Il rapporto fra femminilità e mascolinità attraversa molteplici discipline e coinvolge un dibattito i cui canoni rivelano la loro duplice appartenenza alla natura e alla cultura. Al primo ambito, quello della natura, appartiene quanto della femminilità e della mascolinità ci dicono la genetica, la biologia o la psicologia; all’ambito culturale appartiene quanto il pensiero filosofico e l’organizzazione sociale hanno originato, materializzato o teorizzato nel corso della storia. La Rivelazione cristiana, nel riconoscere a tale rapporto una nativa unità di natura, ne risolve la differenza in termini di complementarità e del reciproco dono della propria specificità, sebbene avverta che l’armonia presente nel disegno del Creatore abbia conosciuto l’esperienza di un fallimento originale e sia stata successivamente restaurata da un dono, quello della grazia di Cristo, che supera l’ordine storico della natura, riportandola al progetto esistente «in principio». In questa voce analizzeremo, in chiave fenomenologica e psicologica, il percorso dal discorso sul genere al riconoscimento dei ruoli e alla loro reciproca dinamica, richiamando poi in chiusura le linee essenziali della femminilità e della mascolinità contenute nell’antropologia biblica.
Dal discorso sul genere alla riflessione sulla specificità
La necessità di riconoscere distinzioni ed operare definizioni, classificando la realtà secondo il “genere”, di attribuire un’identità maschile o femminile agli elementi del mondo animato ed inanimato che lo circonda, corrisponde ad un bisogno profondo ed antico del genere umano. Tale bisogno trova riscontro anche nella presenza, fin dall’antichità, in molti ceppi linguistici, della categorizzazione nei generi grammaticali, femminile, maschile e neutro. Tale necessità di riconoscere e valorizzare la “differenza” opera in parallelo con un’esigenza opposta, altrettanto radicata, di ricondurre tale differenza ad un’originaria matrice unificante, connotata bisessualmente, presente in molti miti di creazione, che trova una sua rappresentazione paradigmatica nel mito greco dell’Androgino, come esposto nel Simposio di Platone.
L’androginia è una formula arcaica ed universale per esprimere la totalità, la coincidenza dei contrasti, che simboleggia la perfezione di uno stato primordiale al quale l’uomo potrà far ritorno. Dalla bisessualità originaria, dall’Androgino, si separano «maschile» e «femminile». La separazione dei sessi si fa necessaria per dar luogo alla vita. L’etimologia latina della parola «sesso» è sectus, cioè «separato», «tagliato». Con la separazione dei sessi e la conseguente unione sessuale, ha inizio la storia, il tempo, il corso della vita. Nel racconto biblico della Genesi, la differenza fra i sessi è vista con la dimensione della reciprocità e del dono per poi divenire, dopo la caduta del peccato, luogo di conflitto [Gen 1,27-28; 2,18-25; 3,16]. «Tutta la storia psicologica del rapporto uomo-donna — scrive Hillmann — è come una serie di note a piè di pagina alla storia di Adamo ed Eva».
La separazione dei sessi (anatomica) diventa separazione dei generi (psicologica e culturale), si connota come separatezza, dove il confronto con la diversità dell’altro, privata della possibilità della reciprocità nel dono, genera invidia e paura, con l’intricato processo proiettivo che ne consegue. Da un lato si configura la necessità della definizione, della distinzione della differenza, dall’altro preme la nostalgia e la tensione alla riunificazione. L’una e l’altra linea di tendenza vanno a costituire una duplice polarità dialettica, all’interno della quale si articola, in un faticoso dibattito, denso di ambiguità e di contraddizioni, la riflessione sul “genere”.
Il discorso sul genere (il termine gender, oggi assai diffuso nella cultura anglosassone), inteso come riflessione su quel prodotto insieme sociale e culturale che si costruisce intorno al nucleo sessuale dell’individuo, orientato ad una messa a fuoco della differenza, nonché dell’eventuale specificità, del genere maschile e del genere femminile, e della relazione che tra essi intercorre, ha origini recenti, e si nutre di contributi che attingono a molteplici discipline. Tale ricerca, identificabile a tutt’oggi in prevalenza con le linee di sviluppo del pensiero femminista, si contestualizza nel quadro teorico-culturale che vede in questo secolo emergere un “pensiero della crisi” che, operando la critica del soggetto universale neutro, coinvolge criticamente il paradigma razionalistico della modernità. L’accento posto dalla psicoanalisi sull’inconscio, ad esempio, mina alla radice la visione classica del soggetto, nel momento in cui, segnalando la non coincidenza del soggetto con la sua coscienza, evidenzia il carattere non monolitico dell’identità. La scomposizione del soggetto umano, concepito come unitario e apparentemente universale, apre la strada all’intuizione teorica della “differenza”.
Se il pensiero, il lógos visibile ed esplicito, lungo i percorsi della storia dell’uomo, è pressoché esclusivamente declinato al maschile, che cosa contiene, anima o nasconde la presenza silenziosa della donna sulla scena del mondo accanto a lui? È accaduto lungo il tempo che essa si sia lasciata descrivere, determinare, definire, senza mai esprimere il senso della propria presenza e della propria esperienza, senza mai dare voce, parola e forma alla propria diversità. E come è potuto accadere che l’uomo, pur nella sua spasmodica tensione di ricerca, non abbia sentito l’esigenza di interpellare come interlocutore questa presenza silenziosa che intrecciava alle radici dell’essere la propria esistenza con la sua?
Ripercorrendo le diverse fasi della storia e le forme di organizzazione sociale nelle diverse culture, ci si incontra con una paradigma relazionale pressoché universale, con rare eccezioni. Si constata un equilibrio che vede l’uomo, protagonista della gestione delle risorse economiche e culturali, esercitare una funzione normativa, di volta in volta più o meno accentuata, anche sulla donna, deputata a sua volta alla “cura” del patrimonio vitale comune, in una posizione subalterna, priva di contrattualità esplicita. Voci sporadiche di donne, nei secoli, hanno dato parola alla dimensione femminile; mistiche o letterate che hanno dato forma esplicita al loro dialogo con l’“alterità”. È sulla scia della disuguaglianza, in chiave reattiva, simmetrica e, in fin dei conti, collusiva con la logica del dominio e dell’esercizio del potere, che si è organizzata la prima voce femminile collettiva, rivendicando il diritto femminile a qualificarsi come soggetto sociale. Tuttavia, il primo femminismo, con la sua connotazione polemica e competitiva, è stato rapidamente sostituito da linee di ricerca orientate a recuperare e a ridefinire concettualmente la “differenza” come fondamento ontologico del genere e del soggetto, faticosamente spogliando il concetto da connotazioni sovrastrutturali di svantaggio e privilegio, incrostazioni lasciate dal sedimento secolare della dinamica del potere che l’ha attraversata.
Il soggetto femminile, secolarmente deputato ad una gestione pragmatica e quotidiana della dimensione della cura, in una prossimità ai limiti della confusività con la dimensione della corporeità e degli affetti, non ha avuto complessivamente accesso a strumenti cognitivi e culturali che consentissero un processo di autorappresentazione e di autosignificazione. In questa carenza di pensiero e di linguaggio sono andate smarrite per la donna stessa, e perciò sottratte al dialogo, le risorse “culturali” che essa andava accumulando e sedimentando, via via che svolgeva le proprie funzioni. Le risorse specifiche, relative alle sue competenze ed alla posizione in cui le andava realizzando, traducendosi nella dimensione dell’agito sia sul piano della prassi che sul piano dei rapporti, non avevano accesso ad un livello di definizione simbolica che le rendesse culturalmente spendibili. Nel momento in cui la donna si riconosce uno statuto di soggetto, si trova nella necessità di costruire e di articolare un ordine simbolico in cui rappresentarsi.
Le prime ipotesi di definizione della specificità femminile e maschile, i primi tentativi di sistematizzazione organica di qualità intrinseche, costanti, che qualifichino la “differenza” a partire da un vertice di osservazione femminile, sono riscontrabili negli anni intorno al 1980, e riferibili in maniera rappresentativa alle indagini della psicologa C. Gilligan e della psicoanalista N. Chodorow. Dalla ricerca di Gilligan (1) emerge uno “specifico” femminile caratterizzato peculiarmente da qualità come relazionalità, flessibilità, maternità, capacità di connettersi al contesto, a fronte di uno “specifico” maschile connotato da referenzialità prevalente alla legge, orientamento universalistico del pensiero, inclinazione autoritaria e riserbo affettivo. Il lavoro di Chodorow (2) è finalizzato, a sua volta, all’elaborazione di un’accurata ipotesi ricostruttiva dei percorsi intrapsichici maschile e femminile nel cammino di costruzione di identità, nello specifico della loro differenza.
Guadagnato come proprio lo spazio della “differenza”, il pensiero femminile ha ora il compito di esplorare tale spazio, con cura e pazienza, sottraendosi alla tentazione di sbarazzarsene come di cosa troppo nota, ovvia o scontata, neutralizzandolo difensivamente con etichettamenti frettolosi. Il mondo femminile, il “continente nero” alla cui soglia Freud si è arrestato, è abitato dalla dimensione degli affetti, delle relazioni familiari e sentimentali, della generazione e conservazione della vita, dalla dimensione della cura, dei corpi, della crescita, del quotidiano e della sofferenza; esso porta i segni della segregazione, dell’oppressione, dell’incultura, della dipendenza economica, culturale ed affettiva, ed è attraversato dal filo rosso di una speranza, di una fede e di una fedeltà, rinnovate nel tempo, nel silenzio, nell’oscurità e nella solitudine. È, questo “continente nero”, il luogo di una storia al femminile svoltasi parallelamente e all’ombra della Storia ufficiale dell’azione e della visibilità, di un sapere che attende di emanciparsi dal disconoscimento e dal mutismo dell’implicito, di essere decodificato e assunto come patrimonio di competenze acquisite, per istituirsi come interlocutore di un dialogo. Il pensiero, riconosciuto come sessuato, perde le sue tradizionali connotazioni di universalità e neutralità; il soggetto filosofico, identificato con la coscienza e con la ragione, vede la sua immagine coesa e coerente interpellata dal linguaggio degli affetti, dei sentimenti, delle pulsioni, in un tempo in cui l’Eros, tradizionalmente attribuito, con definizione sommaria, allo specifico femminile, uscendo dalla clandestinità di un linguaggio agito, interpella il Logos “maschile” ad un confronto e ad un dialogo. Poiché il mondo è composto da uomini e donne.
Tappe di un percorso verso l’identità di genere
Dal punto di vista intrapsichico, l’acquisizione dell’identità si configura come un processo che si realizza, secondo percorsi relativamente svincolati da parametri cronologici e deterministici, come risultato di complessi passaggi evolutivi.
La dinamica essenziale di tale processo è riassumibile nell’intreccio fra processi di carattere “introiettivo” e processi di carattere “imitativo” (3) che, articolandosi ed integrandosi progressivamente, istituiscono l’articolazione strutturale della dimensione d’identità. I processi di introiezione si connettono alla possibilità di sperimentare, sia nella dimensione del rapporto duale che in quella del rapporto triangolare, le vicissitudini conflittuali e pulsionali, mentre i processi imitativi, operando al servizio della fusionalità e dell’onnipotenza, attengono ad una dimensione “magica” che, istituendo un’identificazione con l’oggetto tout-court, evita l’attraversamento dell’angoscia che la separazione e la crescita comportano.
Dall’integrazione fra questi due ordini di meccanismi, laddove i processi imitativi sono subordinati, e tuttavia integrati, con i processi introiettivi relativi alle relazioni primarie, si organizza una struttura di identità stabile e solida. Così pure, anche per quanto concerne il genere sessuale, la costruzione di identità attingerà alle componenti consce ed inconsce della relazione con l’ambiente. Esperienze sensoriali precocissime, inerenti al livello corporeo, progressivamente mentalizzabili, forniscono le prime informazioni relativamente alla corporeità ed a percezioni che solo successivamente, a posteriori, verranno codificate e distinte secondo le categorie “maschile” e “femminile”.
Gli accadimenti anatomo-fisiologici, con il loro substrato genotipico, fenotipico ed ormonale, costituiscono il punto di partenza, la base di un processo di acquisizione del “genere” che si declina nella dimensione relazionale con il proprio corpo, con le figure significative che accompagnano il percorso di crescita, con la dimensione esperienziale che si va via via producendo, in tutte le sue valenze. Ancora questo contesto relazionale connota e determina lo svolgersi delle vicissitudini pulsionali dell’individuo, generando le premesse del successivo comportamento sessuale, eventualmente agito. È su questa articolazione complessa di linee di sviluppo intrapsichico che si innesta l’ulteriore complessità del paradigma relativo ai ruoli e alle funzioni (4).
L’organizzazione della struttura familiare produce esperienze decisive, diversificate per i due sessi, per ciò che riguarda le relazioni oggettuali e la loro interiorizzazione. La madre, che storicamente ha svolto e, tendenzialmente, continua a svolgere in maniera preminente le funzioni di accudimento e di socializzazione primaria nei confronti del bambino, viene da questi introiettata come oggetto interno primario. Il padre, tradizionalmente più coinvolto in una relazionalità extrafamiliare e meno implicato ed appartenente alla dimensione familiare, si configura come oggetto secondario sia per i maschi che per le femmine.
Il paradigma tradizionale ipotizzato dalla principale corrente psicoanalitica spiegava il percorso del riconoscimento della propria identità di genere ricorrendo al cosiddetto «complesso di Edipo». In tale interpretazione, la configurazione delle relazioni oggettuali del maschile e femminile vengono spiegate in modo simmetrico. Secondo questa prospettiva psicoanalitica, intorno ai tre anni d’età, in coincidenza con le tappe dello sviluppo pulsionale intrapsichico, la bambina scopre di essere priva di pene e vivrebbe questa “mancanza” come una castrazione, una ferita narcisistica minacciosa per la propria autostima. Ciò la indurrebbe a svalutare la madre e le donne in genere, incolpandola per la propria “incompletezza”. Di conseguenza, essa abbandonerebbe la madre, primo oggetto d’amore, per rivolgersi al padre. Nel maschietto, invece, l’attaccamento preedipico alla madre, caricandosi di significati fallico-sessuali, lo indurrebbe a considerare il padre come un rivale e a desiderare di prenderne il posto.
Processi di identificazione e rapporto fra i sessi
La personalità di genere, caratterizzata dalle diverse capacità relazionali acquisite attraverso l’evoluzione dei legami oggettuali, viene rafforzata dai concomitanti percorsi di identificazione, anch’essi differenziati nei due generi, per gran parte consequenzialmente alla distribuzione asimmetrica della funzione di cura della prole. I processi in questione, che vanno dall’apprendimento di comportamenti allo sviluppo dell’identità di genere di base, sembrerebbero avere significato universale, dato il presupposto, che ha fin qui accomunato gran parte delle società, di una netta polarizzazione tra mondo femminile, privato e domestico, e mondo maschile, pubblico e sociale.
Tutti i bambini, maschi e femmine, si identificano inizialmente con la madre, essendo i ruoli familiari della donna più accessibili e vicini che non i ruoli maschili, più estranei e distanti. Per la bambina, l’identificazione con i ruoli di genere può procedere, successivamente, in parallelo con l’evolversi del suo rapporto personale con la madre, che è in condizioni di favorire, qualora non viva lei stessa una situazione troppo conflittuale circa il proprio ruolo, una connessione fra processi affettivi ed apprendimento dei ruoli. I maschi, in cui la crisi edipica avrebbe la funzione di determinare e consentire il passaggio all’identificazione con il padre, data la minor consuetudine con la figura di riferimento, tenderebbero a ricorrere ad un’identificazione “posizionale” con i vari aspetti del ruolo maschile, dove il legame tra processi affettivi e apprendimento di ruolo rimane scarsamente decodificabile.
L’identificazione “personale” (5) consiste nell’identificazione generalizzata con la personalità globale di un altro, con i suoi tratti comportamentali, i suoi valori e i suoi atteggiamenti, mentre l’identificazione “posizionale” consiste invece nell’identificazione con aspetti parziali del ruolo di un altro, e non porta necessariamente all’interiorizzazione dei valori o degli atteggiamenti della persona con cui ci si identifica. I bambini privilegerebbero la prima, quando essa sia sostenuta da un rapporto affettivamente rassicurante, ricorrendo alla seconda soltanto in circostanze sfavorevoli. Dove la donna è presente in famiglia, la bambina ha modo di sviluppare un graduale apprendimento di ruolo, attraverso un rapporto reale con una persona con cui è affettivamente coinvolta, mentre il bambino, in assenza di un modello quotidianamente sperimentato di ruolo maschile, tende ad appropriarsi per via imitativa di immagini di mascolinità mutuate da uomini adulti, scelti come modelli.
L’identificazione maschile finisce, pertanto, per essere prevalentemente “culturale”, riferita a stereotipi di ruolo, laddove l’identificazione femminile è prevalentemente “personale” e riferita alla dimensione reale, incarnata dalla madre. A questa differenza di percorsi identificativi corrisponde la propensione femminile a sviluppare rapporti personalistici ed affettivamente connotati, e la tendenza maschile ad accentuare le componenti categoriche, universalistiche ed astratte della dimensione del rapporto. Il ruolo maschile e la mascolinità, inoltre, data la loro inattingibilità nella consuetudine, diventano oggetto di fantasie e di idealizzazione, sia in senso positivo che negativo, sia da parte dei maschi che delle femmine, laddove il ruolo femminile mantiene connotazioni reali e concrete.
Questa sostanziale differenza dei rispettivi presupposti identificativi viene ulteriormente rafforzata dall’eventuale applicazione delle rispettive competenze a funzioni specificamente individuate per l’uno e l’altro sesso, in una previsionalità socialmente sancita. Si realizza così una sorta di specializzazione che prevede e promuove lo sviluppo di costellazioni di “specificità”, inerente non soltanto all’ambito della prassi e dei comportamenti, ma al complesso della dimensione percettiva, cognitiva, affettiva, espressiva e valoriale come determinante della relazione del soggetto sia con il mondo esterno che con la realtà interna. Nell’ambito di tale “specializzazione”, è prevista la valorizzazione selettiva di alcune potenzialità e l'accantonamento, realizzato attraverso processi di rimozione, di scissione e di negazione, di altri aspetti potenziali. Questi meccanismi si configurano come gravidi di conseguenze agli effetti della relazione tra i sessi in generale e della relazione di coppia specificamente.
Un uomo e una donna che decidano di fondare un patto di reciprocità, e a maggior ragione quando lo ipotizzino come stabile e progettualmente connotato, si impegnano implicitamente a confrontarsi con la dimensione della diversità, con le sue implicazioni e conseguenze. Nei diversi contesti storici e culturali, che si sono andati strutturando nel tempo, tale confronto è stato via via orientato, protetto e controllato da una serie di regole collettivamente promosse e condivise che, modificandosi di volta in volta in funzione dei mutamenti delle variabili del contesto, costituivano per i soggetti e per la relazione un modello di comportamento e di sviluppo cui riferirsi. Per la prima volta nella storia, nel passaggio all’epoca moderna, si è avviato un processo, universalmente diffuso nella cultura occidentale, di emancipazione del rapporto matrimoniale dal controllo sociale e dal gruppo familiare allargato. Laddove ancora nella società pre-industriale il matrimonio si qualificava come unione di due famiglie o gruppi parentali, progettata in funzione di criteri economici, di prestigio e di convenienza, l’epoca moderna vede nascere e svilupparsi un modello di patto matrimoniale fondato sulla scelta personale, e orientato alla ricerca di una possibile felicità da raggiungere attraverso l’emancipazione da condizionamenti esterni.
Fino al secolo XVIII, la forma di organizzazione predominante non era la famiglia nel senso odierno, ma il governo domestico della famiglia allargata, una comunità economica. L’obiettivo fondamentale di tale struttura organizzativa era l’assicurazione quotidiana dell’esistenza e la conservazione della successione generazionale, in cui irrilevante era lo spazio riservato all’espressione e alla realizzazione di sentimenti e motivazioni personali. La scelta del partner e il matrimonio si qualificavano come un accordo prevalentemente economico, mentre l’amore nella sua accezione romantica veniva deputato a contesti deistituzionalizzati. Nel passaggio alla società moderna, con la nascita della famiglia borghese, si è verificata una progressiva significazione sentimentale dell’ambito interno della famiglia, qualificata dalla nascita di quella dimensione di intimità e di privato che caratterizza l’immagine che ne abbiamo attualmente. Nasce una forma storicamente nuova di identità che si può definire come «stabilità riferita alla persona» (6).
A mano a mano che i legami tradizionali e collettivi sono andati indebolendosi, le persone immediatamente prossime hanno assunto maggiore importanza per la coscienza e l’autocoscienza dell’individuo e per il suo benessere psichico e fisico. In questo riferire la stabilità all’identità personale si è andata costituendo una nuova immagine dell’amore, l’amore romantico e duraturo contemporaneamente, che nasce dall’intimo legame sentimentale tra due persone, e dà contenuto e senso alla loro vita. Quanto più vengono a mancare altri riferimenti di stabilità, tanto più il bisogno di dare ancoraggio e senso alla vita si volge verso la relazione a due, dove il matrimonio diventa un’istanza centrale per la costruzione dell’identità, un’istituzione specializzata nello sviluppo e nella stabilizzazione della persona. D’altro canto, tuttavia, quanto più si disgregano regole e prescrizioni, e quanto più si complessifica lo spazio potenziale di azione e di scelta, tanto maggiore diventa il potenziale conflittuale della relazione.
Con il passaggio alla modernità, il singolo si è andato emancipando dai riferimenti tradizionali, essendo tuttavia tale processo di individualizzazione rimasto per svariati decenni sostanzialmente limitato agli uomini. Le biografie, maschile e femminile, sono di conseguenza andate declinandosi in direzioni del tutto diverse. Nel secolo XIX, il contesto di vita della donna non viene ampliato, bensì più strettamente circoscritto e limitato allo spazio interno del privato, dove alla cura fisica dell’ambiente domestico e dei membri della famiglia si aggiunge un compito di cura psichica. Quanto più l’uomo si orienta verso l’impegno esterno, in un mondo sempre più ostile e razionalizzato, tanto più alla donna si richiede di rappresentare una oasi di pace, concentrata nell’interiorità della vita affettiva. Quanto più si richiede all’uomo di autoaffermarsi all esterno, tanto più la donna viene spinta a ritirarsi all’interno, incrementando la sua condizione di dipendenza dal coniuge, anche con una serie di regolamenti giuridici che sanciscono tale dipendenza.
A partire dalla fine del secolo XIX, e sempre più intensamente nel secolo attuale, l’emancipazione dai riferimenti tradizionali si fa avvertibile anche per le donne. Parallelamente allo sviluppo dell’istruzione e dell’attività lavorativa, si realizzano importanti cambiamenti nel ciclo di vita familiare, come la drastica riduzione del numero dei figli e l’allungamento della durata della vita, che favoriscono per la donna l’acquisizione di posizioni di autonomia. Il correlato soggettivo di tali fenomeni è che le donne sviluppano in maniera crescente aspettative, desideri e progetti di vita che non sono più riferiti soltanto alla famiglia, ma anche ad una realizzazione personale. Fino a che è stato soltanto il corso della vita dell’uomo ad essere informato al modello dell’individualizzazione e la donna era indotta, in modo complementare, ad una vita per gli altri, la coesione familiare rimaneva salvaguardata, benché a prezzo della disuguaglianza. Ora che questo equilibrio è andato disgregandosi, per la prima volta nella storia uomo e donna si trovano a dover autoprogettare la propria relazione, in tutti i molteplici livelli esistenziali che essa comporta, in un contesto culturale confuso e denso di contraddizioni.
A fronte dell’enfasi che valorizza le potenzialità realizzative del rapporto di coppia, che richiederebbero per attuarsi una paziente e lenta elaborazione di equilibri relazionali, la cultura dell’individualizzazione sollecita ed induce contemporaneamente l’investimento di progettualità personali, che richiedono una intensa polarizzazione di attenzione e di energie sulla dimensione autorealizzativa.
Un forte scollamento caratterizza i codici simbolici privati e i codici simbolici pubblici (7), laddove nella sfera pubblica prevale un’ideologia ugualitaria, tendente ad omogeneizzare le differenze in un unico genere indistinto, mentre nella sfera privata e familiare prevalgono dinamiche di differenziazione fra i generi. Ne deriva che i rapporti fra ambito pubblico ed ambito privato, sia per il soggetto che per la famiglia, si fanno sempre più conflittuali e densi di contraddizioni.
Senza il conforto di parametri collettivi condivisibili si verifica così per la coppia e, a maggior ragione, per la coppia coniugale con un progetto generativo, che rende ineludibile un percorso di sintesi, la necessità di cimentarsi in un confronto arduo, complesso, stringente e senza precedenti, in cui assumono sostanziale rilevanza per la qualità della relazione e i suoi sviluppi, le peculiarità delle rispettive strutture psicoaffettive. Tali peculiarità, che si traducono in aspettative sostanzialmente diverse nei confronti della relazione, non rappresentano una novità nella storia del rapporto tra i sessi, ma nuovo è il modo con cui le donne si percepiscono e si autolegittimano come soggetti di pensiero, di scelte e di bisogni, non tollerando più di essere disconosciute o strumentalizzate, e tendendo invece ad esplicitare i propri desideri e a rivendicarne il riconoscimento da parte dell’altro.
Poiché le aspettative delle donne si polarizzano sostanzialmente sulla qualità emotiva della relazione affettiva, esse finiscono per interpellare l’uomo su un piano di cui egli non possiede i codici interpretativi. L’uomo, abituato per tradizione, per cultura e per storia personale a leggersi in una dimensione pragmatica, a misurarsi a criteri di visibilità, a riferirsi a parametri sovradeterminati, si vede sollecitato a cimentarsi con lo sviluppo di un linguaggio interiore sulla dimensione della relazione, che non ha precedenti nella sua storia.
Il discorso maschile, anche nel suo versante interiore, è andato sviluppandosi sostanzialmente auto-referenzialmente, in rapporto ad una polarità femminile, nelle sue diverse versioni (madre, moglie, oggetto d’investimento erotico o idealizzato), certamente inquietante per l’implicito che lo caratterizzava, ma difensivamente oggettivato in stereotipi. Il processo individuativo dell’uomo tende per tradizione e storia a svolgersi in riferimento ad un oggetto concepito come fisso, passibile di proiezioni difensive, di volta in volta mutevoli in funzione delle necessità del percorso, e sostanzialmente immobile nella sua funzione di garante di una possibilità di ritorno.
L’oggetto femminile viene tendenzialmente ipotizzato e auspicato dall’uomo come dotato di vita e capace di reazione, poiché deputato ad accogliere, custodire e, nel caso della generatività, a nutrire e proteggere nel loro sviluppo le parti vitali di sé che l’uomo le affida. Non viene però concepito come soggetto di vita autonoma, essendo tali funzioni considerate ovvie e scontate, automatiche, “naturali” per usare un temine tradizionalmente abusato. La donna, a mano a mano che prende coscienza del costo emotivo che le funzioni cui è secolarmente deputata comportano, cessa di adattarvisi automaticamente, si dissocia da una dimensione di “dover essere”, necessitante e sovradeterminata, ed esce dalla propria secolare afasia.
La prima fase di questo “discorso” femminile si è realizzata attraverso un confronto tra donne, fenomenologicamente polemico nei confronti dell’uomo, ma sostanzialmente orientato alla scoperta, al riconoscimento, alla chiarificazione dei percorsi dello specifico femminile, alla ricerca di una dimensione d’identità accreditabile. A mano a mano che tale discorso va declinandosi ed assumendo forma compiuta, si va proponendo all’uomo in maniera sempre più esplicita e pressante. Quella che a volte appare come una mera lotta sulla definizione del potere circa ruoli e funzioni, è in realtà la copertura di una dolorosa e complessa contrattazione sulla ridefinizione di presupposti di identità.
L’uomo ha difficoltà a riconoscere in quell’essere che parla di sé, dei propri desideri e bisogni, che avanza richieste e pone condizioni, l’oggetto proiettivo consueto su cui si fonda la sua immagine del rapporto. Davanti ad un interlocutore che lo interpella ad esplorare ed esplicitare emozioni, a condividere responsabilità circa competenze affettive mai assunte, a produrre reciprocità dove è sempre stata asimmetria, l’uomo prova sconcerto e rabbia, e si fa evasivo. La donna, d’altronde, quando interpella l’uomo a ridefinirsi rispetto ad un equilibrio collaudato da secoli, fa inconsapevolmente riferimento a risorse e potenzialità tutt’altro che automaticamente accessibili all’altro, e che attengono piuttosto all’immagine proiettiva di un suo desiderio. Ella rimane pertanto, a sua volta, spiazzata dalla sostanziale “alterità” della configurazione emozionale che le si manifesta, una volta abbattuto lo stereotipo di immagine attribuita al genere maschile, e sguarnita rispetto alla propria aspettativa-desiderio di reciprocità, dove tale reciprocità, in assenza di un interlocutore che realisticamente la declini, rimane legata alle rappresentazioni dell’immaginario femminile. L’alto livello di specializzazione, sviluppato relativamente a specifiche competenze, sul piano delle difese dell’Io, e la drastica polarizzazione verso una declinazione per “genere” dello sviluppo dell’identità, fondata su meccanismi di negazione o di rimozione di parti di sé, rende difficoltoso e confuso il rapporto con tali parti, dall’altro incarnate e rappresentate. Tale difficoltà dà spazio a sentimenti di estraneità e diffidenza, producendo invidia e risentimento nei confronti di ciò che non è condivisibile.
Perché venga promossa una miglior relazione tra i sessi, non si tratta quindi di ipotizzare lo sviluppo di una bisessualità totipotente ed autarchica, che assolva illusoriamente uomini e donne dal compito di differenziazione e confronto che li accomuna. Si tratta piuttosto di promuovere l’accesso ad un codice simbolico che qualifichi uomo e donna come “identità relazionali” (8), individuando così un vertice interpretativo che favorisca l’esplorazione della trama delle rispettive e reciproche fantasie, aspettative ed esigenze, con i relativi nodi proiettivi che le attraversano. Mutualità, reciprocità, complementarità costituiscono nel cammino della coppia possibilità relazionali che, lungi dall’essere automaticamente percorribili, presuppongono, sia sul piano individuale che sul piano della relazione, un percorso di sintesi elaborativa, orientato al recupero ed all’integrazione, in chiave simbolica, della duplice identificazione con ambedue i genitori e le loro specificità, promuovendo nel soggetto una dialettica costruttiva fra parti diversamente connotate e orientate.
[1] Cfr. C. Gilligan, Con voce di donna (1982), Feltrinelli, Milano 1991.
[2] Cfr. N. Chodorow, La funzione materna, (1978), La Tartaruga, Milano 1991.
[3] Cfr. E. Gaddini, Formazione del padre e scena primaria (1974) e La formazione del padre nel primo sviluppo infantile (1975) in “Scritti (1953-1985)”, R. Cortina, Milano 1989.
[4] Cfr. S. Argentieri, Il sesso degli angeli, in “Del genere sessuale”, a cura di L. Russo e M. Vigneri, Borla, Roma 1988.
[5] Cfr. E. Slater, Toward a Dualistic Theory of identification, Menil-Palmer, “Quarterly of Behaviour and Developments” 7 (1961); R. Winch, Identification and its familiar Determinants, Bobbs-Menis, New York 1962.
[6] Cfr. U. Beck, E. Beck, Il normale caos dell’amore, Boringhieri, Torino 1996.
[7] Cfr. P. Donati (a cura di), Uomo e donna in famiglia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997.
[8] Ibidem.
R. Ghidelli, Femminilità e mascolinità, in Dizionario interdisciplinare di scienza e fede, a cura di G. Tanzella-Nitti e A. Strumia, Urbaniana University Press - Città Nuova, Roma 2002, pp. 625-632.