Caravaggio, Incredulità di San Tommaso (1600-1601)

     

Michelangelo Merisi detto Caravaggio (Milano 1571 - Porto Ercole 1610)

Incredulità di San Tommaso
1600-1601 ca.

Olio su tela, 107x146 cm
Potsdam, Bildergalerie von Sanssouchi

     

La tela, commissionata a Roma dal banchiere genovese Vincenzo Giustiniani, traduce in immagine l’episodio dell’incredulità di Tommaso, che esemplifica la questione della Verità rivelata e della Misericordia di Cristo nei confronti di chi dubita: Gesù, che aveva detto “Noli me tangere” alla Maddalena, invita Tommaso al contatto, pur dichiarando “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto” (Gv 20, 29).

Rispetto ai precedenti iconografici cinquecenteschi, Caravaggio realizza un’istantanea dell’episodio in una dimensione umanizzata: un Cristo in carne ed ossa scosta delicatamente il sudario per consentire al dito di Tommaso di entrare nella piaga, guidando la sua mano. La luce proveniente da sinistra, vera protagonista dell’opera, mette teatralmente in evidenza il concatenarsi dei gesti riverberandosi sul volto di Tommaso, sospeso tra l’attonito e l’incredulo. Di diversa foggia appaiono la veste di Cristo, drappeggiata come la toga di un antico filosofo, e quelle degli apostoli, non diversamente dall’anacronismo che si coglie nella Vocazione di San Matteo tra l’abbigliamento alla moderna degli astanti e quello di Gesù e San Pietro: un evidente mezzo per accrescere la sacralità fuori dal tempo dell’apparizione e l’attualità vivente dei destinatari del suo messaggio.

La luce e l’oscurità, caratteristiche essenziali dei dipinti di Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, in questo dipinto si equilibrano e quasi si oppongono, come sembrano fronteggiarsi Cristo da una parte, a sinistra, e tre apostoli dall’altra, a destra.
La scena ritratta è quella riportata dal vangelo secondo Giovanni, che narra una seconda apparizione del Risorto, otto giorni dopo una prima avvenuta la sera della domenica di Pasqua, nel cenacolo di Gerusalemme. Ecco il testo trasmessoci dalla comunità cristiana: «Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: "Abbiamo visto il Signore!". Ma egli disse loro: "Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo". Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: "Pace a voi!". Poi disse a Tommaso: "Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!"» (Gv 10,24-27).
Nel dipinto di Caravaggio è la mano di Gesù di Nazaret che prende quella di Tommaso e la dirige, incredula, offrendo all’apostolo il fianco. La tunica di tessuto bianco che Gesù scosta, lascia scoperto il pallore del suo torace, dove è ancora aperta la ferita procurata dalla lancia di uno dei soldati con un colpo inferto, dopo la morte del condannato, per verificarne il decesso.
È proprio tra i lembi di quella ferita, non più sanguinante, che Tommaso, con la fronte aggrottata in un’espressione di incontenibile sorpresa, va a porre il dito indice mentre il Risorto, con il capo chino sull’apostolo, guida con mano ferma la mano di lui, quasi accompagnandone l’esperienza.
Il realismo che Caravaggio intercetta in questa tela rappresenta uno dei caratteri predominanti delle narrazioni delle apparizioni del Risorto trasmesse dai vangeli: il Cristo afferma esplicitamente di non essere un fantasma ma un uomo in carne e ossa, rimprovera la logica e comprensibile incredulità dei discepoli, chiede addirittura di consumare dei pasti insieme a loro. Il modo in cui l’annuncio del Risorto irrompe nella storia, che Caravaggio qui interpreta magistralmente, è quello di un evento reale, esperibile, lontano nel tempo da noi, ma disponibile al tatto dei suoi contemporanei. Quando i cristiani parlano di Gesù di Nazaret parlano di una vera umanità, reale, non apparente; è l’umanità assunta dall’unico e vero Dio che, senza cessare di essere tale, comincia ad essere uomo nel tempo e nello spazio, entrando nella storia. È questa la specificità del cristianesimo, che lo distingue dai tanti modi in cui gli esseri umani, nelle religioni della terra, parlano di Dio, delle sue discese e delle sue visite in mezzo agli uomini. Cristo Risorto non è uno spirito, un angelo, un sogno o una visione, come non sono stati eterei o impalpabili, ma vita umana reale, i suoi anni di lavoro come falegname, la sua consuetudine con i suoi compaesani, la sua predicazione del regno dei cieli, ma anche il tremore e le lacrime sperimentati nell’orto degli ulivi, le catene e i flagelli della passione, gli schiaffi e le spine. Il realismo del cristianesimo è quello di una croce di legno e dei chiodi che tengono crocifisso un uomo che si è dichiarato Dio, Figlio del Padre venuto nel mondo per la salvezza degli uomini. L’Incarnazione di Dio è e resta uno scandalo. Lo è per la filosofia, lo è per la religione, lo è per chiunque.
Il volto sorpreso e aggrottato degli apostoli ritratti da Caravaggio potrebbe essere il volto dei filosofi di tutte le epoche, quando di fronte all’annuncio cristiano, da Platone fino a Nietzsche, si sono domandati: può un Dio farsi uomo? Ma potrebbe anche essere a ragione il volto dei fondatori di religione, da Budda fino a Maometto: può l’Altissimo, l’Altro-dall’uomo, divenire uguale a noi? Fu questo il peso della predicazione dei primi cristiani al mondo greco e nel bacino del mediterraneo: «Il Logos si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).
Parlare di Gesù di Nazaret vuol dire parlare di Dio partendo da una umanità, una umanità concreta come lo sono le labbra della ferita del costato dove Tommaso introduce il suo dito. La credibilità della rivelazione divina è la credibilità di una persona, accogliere la fede è accogliere una persona; il volto di Dio è il volto di Gesù di Nazaret, l’amore di Dio per noi è l’amore dimostratoci da Gesù, morto per i nostri peccati e risorto dai morti. L’atto di fede del cristiano, come quello di Tommaso, che seguirà alla sua esperienza viva del Risorto, non si rivolge ad un personaggio o un ente astratto: è un atto di fede in qualcuno e può formularsi solo dopo averlo incontrato, conosciuto, frequentato.
Gli uomini del XXI secolo hanno la possibilità di ripetere l’esperienza dell’apostolo Tommaso, con la vivezza immortalata da Caravaggio? Chi potrebbe guidare il loro dito nella carne di Gesù Risorto? È un’esperienza che i nostri contemporanei potrebbero fare solo toccando il corpo di Cristo, oggi rappresentato dai cristiani. La carne del Cristo è la loro carne, la sua passione è la loro passione, la sua resurrezione è il loro annuncio del Risorto, ogni domenica della storia, lo stesso giorno in cui Tommaso mutava la sua incredulità in professione di fede: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28).