La scoperta cristiana del perdono

Hannah Arendt
1958

In Vita activa (1958), tra i testi fondamentali della filosofia morale e politica contemporanea, la filosofa Hannah Arendt dedica alcune interessanti riflessioni al tema del perdono, inteso come rimedio all'irreversibilità e all'imprevedibilità dell'azione umana. Secondo Arendt, il perdono è una facoltà che consente di liberarsi dal peso delle azioni passate, permettendo alle persone di continuare a vivere e agire senza essere intrappolate dalle loro stesse azioni. Mentre la vendetta è una reazione automatica e prevedibile a un torto subito, il perdono è un'azione inaspettata che interrompe il ciclo delle conseguenze e apre la strada alla libertà. Arendt attribuisce a Gesù di Nazareth la scoperta del perdono come necessaria per la comunità umana, sottolineando che è un atto che gli uomini devono praticare tra loro prima di sperare di riceverlo da Dio. Il perdono, pertanto, è un atto liberatorio che permette alla vita di proseguire e agli uomini di rimanere agenti liberi nel mondo.

Immagine
Arendt
Hannah Arendt (1906-1975)

Il rimedio contro l’irreversibilità e l’imprevedibilità del processo avviato dall’azione non scaturisce da un’altra facoltà superiore, ma è una delle potenzialità dell’azione stessa. La redenzione possibile dall’aporia dell’irreversibilità – non riuscire a disfare ciò che si è fatto anche se non si sapeva, e non si poteva sapere, che cosa si stesse facendo – è nella facoltà di perdonare. Rimedio all’imprevedibilità, alla caotica incertezza del futuro, è la facoltà di fare e mantenere delle promesse. Le due attività si completano poiché una, il perdonare, serve a distruggere i gesti del passato, i cui "peccati" pendono come la spada di Damocle sul capo di ogni nuova generazione; e l’altra, il vincolarsi con delle promesse, serve a gettare nell’ oceano dell’incertezza, quale è il futuro per definizione, isole di sicurezza senza le quali nemmeno la continuità, per non parlare di una durata di qualsiasi genere, sarebbe possibile nelle relazioni tra gli uomini. Senza essere perdonati, liberati dalle conseguenze di ciò che abbiamo fatto, la nostra capacità di agire sarebbe per così dire confinata a un singolo gesto da cui non potremmo mai riprenderci; rimarremmo per sempre vittime delle sue conseguenze, come l’apprendista stregone che non aveva la formula magica per rompere l’incantesimo. […]

A scoprire il ruolo del perdono nel dominio degli affari umani fu Gesù di Nazareth. Il fatto che abbia compiuto questa scoperta in un contesto religioso e l’abbia articolata in un linguaggio religioso non è una ragione per prenderla meno sul serio in un senso strettamente profano. La nostra tradizione di pensiero politico (per ragioni che qui non possiamo indagare) è stata per sua natura altamente selettiva ed ha escluso dalle sue articolazioni concettuali una grande varietà di esperienze politiche autentiche, tra le quali non dovremmo sorprenderci di trovarne alcune fondamentali. Certi aspetti dell’insegnamento di Gesù di Nazareth, che non sono direttamente connessi al messaggio religioso cristiano, ma scaturirono da esperienze della piccola e compatta comunità dei suoi seguaci, incline a sfidare le autorità pubbliche di Israele, sono certamente esperienze di questo tipo, anche se sono state trascurate per la loro pretesa natura esclusivamente religiosa. Segni solo rudimentali di consapevolezza del perdono come necessario correttivo ai danni inevitabili derivanti dall’azione si possono riconoscere nel principio romano di risparmiare i vinti (parcere subiectis) – una saggezza interamente sconosciuta ai greci – o nel diritto di commutare la pena di morte (che pure ha probabilmente un’origine romana), prerogativa di quasi tutti i capi di stato occidentali. È decisivo, nel nostro contesto, che Gesù sostenga in primo luogo contro "scribi" e "farisei", che non solo Dio ha il potere di perdonare e, in secondo luogo, che questo potere non deriva da Dio – come se Dio soltanto perdonasse, attraverso la mediazione degli esseri umani – ma al contrario va praticato dagli uomini gli uni verso gli altri prima che essi possano sperare di essere perdonati anche da Dio. La formulazione di Gesù è anche più radicale. Nel Vangelo non si suppone che l’uomo perdoni perché Dio perdona, ma possiamo leggere che, "se perdonerete con il cuore", "anche" Dio perdonerà. La ragione dell’insistenza sul dovere di perdonare è chiaramente nel fatto che "essi non sanno quello che fanno", e non si applica agli estremi del crimine e del male volontario, perché allora non sarebbe stato necessario insegnare: "e se sette volte il giorno egli pecca contro di te e sette volte ritorna a te dicendo ’mi pento’, gli perdonerai". Il delitto e il male volontario sono rari, anche più rari forse delle buone opere; secondo Gesù, di essi si occuperà Dio nel giudizio universale, che non gioca alcun ruolo nella vita sulla terra, e il giudizio universale non è caratterizzato dal perdono ma dalla giusta retribuzione (apodounai). Ma il peccare è un evento quotidiano, nella natura stessa dell’azione che stabilisce continuamente nuove relazioni in un tessuto di relazioni esistenti, ed è necessario che sia perdonato, messo da parte, per consentire alla vita di proseguire prosciogliendo gli uomini da ciò che hanno fatto inconsapevolmente. Solo attraverso questa costante mutua liberazione da ciò che fanno, gli uomini possono rimanere agenti liberi. Il perdono è l’esatto opposto della vendetta, che consiste nel reagire contro un’offesa originale, e lungi dal porre un termine alle conseguenze del primo errore, lega ognuno al processo, permettendo alla reazione a catena implicita in ogni azione di imboccare un corso sfrenato. Diversamente dalla vendetta, che è la naturale, automatica reazione alla trasgressione e che per effetto dell’irreversibilità del processo dell’agire può essere prevista e anche calcolata, l’atto del perdonare non può mai essere previsto; è la sola reazione che agisca in maniera inaspettata e che quindi ha in sé, pur essendo una reazione, qualcosa del carattere originale dell’azione. Perdonare, in altre parole, è la sola reazione, che non si limita a re-agire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata. La libertà contenuta nell’ insegnamento di Gesù è la libertà dalla vendetta che imprigiona chi fa e chi soffre nell’automatismo implacabile del processo dell’azione, che non ha in sé alcuna tendenza a finire.

Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1997, p.175.