Gesù di Nazaret, nostro contemporaneo

Søren Kierkegaard
1850
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Søren Kierkegaard (1813 – 1855)

Le pagine che qui offriamo sono tratte dall’opera Esercizio del cristianesimo (1850), firmata dal Søren Kierkegaard con lo pseudonimo di Anti-Climacus. In questo scritto il filosofo danese – che aveva condotto studi teologici con la prospettiva, poi non realizzata, di diventare pastore luterano – prova a delineare un rapporto con Gesù di Nazaret non riducibile alle abitudini e alle convenzioni che riconosce nella Chiesa protestante del proprio tempo. Per il cristiano, Gesù non è un personaggio storico del passato ma è sempre contemporaneo, ovvero è una persona viva, la cui conoscenza si gioca in un incontro a tu per tu. Rapportandosi a Cristo come a un contemporaneo, emerge il carattere non rassicurante e anzi la "pazzia" del diventare suoi discepoli: seguire Gesù di Nazaret non è un percorso rassicurante né un passatempo per persone per bene ma un cammino entusiasmante, al di fuori delle nostre ristrette sicurezze.

E ora parliamo di lui senza reticenze, esattamente come ne parlavano i contemporanei e come si parla di un contemporaneo, di un uomo simile a noi che incontriamo per strada e del quale sappiamo dove abita e a quale piano; di cui conosciamo il nome, la situazione economica, i genitori, la famiglia, l’aspetto, l’abito, la gente che frequenta, «un uomo del tutto simile agli altri e nel quale non si vede nulla di straordinario». In breve, parliamo di lui come di un contemporaneo sul conto del quale non si fa alcun rilievo particolare. Infatti, nella situazione della contemporaneità con tutte quelle migliaia e migliaia di uomini reali, non c’è posto per una differenza come sarebbe quella di essere ricordati per tutti i secoli e quella di essere un garzone reale di bottega «che l’uno vale tanto quanto l’altro». Dunque cerchiamo di parlare di lui come i contemporanei parlano di un contemporaneo. So bene quel che faccio e credimi: quella specie di pazzia erudita, esperta e chiacchierona, della storia universale in virtù della quale si parla sempre di Cristo con una certa venerazione, perché si è riusciti a sapere dalla storia quella certa cosa e si è udita quella tal’altra cosa, ch’egli dovette essere qualche cosa di grande, codesta venerazione non vale un baiocco: è mancanza di pensiero, è ipocrisia e in un certo senso bestemmia. Infatti è un bestemmiare Dio il venerare con leggerezza colui nel quale bisogna o credere o scandalizzarsi.

Si tratta di Gesù Cristo nel suo abbassamento, dell’umile uomo nato da una vergine disprezzata e suo padre è un falegname. Ma, è vero, egli viene al mondo in circostanze che devono attirare su di lui un’attenzione del tutto particolare. Il piccolo popolo al quale egli si presentò, il popolo che si proclama eletto da Dio, aspetta un messia che inaugurerà un’età dell’oro per il paese e per il popolo. È evidente che la forma sotto la quale si manifesta è quanto si può pensare diversa da quella in cui lo attendevano i più. Invece essa è più conforme all’antica profezia (Is, 53, 12 ss.) di cui si presume che quel popolo fosse a conoscenza. Egli dunque si presenta così. Un precursore ha attirato l’attenzione su di lui (Mc, 1, 1) ed egli stesso l’attira decisamente sulla sua persona con segni e miracoli dei quali si parla in tutto il paese: egli è l’eroe del momento: ovunque egli vada e sosti un po’, è circondato da una folla strabocchevole e brulicante. L’impressione che produce è enorme. Gli occhi di tutti son fissi su di lui; tutti quelli che possono camminare o anche solo trascinarsi vogliono vedere quei prodigi; e tutti devono farsi di lui un giudizio, avere la propria opinione, al punto che gli spacciatori di opinioni e di giudizi stanno quasi per far fallimento di fronte a una richiesta così travolgente e a contraddizioni così stridenti. Egli pertanto, l’operatore di miracoli, è sempre l’uomo povero che non ha letteralmente una pietra su cui posare il capo (Mt, 8, 20). E non dimentichiamolo: nella posizione del contemporaneo, i segni e i miracoli hanno una loro elasticità fatta apposta per respingere e attirare, ch’è del tutto diversa da quello stile dolciastro con cui i pastori generalmente li presentano, diversa da quel tira e molla sui segni e miracoli di 1800 anni fa! Nella situazione della contemporaneità, i segni e i miracoli sono qualcosa d’irritante e di offensivo; sono qualcosa che obbliga, nel modo più impertinente, quasi a farsi un’opinione; sono qualcosa che, se uno non è disposto a credere, può esasperare al massimo per la disgrazia di essere il contemporaneo, poiché rende l’esistenza troppo tesa e tanto più se si è gente perbene, istruita, colta. Il contemporaneo si trova in una posizione affatto particolare quando deve ammettere che Cristo compie realmente segni e miracoli: ma quando egli è distante e quando il risultato della vita di Cristo contribuisce a crearci delle illusioni, allora ci si può facilmente illudere di credere.

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Caravaggio, Cattura di Cristo (1602)

Così, egli trascina la folla (Mt, 19, 2); questa lo segue giubilante; vede i segni e miracoli, quelli che fa e quelli che non fa; tutta contenta nell’attesa dell’età dell’oro che comincerà appena egli sarà re. Ma la folla raramente si rende conto del proprio giudizio: oggi pensa una cosa, domani un’altra. Così l’uomo prudente e ragionevole non vi prende parte senza le opportune precauzioni. Vediamo, una volta dissipata la prima impressione di sorpresa e di meraviglia, ciò che quell’uomo prudente e ragionevole potrebbe pensare.

Quell’uomo saggio e ragionevole potrebbe dire press’a poco: «Anche ammesso che quest’uomo sia quel che dice di essere, lo straordinario, – in- fatti per quel che riguarda la sua divinità io non ci vedo che un’esagerazione che son pronto a scusare e a perdonare –; se veramente lo considero come lo straordinario – non faccio questione di parole –; anche ammesso ch’egli faccia miracoli – una cosa che d’altronde non ammetto senza riserve e su cui in ogni caso lascio sospeso il mio giudizio –: non è un enigma inesplicabile che questo stesso uomo sia tanto sciocco, tanto limitato, così balordo e corto di senno o così presuntuoso nella sua cordialità o comunque ciò si voglia chiamare, da comportarsi in maniera da imporre quasi i suoi benefici agli uomini! Invece di tenerli con orgoglio e cipiglio di comando nella distanza della più profonda sudditanza e di accettare l’omaggio della loro adorazione, mostrandosi a rari intervalli, ecco che si lascia avvicinare facilmente da tutti o più esattamente egli stesso si presenta a tutti, entra in relazione con tutti come se, per così dire, essere lo straordinario significasse essere il servo di tutti, come se essere lo straordinario (ciò ch’egli pretende di essere) significasse essere preoccupato che siano gli uomini ad averne vantaggio: in breve, come se essere lo straordinario significasse essere il più preoccupato di tutti. Tutto questo è per me inesplicabile: che cosa vuole, qual è la sua intenzione, a cosa tende la sua aspirazione, cosa vuole ottenere, che opinione tiene? Egli che rivela in non poche espressioni – non posso negarlo – una così profonda conoscenza del cuore umano, deve pertanto sapere ciò che io posso predirgli con meno della metà del mio buon senso: che, con questo sistema, non si combina un bel nulla al mondo; a meno che, disprezzando la ragione, non si miri onestamente a esser presi per pazzi o perfino si spinga l’onestà al punto da preferire di venire ucciso; ma se è questo l’obiettivo, si è pazzi per davvero. Come ho detto, egli gli uomini li conosce e deve pertanto sapere che la condotta da tenere consiste nell’ingannarli presentando l’inganno sotto l’apparenza di un beneficio reso all’umanità. A questo modo si godono tutti i vantaggi, perfino quello il cui godimento è il più prezioso di tutti, cioè il privilegio d’essere chiamato dai contemporanei il benefattore dell’umanità! Una volta che si è nella tomba, che importa il giudizio dei posteri? Ma darsi completamente com’egli fa, senza tenere nulla per sé, assolutamente nulla, e supplicare quasi gli uomini di accettare questi benefici: no, non mi passerà mai per la testa di mettermi con lui. Ed è naturale ch’egli non m’inviti neanche; perché egli invita soltanto coloro che sono affaticati e oppressi».

[…]

Amico mio, so bene quel che faccio; conosco la mia responsabilità, e la mia anima ha la sicurezza eterna di quel che faccio. Immaginati dunque di essere suo contemporaneo, contemporaneo dell’Invitante [Gesù Cristo]. Immaginati di essere un infelice, ma pensa a cosa ti esponi col diventare suo discepolo seguendolo. Ti esponi a perdere assolutamente quasi tutto agli occhi delle persone sagge, ragionevoli e perbene. Egli, l’Invitante, pretende che tu rinunci a tutto, che abbandoni tutto, mentre la ragionevolezza dei tuoi contemporanei non ti deve sfuggire: essa giudica che l’unirsi a lui è pazzia. E lo scherno si abbatterà su di te con crudeltà; mentre, per compassione, esso quasi risparmia Cristo, trova che la più pazza delle pazzie è diventare suo discepolo. Infatti dice: «Un sognatore è un sognatore, lasciamo perdere; ma diventare sul serio suo discepolo, questa è la più grande delle pazzie. Non c’è che un modo d’essere più pazzo d’un pazzo: quello di commettere la pazzia suprema, ch’è di unirsi sul serio al pazzo prendendolo per savio».

Non venirmi a dire che tutto questo discorso è un’esagerazione. Oh, tu sai bene (ma forse finora non te ne sei reso conto) che di tutte le persone perbene e piene di saggezza le quali – una o due, forse più – hanno potuto occuparsi di lui per curiosità, ci fu uno solo, appena uno che lo cercò seriamente, e venne a lui di notte (Gv, 3, 7)! E lo sai bene, di notte si seguono le vie proibite; si sceglie la notte per frequentare i luoghi di cui si vuol nascondere l’itinerario; rifletti a quel che si deve pensare in questo caso dell’Invitante: era un disonore andare da lui, un atto che nessuna persona perbene, nessun uomo d’onore, osava; era come andare, avvolto nel mantello della notte, a...: basta, non ho il coraggio di continuare dopo quell’«...osava!».

Venite ora a me voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò!

S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, in Id., Le grandi opere filosofiche e teologiche, trad. it. di C. Fabro, prefazione di G. Reale, Bompiani, Milano 2013, pp. 1891-1895, 1909-1911.