Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne (1622-1625)

        

Gian Lorenzo Bernini (Napoli, 1598 - Roma, 1680)

Apollo e Dafne

1622-1625

marmo, h. 243 cm

Roma, Galleria Borghese

 

Il gruppo scultoreo è ispirato alla favola di Ovidio tratta dalle Metamorfosi e rappresenta il momento culminante della trasfigurazione di Dafne in albero di alloro. Fu commissionato dal cardinale Scipione Caffarelli-Borghese, nipote di papa Paolo V. Bernini iniziò l’opera nell’agosto del 1622. Dopo una pausa di circa un anno tra l’estate del 1623 e il 1624, durante la quale si dedicò al David, lo scultore riprese i lavori che completò nel 1625 avvalendosi della collaborazione di Giuliano Finelli, uno dei suoi più abili assistenti.

Come avvenne per il Ratto di Proserpina (1622), sul basamento della scultura venne posto un cartiglio a foggia di pelle di drago con un distico in latino ideato dal cardinale Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII, che attribuiva un significato moraleggiante al soggetto pagano: «Quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae / fronde manus implet baccas seu carpit amaras» («colui che ama e insegue i gaudi della bellezza fugace, colma la mano di fronde e coglie amare bacche»).

La scultura era esposta nella sala III della villa fuori Porta Pinciana del cardinale Scipione, oggi Galleria Borghese. La collocazione secondo un punto di vista privilegiato, ossia addossata sul lato della stanza contiguo alla cappella (diversamente da come è oggi esposta, al centro della sala), era stata progettata dallo stesso Bernini in modo da accompagnare il visitatore lungo il fianco destro di Apollo e farlo assistere allo sviluppo finale del suo inseguimento, in un sorprendente effetto scenografico di rivelazione e di coinvolgimento emozionale.

L’ammirazione sconfinata per l’Apollo e Dafne fu tale che il poeta e diplomatico Fulvio Testi ebbe a scrivere che «il Cavalier Bernini, quel famosissimo scultore che ha fatto la statua del Papa e la Dafne [...] ch’è il Michelangelo del nostro secolo […] è un uomo da far impazzire le genti».

La scena che si presenta ai nostri occhi sembra quasi una sequenza cinematografica: è dinamica, si percepisce l’affanno della corsa e la drammaticità della trasformazione di Dafne. Apollo l’ha già afferrata, una mano arriva a toccare il suo fianco, ma il corpo di lei si tramuta improvvisamente: il suo corpo diventa corteccia, le mani foglie.

Il desiderio è una realtà in movimento: ti porta sempre avanti, non si ferma mai, pare sfuggirti di mano, non c’è oggetto che sembra poterlo soddisfare. L’essere umano è mosso da questa spinta fortissima che può assumere forme diverse: desiderio di beni da consumare, di denaro, di potere, di successo. O, come nell’opera di Bernini, desiderio fisico, desiderio dell’altro, desiderio d’amore. Ma bisogna essere prudenti, interrogare i propri desideri e i sentimenti che li fanno sorgere: i desideri non sono tutti equivalenti e non tutti sono da assecondare. È la vita stessa ad insegnarcelo, mostrandoci le diverse strade lungo le quali essi ci conducono quando, come seguendo un richiamo, li assecondiamo.

La realizzazione di alcuni desideri ci fa crescere, fa fiorire la nostra vita, promuove l’armonia tra noi e gli altri. Altri desideri invece ci confondono, ci fanno perdere il controllo di noi stessi, conducono la nostra vita per sentieri inaspettati, ci richiudono su noi stessi, allontanandoci dagli altri o addirittura spingendoci ad imporci con violenza e sopraffazione su chi ci sta intorno. Ed è proprio ciò che accade nell’episodio di Apollo all’inseguimento di Dafne.

Alcuni desideri sostengono le nostre motivazioni più profonde, i nostri progetti, rendendoli possibili e trasformandoli poi in realtà: la scelta di una professione, di un ruolo nella società, di un mondo da abitare. Sono desideri che ci spingono avanti; anzi, secondo la stessa etimologia della parola, ci fanno guardare verso l’alto, desidera, verso le stelle… Altri desideri, invece, semplicemente ci portano “fuori bersaglio”: ci fanno deviare da quella strada che la nostra coscienza, la parte più profonda di noi stessi, ci dice deve tendere alla giustizia, al bene, al rispetto.

Questo andare “fuori bersaglio” è quello che la tradizione cristiana chiama peccato. San Giovanni Damasceno (VII-VIII secolo), teologo arabo e dottore della Chiesa, scrive che «il peccato è una parte superflua del desiderio, non un desiderio necessario»: ciò significa che il desiderio, di per sé buono, può crescere in maniera sbagliata, come un parassita che infesta un bel giardino.

Sta a noi, allora, saper riconoscere e distinguere – usiamo questa parola: discernere – i desideri che fanno crescere noi e gli altri da quelli che possono “infestare” la nostra vita e rovinare le nostre relazioni. Davanti a questi desideri “rampicanti”, come suggerisce san Giovanni Damasceno, non dobbiamo aver paura di operare una scelta, convinti che ciò che “tagliamo” è una parte inessenziale, superflua, del nostro desiderio. Il desiderio “necessario”, invece, è sempre desiderio di bene, di giustizia, di amore: non ci rende schiavi ma ci apre a una vita libera, in comunione con gli altri.