La coscienza

Romano Guardini
1933

I tre capitoli che compongono il breve saggio di Romano Guardini (1885-1968), tra i massimi teologi del Novecento, riprendono i testi di alcune conferenze e dell'esposizione orale conservano lo stile diretto e discorsivo. L'autore non si interroga astrattamente sul bene e sull'agire morale ma offre alcune "convinzioni personali" circa la natura e il ruolo della coscienza. Nel brano qui di seguito Guardini si sofferma su tre difficoltà cui va incontro la coscienza allorché cerca di riconoscere il bene e di metterlo in atto: la complessità delle situazioni concrete in cui viene a trovarsi l'essere umano; l'irripetibilità e unicità delle circostanze in cui si è chiamati a esprimere un giudizio; la presenza in noi di qualcosa che, inconsciamente, si oppone al bene. Facendo fronte a queste difficoltà, la coscienza riconosce il bene eterno che si deve realizzare in circostanze contingenti e spinge alla determinazione della decisione.

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Romano Guardini (1885–1968)

Coscienza è, anzitutto, quell’organo, per mezzo del quale io rispondo al bene e divento consapevole di questo: «Il bene esiste; ha un’importanza assoluta; il fine ultimo della mia esistenza è legato a esso; il bene bisogna farlo; in questo fare si decide una realtà ultima». La coscienza però è anche I’organo, mediante il quale dalla situazione ricavo il chiarimento e la specificazione del bene; mediante il quale posso conoscere che cosa sia il bene in questo determinato luogo e in questo determinato momento. L’atto della coscienza è dunque quell’atto, col quale penetro di volta in volta la situazione e intendo che cosa sia, in tale situazione, il giusto, e per ciò stesso il bene.

Così la coscienza è anche la porta, per la quale I’eterno entra nel tempo. È la culla della storia. Solo dalla coscienza sgorga «storia», la quale significa ben altro che non un processo naturale. Storia significa che, in seguito a libera opera umana, qualche cosa di eterno si compie entro il tempo.

Ma ciò non corre così liscio e cozza contro difficoltà.

Anzitutto la «situazione» è spesso tutt’altro che semplice. Esigenze molteplici e perfino contraddittorie vi trovano luogo. Le più diverse relazioni d’uomini e di cose vi si collegano, si incrociano e si contraddicono a vicenda. Quanto più desta è la sensibilità per le esigenze degli uomini, delle cose e delle circostanze, tanto più difficile diventa il riconoscere ciò che in definitiva si debba fare. Formare la coscienza vuol dire appunto allargare I’angustia dello sguardo per abbracciare la molteplicità delle forme, superare I’ottusità della sensibilità ai molteplici valoriche ci rivolgono il loro appello, significa che I’uomo affini la sua sensibilità per comprendere a pieno e nelle loro sfumature le esigenze morali. Ma nella misura in cui questo avviene, cresce il pericolo opposto: che egli si perda in questa molteplicità e che a furia di voler vedere, capire e rettificare, non arrivi alla decisione e all’azione.

In secondo luogo: ogni situazione, che mi si presenta, arriva un’unica volta. Essa non è mai esistita prima e non tornerà più. Vi sono, è vero, delle somiglianze. Non è la prima volta che un uomo viene e chiede di essere aiutato. In realtà però esiste, non «un uomo», ma sempre solo «quest’uomo». E che «egli» com’è, si presenti a me, come sono, in queste determinate circostanze e con questa domanda, avviene un’unica volta. E se tornasse anche domani con la stessa preghiera, e per il medesimo favore, si sarebbe modificato in noi almeno questo, che la nostra età avrebbe fatto un passo innanzi e che si sarebbe accumulato in noi tutto quello che dopo I’ultimo incontro avremmo fatto ed esperimentato. Ogni situazione si presenta un’unica volta. Perciò anche ciò che deve avvenire in essa non è mai avvenuto e non tornerà più. Bisogna dunque che venga divinato e strutturato creativamenteper la prima volta. Certo ci giova l’esperienza del passato; ci giovano gli educatori, gli amici, I’ambiente, con princìpi generali e con esempi analoghi. Ci soccorrono il comandamento positivo divino e l’indicazione dell’autorità legittima posta da Dio. Ma con ciò non veniamo esonerati dal compito di afferrare questa situazione nelle sue specifiche particolarità, di interpretarla e di decidere quello che debba esser fatto, per corrispondere appieno alle sue esigenze. E il grado di perfezione dell’azione morale dipende appunto dalla misura, nella quale viene capita la situazione nella sua unicità. Certo abbiamo bisogno della regola. Essa ci mostra quello che vi è di tipico nelle situazioni e ci aiuta così a comprenderle. Ma quanto più nell’agire badiamo a ciò che è tipico, tanto più ci accorgiamo di svuotare la situazione, e ci sentiamo spronati ad attendere al momento contrapposto, vale a dire, a ciò che è specifico, anzi unico.

E ancora una terza cosa: ci fosse pure concesso di volere inequivocabilmente il bene che in tal modo si esige! Ma purtroppo non è così! In verità noi siamo spesso ricalcitranti, se non proprio con la nostra volontà consapevole, almeno con una resistenza incosciente. Quello chela dottrina della fede ci insegna del male nascosto nell’uomo, e cioè della sua resistenza al bene, trova nella psicologia moderna il suo fondamento scientifico formale. Questa ci mostra infatti che noi non siamo mai senza impulsi e senza tendenze della volontà. Anche quando crediamo di esaminare senza prevenzioni e di agire oggettivamente, stiamo sotto l’influsso di impulsi ad avanzare od ostacolanti. Queste incerte circostanze sono del tutto inconsce e perciò inaccessibili alla nostra consapevole esperienza; ovvero provengono dalla subcoscienza e balenano appena ..., e così attraverso tutte le gradazioni di parziali consapevolezze fino alle intenzioni chiare. Questi impulsi però non sono affatto sempre rivolti al bene. Al contrario. E influiscono non soltanto su quello che facciamo, ma anche sulla nostra conoscenza e sul nostro giudizio. Essi deviano lo sguardo dal suo oggetto; accentuano nell’oggetto dei lati particolari o li attenuano; lumeggiano e offuscano; alterano; anzi possono far scomparire del tutto una situazione di fatto.

Ed ecco che appare chiaro quale compito spetti alla coscienza.

Il suo sguardo dev’essere aperto per abbracciare pienamente tutto il contenuto della situazione; per vedere gli uomini, quali sono; per sapere quali siano le circostanze e quali rapporti, e quali esigenze debbano venir prese in considerazione. Questo sguardo deve tenersi libero da tutto ciò che può offuscarlo, impedirlo e distrarlo. Sempre più interiormente deve penetrarlo la limpidezza, la quale sa vedere, perché vuole veramente vedere. Tutta la molteplicità oggettiva della situazione deve venir colta e interpretata secondo la visuale, che ne dia il significato definitivo.

Significato definitivo di una situazione non ancora esistita e che non tornerà più; per la quale posso però e debbo imparare dall’esperienza dell’umanità, dall’esperienza di coloro che mi hanno educato e dalla mia stessa esperienza precedente, poiché il principio universale e l’incontro vivo e concreto si spiegano I’un I’altro reciprocamente. Tutto questo però non mi solleva dal compito di appigliarmi al nuovo che si presenta soltanto qui e di conferirgli forma con gli elementi che esso stesso mi offre; dal compito di guardare e di interpretare, di ardire e di creare.

Ma quando la situazione è tale da ammettere diverse interpretazioni e da non offrire alcuna chiara direttiva per l’azione, allora è la coscienza che deve produrre la decisione. Allora essa deve dichiarare: «Il meglio è questo. Così bisogna agire!». E tale decisione deve mantenerla ed eseguirla.

La coscienza è dunque l’organo per I’eterna esigenza del bene, che deve venire attuato: la coscienza è per I’uomo come una finestra aperta sull’eternità. Una finestra però che allo stesso tempo dà anche sul corso del tempo e sugli avvenimenti quotidiani. La coscienza è l’organo, che trae I’interpretazione del bene, eterno esempre nuovo, dai fatti concreti; I’organo col quale sempre di nuovo si riconosce in qual modo il bene eterno e infinito debba venir attuato nella specificazione del tempo. È un obbedire e al tempo stesso un creare; un comprendere e un giudicare; un penetrare e un decidere.

R. Guardini, La coscienza, Morcelliana, Brescia 1933, pp. 25-29.

     

    

Visita anche:

Theodosius Dobzhansky, La coscienza di sé e la caduta dell’uomo (1962)

John C. Eccles, La teoria darwiniana dell’evoluzione e la coscienza (1981)