Giuseppe Ungaretti: l'anelito infinito

Nei versi di Giuseppe Ungaretti (1888-1970), tra i massimi poeti italiani del Novecento, la parola e il silenzio, così come le lettere e lo spazio bianco sul foglio, si bilanciano in un equilibrio delicatissimo. In questa poesia del 1916, scritta durante il drammatico periodo in cui il poeta, in quel momento agnostico e non credente, è impegnato al fronte della Prima guerra mondiale sul Carso, ogni parola ha un peso e manifesta la tensione tra i limiti e le aspirazioni che animano la vita umana.

Nel primo verso si condensa la condizione di finitudine costituita dalla morte: la consapevolezza dell’ineluttabilità della fine cui va incontro ogni vita suggerisce l’idea di una chiusura, vale a dire di una costitutiva limitatezza che affligge il poeta. Più in generale, è qui la condizione esistenziale dell’uomo, di ogni soggetto, a venire espressa: siamo mortali e viviamo fra cose mortali, che periranno; ciò che è proprio, per noi, sono la finitezza, il tempo che si esaurisce, la corruzione.

Ma non è soltanto l’uomo a essere mortale: nel secondo verso, tra parentesi, è l’intero universo a essere colto nella sua finitezza temporale. Le stelle sono destinate a spegnersi, l’entropia indica un percorso di irreversibile disfacimento: il mondo si avvia, presto o tardi, a una conclusione. Se cercassimo, nell’orizzonte del nostro sguardo, qualcosa di terreno a cui aggrapparci, non lo troveremmo. Anche le cose più grandi, più belle, quelle che sembrano indistruttibili, come il cielo stellato, sono destinate a finire.

Nel terzo verso, a fronte di questa finitezza e provvisorietà ineluttabile della vita e del cosmo intero, il poeta dà voce a un interrogativo: perché, finiti come siamo, desideriamo l’infinito, bramiamo Dio? Da dove emerge questo anelito, se siamo solo materia corruttibile in mezzo ad altra materia corruttibile? Il poeta, in sostanza, si interroga sul desiderio umano che accende il senso religioso ed è per questo in grado di avviare un percorso di ricerca personale. Il limite della condizione umana non viene accettato passivamente ma, per contrasto, proietta il cuore dell’uomo verso l’assoluto. È questa la contraddizione che già avevano colto acutamente Pascal e Leopardi: in un mondo destinato a morire, c’è un essere consapevole di questa fine inevitabile, un essere che aspira a superare il suo stesso limite, a contattare l’assoluto – che brama Dio. Da questa dismisura tra l’esperienza umana e la sua aspirazione infinita nasce quella “dannazione”, sentimento di inappagabile desiderio, quasi una stizzosa constatazione, che dà il titolo alla poesia.

Nella vita di Ungaretti questo desiderio di Dio troverà però un approdo. Durante la settimana santa del 1928 il poeta si recherà a piedi in visita al monastero benedettino di Subiaco e questo evento segnerà la sua conversione al cattolicesimo e la fede che lo sosterrà durante gli eventi (talvolta drammatici, come nel caso della morte del figlioletto Antonio) che segneranno la sua vita.

     

Dannazione

 

         

Chiuso fra cose mortali

(Anche il cielo stellato finirà)

Perché bramo Dio?

         

        

G. Ungaretti, Dannazione (1916), in L’Allegria, Mondadori, Milano 2011.