Il grande inquisitore

Fëdor Dostoevskij
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Fëdor Dostoevskij (1821-1881)

I fratelli Karamazov racconta le vicende di una famiglia che deve confrontarsi con le difficoltà delle relazioni tra i suoi membri e con gli altri personaggi della storia, in un misto di passioni, contrasti, gelosie, idee politiche e fede. L’opera però non si esaurisce in un intreccio amoroso, né nel tragico parricidio, ma diventa il campo su cui si profilano i grandi interrogativi dell’animo umano, sull’esistenza di Dio e sulla giustizia terrena.

Ci troviamo nel Libro quinto. Uno dei personaggi, Ivan, l’ateo per il quale “tutto è permesso”, parlando con Alesa, il fratello novizio, non nega l’esistenza di Dio ma rifiuta di accettare il mondo da Lui creato perché dominato da atrocità, che Dio permette: gli uomini soggiogano altri uomini, i potenti commettono soprusi sui semplici e sugli umili. Ma ancora più inaccettabile è la sofferenza dei bambini. Ivan racconta quindi la storia, da lui immaginata, dell’incontro tra un inquisitore nella Spagna del XVI secolo e Gesù di Nazaret, tornato sulla terra dopo circa 1500 anni.

Gesù è accusato di aver dato all’umanità piena fiducia e totale libertà, per l’instaurazione di un mondo fondato sui suoi insegnamenti. L’uomo però si esaurisce nel suo io, che gli impedisce di guardare al di là di se stesso. L’egoismo, il calcolo, le passioni, la sete di potere rendono la vita umana insopportabile e chiusa entro il suo piccolo universo. L’Inquisitore aggiunge poi che la speranza della felicità in un mondo futuro non giustifica le sofferenze degli indifesi e degli innocenti e che quindi Dio è ingiusto. Sentendosi uno dei pochi eletti, egli crede dunque di potersi sostituire a Cristo per condurre l’umanità alla libertà e quindi alla salvezza.

La reazione inaspettata di Gesù di Nazaret di fronte al lungo monologo dell’uomo è il silenzio, è un bacio: durante la sua prima venuta sulla terra Gesù ha già detto quanto aveva da dire. Atteggiamenti che lasciano spazio a diverse interpretazioni – compassione, amore disinteressato, accettazione – ma concordi nel sottolineare che siamo di fronte a una figura più alta, che non si può strumentalizzare, che guarda più in là.

Tu promettesti loro il pane celeste, ma, Te lo ripeto, può questo pane, agli occhi della debole razza umana, eternamente depravata ed eternamente ingrata, paragonarsi a quello terreno? E se migliaia di esseri, o anche diecine di migliaia, Ti seguiranno in nome del pane celeste, che ne sarà però dei milioni e dei miliardi che non avranno la forza di disprezzare il pane terreno per quello celeste? Oppure a Te sono care soltanto quelle diecine di migliaia di uomini bravi e forti, mentre tutti gli altri milioni di deboli, numerosi come la sabbia del mare, e che però Ti amano, devono servire solo da materiale per i bravi e i forti? No, a noi sono cari anche i deboli! Sono depravati e ribelli, è vero, ma alla fine diventeranno anche docili. Essi ci ammireranno e ci guarderanno come dèi, per aver accettato di metterei alla loro testa e di dominarli, sopportando il peso di quella libertà che a loro faceva paura ... tanto diventerà terribile per loro, alla fine, l'essere liberi!

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Gerard van Honthorst, Cristo davanti al sommo sacerdote (1617 circa)

Ma noi diremo che ubbidiamo a Te e che regniamo in nome Tuo. Dicendo così li inganneremo di nuovo, perché noi non ci lasceremo più avvicinare da Te. E proprio in questo inganno sarà la nostra sofferenza, giacché saremo costretti a mentire. Ecco cosa significava quella prima proposta nel deserto, ed ecco che cosa rifiutasti in nome di quella libertà che Tu ponevi al di sopra di tutto! Invece in questa proposta era racchiuso uno dei grandi segreti del mondo. Accettando l'idea dei 'pani', Tu avresti acquetato un'ansia eterna e universale degli uomini, tanto dell'individuo singolo, quanto dell'umanità tutta intera, e cioè questa: 'Davanti a chi inchinarsi? '. Non c'è preoccupazione più continua e più tormentosa per l'uomo, quando è rimasto libero, che quella di trovare al più presto qualcuno davanti a cui inchinarsi. Ma l'uomo vuole inchinarsi davanti a qualcosa che sia ormai fuori discussione, talmente fuori discussione, che tutti quanti gli uomini acconsentano ad inchinarsi, tutti senza eccezione. Perché la preoccupazione di queste misere creature non è soltanto quella di cercare qualcosa davanti a cui si possa inchinare l'uno o l'altro di loro, ma è appunto quella di trovare qualcosa in cui tutti credano e davanti a cui tutti si inchinino, tutti quanti insieme. Proprio questo bisogno di comunione nell'atto di adorare è il più grande tormento di ogni uomo singolo e dell'umanità intera, fin dal principio dei secoli. Per questo bisogno si sono sterminati fra di loro con la spada. Si sono fatti degli dèi e poi si sono sfidati l'uno con l'altro: 'Lasciate i vostri dèi e venite ad adorare i nostri, se no guai a voi e ai vostri dèi! '. E sarà così fino alla fine del mondo, sarà così anche quando gli dèi scompariranno dalla terra: che importa, cadranno in ginocchio davanti agli idoli! Tu lo sapevi, Tu non potevi non conoscere questo segreto fondamentale della natura umana, ma rifiutasti l'unica bandiera invincibile che Ti si offrisse per indurre tutti a inchinarsi davanti a Te senza discutere: la bandiera del pane terreno, e la rifiutasti in nome della libertà e del pane celeste. Guarda che cosa hai fatto dopo, e sempre in nome della libertà!

[…]

Sappi che io non Ti temo. Sappi che anch'io sono stato nel deserto, anch'io mi son cibato di locuste e di radici, anch'io benedicevo la libertà con la quale Tu avevi benedetto gli uomini, anch'io mi preparavo a entrare nel numero dei Tuoi eletti, nel numero dei bravi e dei forti, con l'ansia di 'completare il numero'. Ma mi svegliai, e non volli servire la causa della follia. Ritornai e mi unii alla schiera di quelli che hanno corretto la Tua opera. Lasciai i superbi e ritornai fra gli umili, per la felicità di questi umili. Quello che Ti ho detto si avvererà, e il nostro regno sarà edificato. Te lo ripeto, domani stesso vedrai questo gregge obbediente, che al mio primo cenno si precipiterà ad attizzare i carboni ardenti del Tuo rogo, sul quale Ti brucerò per essere venuto a disturbarci. Perché, se c'è qualcuno che ha meritato più di tutti il nostro rogo, sei proprio Tu. Domani Ti farò bruciare. Dixi ».

[…]

–  E come finisce il tuo poema? – domandò a un tratto con gli occhi bassi.  – Oppure è già finito qui?

–  Volevo finirlo cosi: l'inquisitore smette di parlare, e poi aspetta per un certo tempo che il Prigioniero gli risponda. Il Suo silenzio gli pesa. Ha visto che il Prigioniero l'ha ascoltato fino in fondo, guardandolo sempre fisso negli occhi con uno sguardo dolce e penetrante, e che evidentemente non vuole ribattere. Il vecchio, invece, vorrebbe che gli dicesse qualche cosa, magari anche qualche cosa di amaro, di terribile. Ma ecco Lui gli si avvicina in silenzio, e lo bacia dolcemente sulle vecchie labbra esangui. E questa è tutta la Sua risposta. Il vecchio sussulta. Gli angoli della sua bocca hanno avuto come un leggero tremito. Va alla porta, l'apre, e dice al Prigioniero: «Vattene, e non venire più ... non venire mai ... mai, mai!». E Lo lascia andare, per «le strade buie della città». Il Prigioniero si allontana.

 

F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Sansoni, Firenze 1958, pp. 367-368, 376, 379-380.

Invito alla lettura di Daniela Agostinelli.