Libro dell’Esodo (3,1-15)
La pagina del Libro dell’Esodo che qui presentiamo è una delle più solenni di tutta la Bibbia. All’inizio della storia di liberazione del popolo ebreo dall’Egitto – popolo “creato” da Dio perché custodisse il monoteismo e preparasse l’Incarnazione del Figlio – Dio rivela il suo nome a Mosè. Non è un nome “comune” per indicare Dio, come tanti che il testo sacro proponeva – il Signore, l’Altissimo, l’Onnipotente – né il nome comune mutuato dal linguaggio religioso della vicina Mesopotamia – Elohim – che il testo biblico spesso ospita. Si tratta, invece, di un nome “proprio”, capace di identificare il Dio di Israele. Comunicare il proprio nome esprime la volontà di instaurare con l’uomo una relazione di amicizia, lasciandosi nominare per entrare in rapporto con lui. “Io sono Colui che sono”, “Io sono”, traduce il testo italiano, leggendo nel nome Jahvè la radice del verbo «essere» (hajah, in ebraico), che rimanda all'idea di Colui che possiede l'Essere in pienezza, Qualcuno di cui si può dire, come cosa principale e più essenziale, che è. L’origine semita, che privilegia le azioni sui concetti astratti, suggerisce però di comprendere il verbo «essere» anche nella sua dimensione dinamica, a voler significare che Dio accompagna l’uomo, è presente accanto a lui e in suo favore: «Io sono qui, Io sono colui che è qui, per te». A partire da questa straordinaria esperienza, Mosè viene inviato al suo popolo per liberarlo. Comincia qui l’esodo di questo popolo verso la terra promessa, immagine del cammino di ogni essere umano e del suo peregrinare in mezzo alle vicende della vita, sostenuto dalla fede che quanto Dio un giorno ha promesso, troverà il suo compimento.
Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l'Oreb. L'angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: "Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?". Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: "Mosè, Mosè!". Rispose: "Eccomi!". Riprese: "Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!". E disse: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe". Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio.
Il Signore disse: "Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell'Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l'Ittita, l'Amorreo, il Perizzita, l'Eveo, il Gebuseo. Ecco, il grido degli Israeliti è arrivato fino a me e io stesso ho visto come gli Egiziani li opprimono. Perciò va'! Io ti mando dal faraone. Fa' uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti!". Mosè disse a Dio: "Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti dall'Egitto?". Rispose: "Io sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall'Egitto, servirete Dio su questo monte".
Mosè disse a Dio: "Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro: "Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi". Mi diranno: "Qual è il suo nome?". E io che cosa risponderò loro?". Dio disse a Mosè: "Io sono colui che sono!". E aggiunse: "Così dirai agli Israeliti: "Io-Sono mi ha mandato a voi"". Dio disse ancora a Mosè: "Dirai agli Israeliti: "Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi". Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione.
Libro del Deuteronomio (6,4-9.20-24)
È questo l’inizio della preghiera ebraica per eccellenza, detta Shema, “ascolta!”. Essa esprime il chiaro monoteismo al quale il popolo eletto è stato educato e che ha la responsabilità di trasmettere: “Il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo”. La fede del popolo ebraico nel suo Dio è sostenuta dalla memoria degli interventi di Dio in suo favore. L’essere umano è chiamato a ricordare, a non dimenticare, trasmettendo di generazione in generazione quanto ricevuto: le promesse, i comandamenti, i segni della provvidenza divina. Senza memoria non può esserci trasmissione della fede. L’amore e la fedeltà si nutrono di memoria, del ricordo dell’amato, delle parole che Egli ha pronunciato e che non si vogliono più dimenticare. Parole da ripetere ai figli, da scrivere sugli stipiti della porta, da portare incise nel cuore. Parole capaci di procurare felicità e stabilità. Il Dio di Israele, rivelatosi in pienezza in Gesù Cristo, è un Dio il cui ricordo va alimentato. La dispersione, la superficialità, la frettolosità o la distrazione si oppongono a questa memoria, rischiano di perderla. Il rapporto con Dio comincia dall’ascolto di una Parola, Shema Israel, ed è favorito da tutto ciò che incoraggia e rende possibile questo ascolto: silenzio, raccoglimento, ricordo, interiorità.
Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte.
[…]
Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: "Che cosa significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore, nostro Dio, vi ha dato?", tu risponderai a tuo figlio: "Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall'Egitto con mano potente. Il Signore operò sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi e terribili contro l'Egitto, contro il faraone e contro tutta la sua casa. Ci fece uscire di là per condurci nella terra che aveva giurato ai nostri padri di darci. Allora il Signore ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo il Signore, nostro Dio, così da essere sempre felici ed essere conservati in vita, come appunto siamo oggi.
Libro della Sapienza (13,1-9)
Scritto in lingua greca, non incluso nella Bibbia ebraica ma accolto in quella cristiana, il Libro della Sapienza è in certo modo una sintesi fra pensiero filosofico e senso religioso. Il capitolo 13, uno dei più noti, biasima l’idolatria di coloro che adoravano le creature – il fuoco, il vento, l’aria sottile, l’acqua, gli astri – perché, attratti dalla loro bellezza, non furono in grado di risalire fino all’unico Dio. Avrebbero potuto farlo, prosegue il testo, perché “dalla bellezza e grandezza delle creature, per analogia si riconosce l’autore”. Il termine qui usato, “analogia”, è tratto da un contesto scientifico-filosofico e vuol dire “proporzione”, “somiglianza”. Vivendo nell’ignoranza di Dio, dalle cose create gli uomini non furono in grado di riconoscere “Colui che è”, espressione che riprende in lingua greca il nome proprio di Dio rivelato a Mosè nel libro dell’Esodo. Questa pagina della Scrittura ha avuto un grande influsso nella storia del pensiero, perché pare giustificare l’esistenza di cammini filosofici che, partendo dalle creature, siano in grado di “dimostrare” l’esistenza di Dio. In realtà, il testo può essere interpretato sia a livello filosofico, come capacità di dedurre la Causa partendo dagli effetti, sia a livello religioso, come itinerario estetico, morale, esperienziale, che fa intuire l’esistenza del suo Autore quando si osserva un’opera d’arte dalla quale ci si sente attratti.
Davvero vani per natura tutti gli uomini
che vivevano nell'ignoranza di Dio,
e dai beni visibili non furono capaci di riconoscere colui che è,
né, esaminandone le opere, riconobbero l'artefice.
Ma o il fuoco o il vento o l'aria veloce,
la volta stellata o l'acqua impetuosa o le luci del cielo
essi considerarono come dèi, reggitori del mondo.
Se, affascinati dalla loro bellezza, li hanno presi per dèi,
pensino quanto è superiore il loro sovrano,
perché li ha creati colui che è principio e autore della bellezza.
Se sono colpiti da stupore per la loro potenza ed energia,
pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati.
Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature
per analogia si contempla il loro autore.
Tuttavia per costoro leggero è il rimprovero,
perché essi facilmente s'ingannano
cercando Dio e volendolo trovare.
Vivendo in mezzo alle sue opere, ricercano con cura
e si lasciano prendere dall'apparenza
perché le cose viste sono belle.
Neppure costoro però sono scusabili,
perché, se sono riusciti a conoscere tanto
da poter esplorare il mondo,
come mai non ne hanno trovato più facilmente il sovrano?
Salmo 139 (1-18.23-24)
L’immagine di Dio che emerge dai versetti del salmo 139 è altamente suggestiva. È il Creatore che conosce le sue creature in modo profondo, nel loro intimo, perché le ha volute una per una chiamandole all’esistenza. Nulla è nascosto agli occhi di Dio; non perché Egli sia un controllore, ma in quanto abbraccia con il suo sguardo ogni cosa alla quale Egli stesso ha dato la vita. Trova qui spazio l’attributo divino chiamato “onniscenza”, ovvero la capacità di tutto conoscere, senza limitazione alcuna. L’immagine di Dio trascende la natura, il tempo, la storia: “se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti”. Dio è in ogni luogo non come un corpo fra gli altri, ma come Colui che tutto contiene e comprende, dal quale ogni cosa proviene e discende. Di particolare importanza il rapporto fra Dio e la creatura umana: “Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre… Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro; i miei giorni erano fissati, quando ancora non ne esisteva uno”. Dio conosce la coscienza e le intenzioni più intime di ogni essere umano: di fronte a Lui non si può mentire. Egli, dice sant’Agostino, è più intimo a noi di quanto noi lo siamo a noi stessi. Dio, tuttavia, non è rappresentabile come un occhio che insegue e scruta, ma piuttosto come un cuore che segue e ama. L’autore del salmo chiede a Dio la rettitudine del cuore, l’aiuto ad essere guidato sulla via della vita.
Al maestro del coro. Di Davide. Salmo.
Signore, tu mi scruti e mi conosci,
tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo,
intendi da lontano i miei pensieri,
osservi il mio cammino e il mio riposo,
ti sono note tutte le mie vie.
La mia parola non è ancora sulla lingua
ed ecco, Signore, già la conosci tutta.
Alle spalle e di fronte mi circondi
e poni su di me la tua mano.
Meravigliosa per me la tua conoscenza,
troppo alta, per me inaccessibile.
Dove andare lontano dal tuo spirito?
Dove fuggire dalla tua presenza?
Se salgo in cielo, là tu sei;
se scendo negli inferi, eccoti.
Se prendo le ali dell'aurora
per abitare all'estremità del mare,
anche là mi guida la tua mano
e mi afferra la tua destra.
Se dico: "Almeno le tenebre mi avvolgano
e la luce intorno a me sia notte",
nemmeno le tenebre per te sono tenebre
e la notte è luminosa come il giorno;
per te le tenebre sono come luce.
Sei tu che hai formato i miei reni
e mi hai tessuto nel grembo di mia madre.
Io ti rendo grazie:
hai fatto di me una meraviglia stupenda;
meravigliose sono le tue opere,
le riconosce pienamente l'anima mia.
Non ti erano nascoste le mie ossa
quando venivo formato nel segreto,
ricamato nelle profondità della terra.
Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi;
erano tutti scritti nel tuo libro i giorni che furono fissati
quando ancora non ne esisteva uno.
Quanto profondi per me i tuoi pensieri,
quanto grande il loro numero, o Dio!
Se volessi contarli, sono più della sabbia.
Mi risveglio e sono ancora con te.[…]
Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore,
provami e conosci i miei pensieri;
vedi se percorro una via di doloree guidami per una via di eternità.
Vangelo di Matteo (6,1-34)
Pagina centrale del vangelo secondo Matteo, il “Discorso della montagna”, che si snoda dal capitolo 5 fino al capitolo 8, espone gli insegnamenti di Gesù di Nazaret, il quale con singolare autorità spiega come l’uomo debba vivere il suo rapporto con Dio. Nei versetti qui presentati, Gesù esorta alla sincerità del cuore, ad operare di fronte a Dio e non di fronte al giudizio degli uomini, a tendere ai beni spirituali e relazionali e non a quelli materiali e corruttibili. Con la preghiera del “Padre nostro” egli consegna agli uomini un’immagine paterna e provvidente di Dio. Anche se questa preghiera riprende un modo di parlare di Dio comune ad altre tradizioni religiose, essa delinea i tratti originali di una paternità santa, trascendente, ricca di tenerezza. L’uomo è invitato a guardare la natura, il modo con cui Dio si prende cura degli uccelli del cielo e dei gigli del campo; viene esortato a non porre la sua preoccupazione e il suo “affanno” nei beni primari, perché questi gli verranno concessi da Dio. Questo insegnamento potrebbe, a prima vista, sorprendere, poiché tante persone sulla terra mancano proprio di questi beni fondamentali. Eppure, l’invito di Gesù a “cercare prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia”, perché “tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”, chiarisce che quando gli uomini vivono secondo giustizia e carità, come figli del Regno, questi beni non mancheranno. Sono gli uomini stessi, riconoscendosi tutti fratelli e figli del Padre che è nei cieli, a divenire provvidenza per i loro fratelli, impiegando con saggezza le risorse della terra.
State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c'è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, quando fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, mentre tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate.
Voi dunque pregate così:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
e non abbandonarci alla tentazione,
ma liberaci dal male.
Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.
E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un'aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano. Perché, dov'è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore.
La lampada del corpo è l'occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!
Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza.
Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: "Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?". Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena.
Atti degli Apostoli (17,16-34)
Paolo di Tarso, conquistato dalla conoscenza di Cristo Gesù, si trova ad Atene, durante il suo secondo viaggio apostolico, fra gli anni 49 e 52. Qui viene invitato all’Areopago, collina dove si tenevano udienze e giudizi, perché esponesse loro la dottrina sul “nuovo culto” a Gesù di Nazaret, sorto in Palestina. In presenza di filosofi stoici ed epicurei, Paolo vi sviluppa un discorso di grande forza retorica, cominciando a condurre gradatamente gli interlocutori verso il riconoscimento di un unico e vero Dio, trascendente; egli cerca così di distogliere i presenti dal culto idolatrico degli dèi del politeismo. A questo scopo Paolo si serve dell’espediente della statua eretta al “dio ignoto”, che gli ateniesi avevano costruito per evitare di tralasciare inconsapevolmente l’adorazione di qualche divinità importante. Questo dio ignoto, che voi adorate senza conoscere, afferma Paolo, io adesso vi annuncio. In questo modo egli prende le distanze dall’idolatria, presentando il dio ignoto come il dio “non fatto da mani d’uomo”, ovvero il creatore che ha fatto ogni cosa, che dà a tutti il respiro e la vita. Paolo aggrega così l’uditorio, sembra con qualche successo, verso il riconoscimento dell’unico e vero Dio, e lo fa mediante un riferimento di tipo cosmologico, ovvero invitando a guardare il creato. Tuttavia, al momento di annunciare la morte di Gesù per i peccati degli uomini e la sua risurrezione dai morti, i presenti manifestano forti perplessità e cambiano atteggiamento, prendendo le distanze da Paolo. Esempio della predicazione cristiana al mondo greco-romano, il discorso all’Areopago di Paolo di Tarso mostra che la strategia seguita dai cristiani fu quella di legare prima di tutto a Dio Creatore, per poi annunciare che Dio è venuto incontro agli uomini, in Cristo Gesù. Quest’ultimo snodo è ciò che scandalizza, in passato come nel presente, ma è l’approdo al quale la predicazione apostolica necessariamente giunge, assumendone tutte le conseguenze.
Paolo, mentre li attendeva ad Atene, fremeva dentro di sé al vedere la città piena di idoli. Frattanto, nella sinagoga, discuteva con i Giudei e con i pagani credenti in Dio e ogni giorno, sulla piazza principale, con quelli che incontrava. Anche certi filosofi epicurei e stoici discutevano con lui, e alcuni dicevano: "Che cosa mai vorrà dire questo ciarlatano?". E altri: "Sembra essere uno che annuncia divinità straniere", poiché annunciava Gesù e la risurrezione. Lo presero allora con sé, lo condussero all'Areòpago e dissero: "Possiamo sapere qual è questa nuova dottrina che tu annunci? Cose strane, infatti, tu ci metti negli orecchi; desideriamo perciò sapere di che cosa si tratta". Tutti gli Ateniesi, infatti, e gli stranieri là residenti non avevano passatempo più gradito che parlare o ascoltare le ultime novità.
Allora Paolo, in piedi in mezzo all'Areòpago, disse:
"Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi. Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l'iscrizione: "A un dio ignoto". Ebbene, colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d'uomo né dalle mani dell'uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa: è lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro spazio perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: "Perché di lui anche noi siamo stirpe".
Poiché dunque siamo stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all'oro, all'argento e alla pietra, che porti l'impronta dell'arte e dell'ingegno umano. Ora Dio, passando sopra ai tempi dell'ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto si convertano, perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti".
Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano: "Su questo ti sentiremo un'altra volta". Così Paolo si allontanò da loro. Ma alcuni si unirono a lui e divennero credenti: fra questi anche Dionigi, membro dell'Areòpago, una donna di nome Dàmaris e altri con loro.
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