Neuroscienze. L’anima alla prova dello scientismo

Andrea Lavazza
2018

La mente è quello che fa il cervello. Spesso i neuroscienziati sono brutali nell’affermare un riduzionismo filosofico che semplifica all’estremo la descrizione dell’essere umano, anche se una concezione cerebralista non significa che siamo diventati trasparenti alla scienza. La complessità densa delle nostre esistenze e l’imprevedibilità di tanti comportamenti ce lo mostrano quotidianamente. Ciò non toglie che una certa immagine di senso comune come soggetti liberi, consapevoli, capaci di autodeterminarci nelle nostre scelte razionali, dotati di un’interiorità cui solo noi possiamo accedere, sia messa fortemente in discussione dalle scienze cognitive contemporanee.
La teologia ha cominciato da tempo a confrontarsi con un’immagine 'scientifica' della donna e dell’uomo, determinati dalla loro costituzione fisica e dalle circostanze ambientali, la cui identità è il continuo aggiustamento di un copione narrativo ricostruito ex post. Tanto che ci si chiede apertamente, soprattutto in ambito riformato, se i cristiani debbano abbracciare qualche forma di materialismo (che cioè non vi sia nulla di più e oltre l’organismo fisico) riguardo la persona umana. Si tratta, come è evidente, di uno spostamento di prospettiva estremamente rilevante e foriero di ricadute difficilmente sottovalutabili.
Si prenda come esempio il dibattito tra i filosofi Kevin Corcoran e Angus Menuge nel recentissimo volume The Blackwell Companion of Substance Dualism. Il primo sostiene che i cristiani devono aderire alla verità, che il materialismo sulla persona umana è vero e dunque i cristiani dovrebbero essere materialisti, sulla base di chiari argomenti scientifici, ma anche filosofici (ad esempio, è problematica la separazione nel creato tra esseri umani e il resto della natura). Il secondo replica che il 'fisicalismo cristiano' non è abbastanza scientifico né abbastanza cristiano, perché esso non sarebbe in grado di dare conto adeguatamente della prospettiva di prima persona (che qualifica la soggettività), di distinguere il sé dal mondo, di cogliere i doveri morali e di permettere intenzioni per agire con uno scopo nel mondo. In questo senso, è di grande interesse ed è meritevole di discussione (ed eventualmente di critica) la proposta avanzata del teologo Leonardo Paris nel suo Teologia e neuroscienze. Una sfida possibile (Queriniana, pagine 334, euro 21,50). Il docente allo Studio teologico di Trento ha composto un volume in cui prospetta, sono parole sue, «una 'congettura diagnostica', cioè un tentativo portato alle sue conseguenze radicali, allo scopo di saggiarne la praticabilità e la vivibilità». Dopo avere dato un quadro accessibile anche ai non addetti ai lavori di quell’immagine scientifica cui si accennava in precedenza, nella terza parte del libro viene dischiusa una proposta tanto originale e stimolante quanto potenzialmente controversa. Posto che la completa naturalizzazione sembra la prospettiva più plausibile allo stato attuale delle conoscenze, dobbiamo concludere – argomenta Paris – che l’uomo è solo materia, dotato però di una complessità sistemica che lo rende qualitativamente di una dignità superiore. In tale quadro, ci si può chiedere: l’anima che fine fa? La risposta è coerente: «Intesa come elemento immateriale separato, l’anima non è un’ipotesi sostenibile».
L’idea è che l’anima abbia un ruolo teologico il quale possa essere sganciato dall’essere o meno una sostanza (come comunemente viene concepita) e possa essere svolto anche vedendola come «un livello di complessità sistemica e funzionale della materia». In particolare, l’anima dice che cosa è l’uomo, come può rapportarsi a Dio e a quale destino è chiamato (l’immortalità). Secondo Paris, che lo illustra in quasi 150 dense e ispirate pagine, tutto ciò non solo è possibile ma è anche meglio comprensibile se si adotta la prospettiva naturalizzata. Il punto chiave è la relazione con Dio, che conferisce valore all’uomo, lo invita a una libertà nuova all’interno della creazione e lo chiama alla risurrezione alla fine dei tempi. La fede quindi illumina una realtà che la ragione (la scienza) ci consegna oggi diversa da quella che siamo stati soliti considerare. Una proposta complessa e non priva di evidenti criticità, che può avviare anche in Italia e in ambito cattolico un dibattito necessario.

Avvenire, 27 giugno 2018.