “pure” quei materiali omogenei che non possono essere separati, con operazioni fisiche, in altri materiali omogenei. Di fatto, le molecole sono risultate così piccole da non poter essere osservate, neppure grazie all’ingrandimento dei più potenti microscopi che utilizzano la luce ordinaria (microscopi ottici). Così, alla condizione di non essere separabili con operazioni fisiche si è sostituita quella di essere strutture “stabili in condizioni ordinarie”, ma la definizione è rimasta sostanzialmente la stessa. Ciò che è emerso, infine, è il fatto che queste minutissime parti di una sostanza chimica hanno una proprietà fondamentale che le caratterizza, cioè, appunto, la loro “struttura”.

In linea di principio la possibilità di esistenza e le proprietà delle molecole possono essere “predette”, nei loro aspetti quantitativi a partire dalle proprietà delle particelle costituenti (atomi, ovvero nuclei ed elettroni di opportuno numero); questo ha spinto a ritenere che le molecole non siano altro che un insieme di nuclei ed elettroni e che, quindi, il riduzionismo fisicalista sia in fondo corretto. Ma la situazione non è così semplice. L’idea che le molecole siano degli aggregati di atomi fu introdotta, com’è noto, da John Dalton (1766-1844) nel 1808 e per i successivi cinquant’anni si pensò che fosse sufficiente richiedere che tali aggregati obbedissero alle leggi allora conosciute come «leggi delle proporzioni», nonostante che Amedeo Avogadro (1776-1856) avesse scoperto nel 1811 che, in molti casi, si trattava di particelle dotate di individualità, capaci di permanere da sole nel vuoto. In questa prospettiva Dalton non era particolarmente interessato alla possibilità che gli atomi degli elementi costituenti fossero disposti in un certo ordine o secondo una certa configurazione geometrica. Ma cinquant’anni dopo, la nascita della chimica organica costrinse a fare un passo in più.

Amedeo Avogadro (1776-1856)
Amedeo Avogadro (1776-1856)

Fu il chimico organico Friedrich August von Kekulé (1829-1896) a scoprire la “struttura” molecolare: la molecola è analoga a un insieme di sferette (gli atomi) collegate secondo una configurazione caratteristica da delle asticciole (i legami), il cui numero è proprio di ciascun tipo di atomo (la valenza) e la cui lunghezza dipende dalla coppia di atomi in questione. L’analogia con il modello a “sferette e asticciole”, naturalmente, non è strettissima: la sua principale conseguenza sta nel consentire di attribuire ad una molecola delle caratteristiche che corrispondono a quelle della struttura del suo modello; così che un diverso modo di collegare tra loro gli atomi, e una loro diversa disposizione nello spazio, corrispondono a molecole diverse e quindi a sostanze differenti (isomeri). Sembra evidente, perciò, che la chimica ci offre una visione completamente nuova della materia, introducendo fatti, regole e concetti del tutto nuovi che non si possono ricavare come semplici deduzioni dalle equazioni della fisica (anche se queste le contengono, per così dire, in potenza).

La chimica non presenta semplicemente le caratteristiche di un’arte, ma anche quelle di una vera e propria tecnologia in senso moderno, con diversi tipi di ricadute che, inevitabilmente, presentano aspetti positivi come aspetti negativi. Possiamo menzionarne qualcuno. Se non vi fossero fertilizzanti chimici e pesticidi l’intera agricoltura ripiomberebbe ai livelli di cento anni fa; molti prodotti come i lubrificanti artificiali e la maggior parte dei medicinali non sarebbero disponibili; le stesse comunicazioni e la distribuzione dell’energia ne risentirebbero irreparabilmente non disponendo dei materiali necessari per i cavi elettrici, i magneti, i dispositivi elettronici, e non sarebbe possibile la purificazione di sostanze naturali indispensabili alla medicina e alla stessa sopravvivenza. D’altro canto, l’uso irresponsabile di certe sostanze chimiche, a cominciare dal DDT, ha prodotto effetti negativi gravi come l’inquinamento dell’ambiente, la produzione di esplosivi, di gas venefici e armi chimiche, di droghe. Ciò ha spesso condotto i mass media a fornire una visione di questa disciplina scientifica nella quale l’aggettivo «chimico» è divenuto sinonimo di «innaturale», pericoloso per la salute e per l’ambiente. In realtà, oltre ai vantaggi già ricordati, la chimica è anche necessaria per porre rimedio a molti danni che l’uomo può causare all’ambiente e a se stesso, fino al restauro di dipinti e di monumenti, o alla produzione di cosmetici.

Friedrich August von Kekulé (1829-1896)
Friedrich August von Kekulé (1829-1896)

La chimica, come altri ambiti della scienza, pare trovarsi dunque di fronte ad un’aporia, ad una situazione contraddittoria: la simultanea possibilità di dare origine a qualcosa di buono o di cattivo. Si tratta di una problematica che rientra propriamente nell’ambito di una etica del lavoro scientifico e, più in generale, in quello che alcuni chiamano umanesimo scientifico. Ci limitiamo a segnalare che tale ambivalenza rimanda sempre alla responsabilità dello scienziato, la cui attività non può considerarsi impersonale o neutra: una responsabilità di fronte alla comunità scientifica, di fronte alla società, di fronte a Dio. È, in fondo, come se il Creatore avesse voluto, per qualche ragione, che gli uomini, a partire da preciso momento storico, scoprissero le leggi che regolano le invisibili trasformazioni che avvengono nella materia. È come se, grazie a ciò, l’uomo avesse ricevuto il potere di “imitare” il Creatore, giungendo a conoscere ed utilizzare con successo quanto gli antichi (forse non a torto) consideravano essere le ricette ed i procedimenti segreti di un Divino Artefice. Ma il Creatore non ha posto limiti — nel rispetto della nostra libertà — all’uso dei poteri che la scienza ora mette a nostra disposizione: la capacità di “imitarlo” reca con sé la responsabilità di compiere il bene e di evitare il male.    

 

G. Del Re, Chimica, in Dizionario interdisiciplinare di scienza e fede, a cura di G. Tanzella-Nitti e A. Strumìa, Urbaniana University Press - Città Nuova, Roma 2002, pp. 228-230.