Fra i personaggi che compaiono nel Nuovo Testamento, i Magi sono senza dubbio fra i più singolari. Ce ne parla il vangelo di Matteo, all’inizio del capitolo 2. Ecco il testo giunto fino a noi, redatto verso l’anno 60 o 70 del I secolo: «Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: “Dov'è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”» (Matteo 2,1-2). Il termine greco impiegato per indicarli è generico, Magoi, plurale di magos. L’assonanza con l’italiano “mago” potrebbe subito far pensare a dei prestigiatori, degli illusionisti, esperti in trucchi di qualche tipo. In realtà due elementi del testo del vangelo di Matteo ci aiutano a capire meglio di chi potrebbe trattarsi: sono personaggi che vengono da Oriente e sono osservatori del cielo. La loro attività, dunque, non aveva a che fare con giochi di prestigio e conigli nel cilindro, ma con l’osservazione dei corpi celesti. Alcuni autori classici, come Erodoto, impiegano il termine magoi per indicare sacerdoti astrologi; altri autori lo usano come sinonimo di saggi. Ma allora, qualcuno potrebbe subito chiedersi, stiamo parlando di astrologia o di astronomia? E i Magi di cui parla Matteo, da quale parte dovremmo collocarli? Oltre a ciò, provo anch’io a chiedermi: cosa avrebbero da dirci, oggi, questi personaggi, e perché sottolineare la loro presenza nella Bibbia? Ma andiamo con ordine.
L’osservazione del cielo, che dà origine alla parola “astrologia”, vale a dire “discorso sugli astri”, possedeva sostanzialmente due tradizioni. Una più antica, di origine mesopotamica, ci ha lasciasto come documenti tavolette e incisioni a partire dal II milennio avanti Cristo. Studiosi persiani del cielo realizzavano misure di posizione dei corpi celesti per la predizione delle eclissi e delle congiunzioni planetarie, per il computo del calendario e delle stagioni. Nel cielo essi vedevano il “riflesso” di ciò che accadeva sulla terra. Dunque l’osservazione del cielo poteva servire, nella cultura del tempo, come elemento per predire eventi terrestri di certa importanza. Il clima di queste pratica era sacrale – gli astrologi avevano infatti compiti di culto sacerdotale – ma non necessariamante idolatrico. La seconda tradizione, meno antica, si era invece sviluppata in ambiente greco solo alcuni secoli prima di Cristo e proiettava nel cielo i personaggi e le vicende della mitologia pagana. Si erano così dati nomi alle costellazioni, associandole ad eroi, guerrieri, animali e altre figure simboliche. Gli astrologi persiani, a differenza di quanto fecero assai più tardi i poeti greci, non erano interessati alle forme delle costellazioni, ma solo alle posizioni delle singole stelle. Ancora oggi i nomi delle stelle più luminose derivano infatti dalla lingua araba (Aldebaran, Betelgeuse, Altair, ecc.), mentre i nomi delle costellazioni sono eroi mitologici greci e latini (Ercole, Perseo, Andromeda, ecc.). Per i greci e i latini i personaggi mitologici proiettati nel cielo influivano sulla vita umana, determinandola. Di questa visione delle cose giunge a noi oggi una eco nella pratica immaginifica degli “oroscopi”: le costellazioni e i pianeti ci diranno se saremo fortunati oppure se la settimana che comincia sarà un disastro, se ci conviene dichiararci all’amata o se è meglio aspettare ancora un po’, se converrà giocare al lotto o lasciar perdere, se troveremo lavoro oppure lo perderemo…
I “Magi” di cui parla il vangelo di Matteo, dunque, appartengono alla prima tradizione. Essi vedono il cielo come riflesso delle vicenede terrene: la loro attività è osservare le posizioni delle stelle e dei pianeti, non scrivere oroscopi. I primi autori cristiani, i Padri della Chiesa, criticarono il secondo modo di praticare l’astrologia, perché svalutava la libertà degli esseri umani, ritenendoli vittime del fato e non più padroni dei propri atti. Ciò toglieva responsabilità all’agire umano, cosa che non poteva essere accettata da chi, come i cristiani, attribuiva valore morale alle azioni personali, perché frutto di libertà. I cristiani non ebbero nulla contro il primo modo di intendere la tradizione astrologica, quella più antica, che darà col tempo origine alla contemporanea astronomia, la cui nascita remota gli storici collocano appunto a Babilonia. Dimostrazione che la primitiva comunità cristiana inglobò senza problemi lo studio scientifico del cielo è proprio il fatto che i Magi finirono nei vangeli…
Fu la storia dei Magi, come riportata da Matteo, un caso di personaggi mossi dal desiderio di conoscere? Ritengo di sì. Non sappiamo quanti fossero e se tutti provenissero dalla stessa regione. La narrazione evangelica è sobria ed essenziale. Vogliono sapere dove è nato il “re dei Giudei”. Vogliono conoscerlo, perché sono persuasi che ciò sia davvero importante per loro, almeno tanto da giustifiare un viaggio da oriente, dalla Persia, forse da Babilonia, fino a Gersualemme. Non meno di due mesi di viaggio, forse tre. La decisione di partire era stata dettata dall’osservazione del cielo, assai probabilmente dalla previsione della congiunzione di pianeti maggiori e non solo dall’osservazione di una stella; il termine greco aster – “abbiamo visto spuntare la sua stella”, dicono – è infatti sufficientemente generico. Conoscono il cielo e i suoi moti, ma vogliono conoscere qualcos’altro. Qualcosa o qualcuno più importante del cielo, qualcuno che il cielo annuncia e indica. Partendo da ciò che sanno si dirigono verso qualcosa che non sanno. Lo fanno con speranza di trovare, perché hanno già preso con sé dei regali, doni preziosi per questo re appena nato. Sembrano certi sono di poterlo rintracciare, vedere, forse prendere in braccio, e magari scherzarci un po’, come si fa con i bambini molto piccoli. Il vangelo di Matteo continua così la narrazione. Erode, re al momento in carica, prende l’iniziativa: «Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: “A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l'ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”» (Matteo 2,4-6). I Magi ascoltano. Raccolgono informazioni da altri studiosi come loro, studiosi delle Scritture degli Ebrei. Tra esperti sembrano capirsi. È stata loro indicata una direzione, sud, sud-ovest, Betlemme, meno di due ore di viaggio. Astraendo per un momento dall’atteggiamento di Erode, anch’egli interessato al bambino ma con altre intenzioni, crudeli e tragiche, proseguiamo il racconto. «Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro,incenso e mirra» (Matteo 2,9-11).
In questi Magi, fatte le debite proporzioni, qualcuno potrà forse riconoscere qualcosa di sé. Partendo dallo studio della natura essi sanno entusiasmarsi a qualcosa di grande. Quello che comprendono (e in parte non vedono) è sufficiente a motivare scelte di vita importanti. Lo fanno insieme, provenendo assai probabilmente da luoghi differenti, grazie a quella oggettività e condivisibilità che lo studio della natura, come sappiamo, assicura a ricercatori diversi, di lingue diverse, in situazioni diverse. Lo studio li accomuna, li riunisce, li sostiene a vicenda. Ci mettono tutto ciò che la conoscenza del tempo poteva loro assicurare, ma hanno anche l’umiltà di non ritenerla esauriente per raggiunere la meta. Hanno bisogno di ulteriori informazioni. Nel loro itinerario razionale hanno percorso tutto il cammino assicurato dal metodo a loro disposizione, quello delle scienze dell’epoca. Lo hanno percorso fino in fondo. Giunge però il momento di chiedere, di farsi orientare: “Dove nascerà il bambino, il Re dei Giudei, la cui stella abbiamo visto sorgere?”, domandano agli esperti del popolo di Israele. Se paragonassimo le conoscenze dei Magi a quelle della scienza e della filosofia, è un po’ come se queste, dopo aver compiuto il loro corso, si fermassero per chiedere una luce ulteriore alla teologia, qui rappresentata dagli studiosi delle Scritture a Gerusalemme. Ottenuta questa luce, riprendono il loro cammino. È un po’ come se la fede di cui hanno bisogno per rimettersi in marcia non interrompesse il corso della ragione, ma piuttosto le conferisse nuovo vigore, dando loro nuova energia.
Questi uomini della Bibbia, di cui il vangelo di Matteo ci parla, ci incoraggiano in fondo a cercare con sincerità la verità, a percorrere fino in fondo, con competenza, il cammino delle nostre discipline. Ma essi ci ricordano anche che la razionalità scientifica resta aperta, cioè disponibile ad ulteriori specificazioni, capaci di orientare la ricerca nelle sue motivazioni più profonde. La narrazione evangelica prosegue e ci fa sapere che i Magi trovano il Bambino fra le braccia di sua madre, in una situazione inattesa, non certo quella che ci si poteva aspettare andando a trovare un re o il figlio di un re. Non vi sembra che il cammino della conoscenza richieda qui una notevole dose di umiltà? È l’umiltà di accettare qualcosa che essi non si aspettavano affatto: semplicità, scenari quotidiani e ordinari, povertà. Il trono di un re sono i panni di un bambino, forse una mangiatoia per gli animali... È un po’ come se il cammino della conoscenza debba terminare nello stupore, nel silenzio. Quello fu per i Magi il momento di tacere, di adorare. Anche lo studio e la ricerca di cui noi siamo protagonisti possono sfociare in contemplazione silenziosa. Contemplazione di fronte alla natura come opera di Dio, di fronte all’essere umano come immagine di Dio, di fronte alla propria coscienza, come specchio e voce del Creatore. Ogni vera ricerca può terminare, come accaduto a questi uomini della Bibbia, in adorazione.